Dopo il fecondo e partecipato dibattito sulle forme avvenuto su AIN, che ha il merito quantomeno di catalizzare l’attenzione e la riflessione, rispetto ad una pratica entusiasta ed assidua in Aikido, ma non di più, torno sull’argomento; in particolare sento il bisogno di tornare sull’etimo Ai Ki Do.
di ANGELO ARMANO
Se Do vuole grosso modo significare via, metodo, percorso…allora dobbiamo convenire che il significato sta tutto nella parola AiKi.
Come afferma Kono Yoshinori, proveniente dalle file dell’Aikido, l’entusiasmo e la continuità “non modificano la capacità di fronteggiare una situazione reale”, lasciandoci solo il piacere del tutto inconsapevole di quella pratica.
Senza sposare acriticamente alcunché, osservazioni come quella che precede mettono il dito nella cosiddetta piaga: c’è qualcosa di scontato, forse di ingannevole nella pratica “pedissequa”, quella senza riflettere.
“Se una cosa appare come una forma, può essere imitata. Ma l’aiki non è una forma. Gli aspetti essenziali dell’aiki non appaiono come una forma” (Tatsuo Kimura).
Qualcosa che non appare all’esterno, può essere cercato solo all’interno di noi. Il guaio è che è la cosa essenziale; come dicevano a Carosello quando ero bambino: “Basta la parola”.
E’ chiaro che occorre uno sguardo introvertito.
Quando lessi “Tipi psicologici” di Jung, quello nel quale si distillano le categorie di introverso ed estroverso, diffusissime e a sproposito, ne fui del tutto disorientato e lo sono tutt’ora; ho ancora l’impressione del tentativo di mettere il mare in un cassetto.
Introverso non è colui che non vede il mondo esterno, quello delle forme tanto per capirci, ma colui che lo interpreta a partire dal suo sentire interno, per lui evidente. L’estroverso, al contrario, non sente di avere una vita interiore, se non convalidata dall’evidenza di quello che gli viene da fuori; se non glielo dicono, per lui il mondo interiore non ha realtà. Per lui Psyche e mente sono la stessa cosa.
Il positivismo scientifico è esemplarmente estroverso, tendendo a non considerare quello che non è evidente nel mondo materiale, con tutti i vantaggi e i limiti che questo comporta.
Jung si serve degli esempi mitologici di Prometeo ed Epimeteo e, beninteso, non esistono tipi puri, ma tutti siamo, in diversa personalissima misura, introversi ed estroversi al tempo stesso. Quasi tutti inconsapevolmente!

I periodi storici allo stesso modo degli individui, vengono caratterizzati da prevalente introversione ed estroversione e, secondo voi, l’epoca attuale caratterizzata dai social networks e dalla televisione che “ci guarda”, a quale categoria appartiene?
Tornando all’Aikido la sua pratica appare materialmente estroversa, quasi necessariamente, ma ci viene detto dalla fonte più autorevole che ci sia, che il nemico è dentro. Se è così, come faccio a vederlo, come imparo a riconoscerlo e a renderlo progressivamente inoffensivo?
Sbattendo uke a destra e a manca? Dovrebbe essere questa l’armonia (Ai)? O la passerella di chi sia posto gerarchicamente più avanti, l’Epimeteo di turno…
Le discipline spirituali (Ki), a parole sono tanto di moda, perché il loro bisogno è costellato proprio ex adverso da un andamento collettivo sfacciatamente unilaterale, e in un senso genericamente contrario a ciò che avveniva, per esempio, nel medioevo. Tendono ad evidenziare una realtà interiore, non meno efficiente ed autonoma di quella esterna.
Tra coloro i quali si sono avventurati nel mondo cosiddetto dello spirito (religiosi, filosofi alchimisti, letterati, psicologi, artisti…) non pochi hanno ritenuto di individuare delle connessioni tra mondo interno e mondo esterno. Qualcuno, lo stesso Jung ha parlato di Unus Mundus (altrimenti in che modo le nevrosi o anche le paralisi isteriche potevano essere guarite con le parole?) e la capacità di connettere il dentro e il fuori è l’oggetto e lo scopo ultimo, la quintessenza di molte discipline o vie (Do).
L’Aikido è a buon diritto, nonché in maniera originalissima e intrigante, una di queste.
Basta la parola…
Vorrebbe ripristinare l’armonia intrapsichica e interpersonale, con noi stessi e con gli altri.
Per prima cosa insegnandoci a riconoscere che il nemico è la sconnessione, il mancato pieno riconoscimento del dentro e del fuori, e di come si articolano tra di loro. Così alimentando, se ne siamo inconsci, equivoci a non finire.
Una disciplina interpersonale, che ci schiaffeggia se siamo troppo inclini ai voli pindarici, ma che NON FUNZIONA, che manca del tutto il suo scopo se non siamo altrettanto “concreti” nel mondo interiore.
“Non potete imitare ciò che faccio. Ogni tecnica è unica, è un’esperienza che avviene una sola volta. Le mie tecniche EMERGONO liberamente, sgorgano come getti da una fontana. Invece di copiare ciò che faccio, ascoltate ciò che dico. E’ lì che risiede l’essenza delle tecniche… Un giorno capirete.”
Debbo a Marco Rubatto la conoscenza di tale affermazione riferita a Morihei Ueshiba. Per quanto mi riguarda, ne sono certo, ravvisando pure dalle stesse parole utilizzate, la necessità di far affiorare il nascosto.
L’Aikido diviene, come il percorso personale del suo Fondatore, l’arte della pace, gettando luce sugli equivoci dei rapporti tra mondo interno e mondo esterno. Ciò che è meno sviluppato (la funzione psichica regressiva, direbbe Jung) deve essere sviluppato, in modo da rendere possibile armonia.
Suonando la grancassa, è obbiettivamente difficile ascoltare le note di un flauto che suona vicino.
Se la grancassa non sa tacere, è possibile solo prevalenza, non armonia.
E’ quello che succede nella nostra società e, pari pari, nel mondo dell’Aikido.
Un Aikido senza AiKi.
Copyright Angelo Armano© 2013
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E’ un ottimo articolo, sotto tutti i punti di vista, che lancia qua e là dei cenni di ulteriori connessioni.
La definizione dell’Aikido come via della riconnessione tra interno ed esterno, della loro copresenza ed integrazione nell’istante di coscienza è fondamentale [lo dice un INFP… e mi sa che non sono il solo, qui in giro 🙂 ].
Mi resta una domanda in mente: ma l’aiki di Ueshiba era proprio lo stesso del Daito?
Per precisare, è possibile che la pratica del chinkon kishin abbia influenzato il concetto base di aiki, modificandolo?
Che non si tratti solo di conpresenza di interno ed esterno, come due mani che si sovrappongono al di là di un vetro, ma di scoprire che il vetro stesso sia illusorio?
Una delle basi dell’aiki, ad esempio, come manifestato da Sugawa ed Okamoto è il contatto, che può essere anche mediato attraverso un oggetto, come un bastone, un ventaglio ecc.
E’ come se fosse un aiki “direzionale”, si manifesta nei confronti di uno o più target.
Ma quello che mi ha sempore colpito di O-Sensei è la consapevolezza dello spazio intorno a Lui che si esprime nel movimento, come se la sua spada o ventaglio fosse anche il terreno sotto i piedi, l’aria intorno a noi, le pareti di una casa.
Tutto contemporaneamente.
E qui mi fermo.
Avevo già scritto qualcosa in risposta a Valentino, ma sono completamente maldestro sul web e non so se è partito. Oppure abbiate compiacenza se arrivano più cose…
Sei davvero raffinato che dovrei evitare di chiosarti.
La risposta sull’aiki di Ueshiba e quello di Takeda te la dai da solo, da buon INFP. La potenza di connessione è archetipica, come ho scritto su un mio piccolo essay: “L’Aikido di Morihei Ueshiba e la coscienza dionisiaca” pubblicato sulla Rivista dei Dioscuri, il cui ultimo numero però tarda ad uscire.
Unus Mundus non può essere separato, neanche dal vetro, che pur simboleggia quella visione in trasparenza di cui abbiamo tanto bisogno, per riconoscere il nemico interno. Una banale retorica giuridica parlerebbe di due facce della stessa medaglia, ma la meccanica quantistica sottolinea la contaminazione degli aspetti e dei livelli…
Aiki direzionale, contatto, e pure senza contatto…aiki-doisti di tutto il mondo unitevi direbbe un Engels contemporaneo!
Angelo Armano