
Utilizzando la classica forma letteraria dell’epistola ad un amico, il nostro Angelo Armano ci porta ad affrontare alcune tematiche con cui – volenti o nolenti – tutti prima poi ci dovremo confrontare
di ANGELO ARMANO
Cara,
se ci sono cose che dobbiamo fare, anche se non ci fa piacere, ce le dobbiamo far piacere. Le dobbiamo accettare.
Sono tantissime le cose che non ci fanno piacere e con cui dobbiamo fare i conti.
Studiare fino alla morte (1) è l’attuazione di questo principio; superare il limite, andare oltre quello che si è fatto, oltre la capienza interiore. Non vivere di rendita.
La vita crea situazioni ingiuste, produce equivoci; anche se uno è innocente passa per colpevole, come ben conosco dal mio mestiere.
A livello sociale, nel tribunale, io provo a far assolvere. A livello spirituale, soprattutto se la cosa riguarda me, mi limito ad osservare, sto a guardare cosa succede.
E se viene la morte, una fine ingloriosa, ingiusta, come ricevere un torto senza averlo meritato… allora viene la morte!
Mi pare che sia proprio la filosofia dei guerrieri del tuo paese: Bushido, Hagakure…
La differenza è che il medio evo è passato, oggi non si porta la spada e io non faccio seppuku; devo saper vivere il livello atemporale, quello psicologico e spirituale di tutto questo.
Che poi è il livello della Verità, che non è fuori, ma dentro di noi.
Se ho paura dell’ingiustizia, se ho paura della morte, tutta la mia vita sarà una fuga davanti alla morte, col paradosso di condurmi trafelato e ignaro proprio tra le sue braccia.
Se accetto di morire (nell’anima), allora dopo viene un altro uomo.
Prima non posso sapere chi è quell’uomo nuovo, quali caratteristiche ha, come mi sono trasformato.
Probabilmente agli occhi della personalità precedente, l’uomo nuovo può persino non piacermi; non avrei scelto essere così. Ma non sono io che comando.
Chi comanda è il Sé, il destino o chiamalo pure Dio. Se ti armonizzi col destino, il destino si armonizzerà con te.
Il meglio è fare awase, come insegna l’Aikido, fare awase con chi viene per ucciderti. Come è in ogni caso il destino, prima o poi.
Solo che il 99,99% di quelli che fanno Aikido, nel migliore dei casi parlano di queste cose.
Il problema è farlo, per davvero, e non sul tatami che è il luogo dove si fanno solo degli esempi, si mostra il come, e a un livello visibile. Ma il cuore dell’Aikido non si vede.
L’Aikido non ha forme, se non le forme con cui il destino ti viene incontro, e non ti dice prima come sarà l’attacco.
Lì c’è il tuo problema: risolverlo significa cambiare personalità.
Trasformare la materia fa male e non solo una volta. Fa male e male ancora, anche quando meno te l’aspetti.
Quando dico che non so cosa voglio, ma so cosa non voglio, questo riguarda solo il livello in cui posso scegliere. Lì non mi creo l’alibi degli altri, di quello che pensano di me, di quello che si aspettano da me. Penso solo a fare awase con la personalità profonda, con il Sé, che normalmente non manca di segnalare come stanno veramente le cose, persino di dare indicazioni.
Quando le accolgo, mi assumo la responsabilità delle mie scelte, agli occhi degli altri, che normalmente non capiscono.
Gli altri non è che mi sono indifferenti. Più vado avanti più provo un’enorme com-passione per tutti.
Ma gli altri non possono saperlo, non possono capirlo… se non vogliono.
In memoriam del caro Francesco Verona.
1) Quello che è divenuto il mio motto:
Ringraziare per il passato.
Lanciare una sfida per il futuro.
Studiare fino alla morte.
Copyright Angelo Armano© 2013
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Sono certo che parlando della morte, si riferisse sla anima dell’uomo… è vero che si deve studiare sempre. chi pensa di sapere tutto… è tutto quel che sa… nell’awase si cerca l’unione e l’armonia con l’avversario ma non per vincere ma per sentire il suo cuore, il resto verrà da se…se impariamo a dimenticare ciò che abbiamo appreso.
Finalmente un post di tutto rispetto che, almeno apparentemente, denota un approccio diverso all’Aikido, ma preferirei dire all’arte o alla via marziale che è poi la traduzione di Budo. Non le solite stucchevoli e sdolcinate riflessioni di praticanti intrisi di spirito new age, i quali si chiedono quante ukemi devono fare sul tatami prima di conseguire la perfezione tecnica assoluta cui, secondo loro, subentrerebbe l’espiazione e la liberazione dal mondo fenomenico. Quanto piuttosto, una serie di considerazioni sotto forma letterario-epistolare sull’essenza stessa di questa disciplina. Un’essenza che poi, come dice l’autore, è la medesima della vita, che crea situazioni ingiuste, produce equivoci; anche se uno è innocente passa per colpevole. Una vita che è il palcoscenico in cui si svolge il dramma esistenziale dell’individuo lasciato a se stesso in balìa dell’indifferenza cosmica a ricercare la qualità furiosa della serenità. Oppure un centro di gravità permanente, come cantava Battiato qualche decennio fa.
Non scevra, quest’epistola, peraltro e ribadisco, apparentemente, di suggestioni letterarie che spaziano da Nitobe a Mishima. Penso all’opera di quest’ultimo “Sole e acciaio”, ad esempio.
A me questo scritto piace, è letterario e realistico allo stesso tempo. Propedeutico a quella che deve essere la vera pratica e non solo sul tatami.