“L’Aikido non è un’istituzione necessaria, come le poste e telecomunicazioni. Si fa per amore, perchè ne torni amore. Se qualcuno vuol porre rimedio alla disoccupazione, creando posti di lavoro con l’Aikido o cercandosene, lo sta uccidendo”
di ANGELO ARMANO
Andrè Cognard in uno dei suoi libri affronta en passant l’argomento, citando la risposta che gli diede il suo maestro Kobayashi, incoraggiandolo a tanto.
Nella biografia di Tada Hiroshi sensei, l’argomento si espone da solo quando lo stesso, narrando della sua venuta in Europa, fa riferimento ai pochi soldi di cui disponeva e all’impegno morale di non affiancare un lavoro all’insegnamento dell’aikido, per vivere.
Per quanto mi riguarda, appartengo ad un ordine professionale e dovrei ben conoscere i requisiti e i vantaggi del professionismo. Quello che è codificato e disciplinato, dovrebbe dare le migliori garanzie sulla qualità del servizio prodotto e, ad un certo livello, non può essere che così.
Nel significato della parola professione (dal latino pro-fiteor) è implicita una “fede” che però non sempre vediamo contemplata, nella realtà di tutti i giorni delle varie istituzioni. Questo anche perchè fede implica un relazionarsi a qualcosa che non è materialmente palese nella quotidianità, qualcosa che pur riguardandola, la trascende. Sarà un dovere morale, un significato profondo che sfugge ai più, un livello spirituale, ma nell’etimo di professione questo richiamo è fondamentale. Sarebbero (e forse lo sono) del tutto inutili quei residui di cerimonia iniziatica, in cui al neo adepto dell’ordine dei medici, viene chiesto di far proprio il giuramento di Ippocrate e a noi avvocati di bene e fedelmente adempiere ai nostri mandati. La prassi non è sempre confortante.
Il diffuso materialismo si pone come antitetico a quel qualcosa di trascendente su cui esercitare quella fede, che dalla parola professione viene richiesta; la prassi finisce per saturare ed accantonare l’aspettativa morale, lo sfondo psicologico, il livello spirituale che andava contemplato e le istituzioni collettive professionali, si propongono come del tutto insensibili e forse impotenti a riguardo. Forse che scuola, sanità e giustizia, sia pure con le debite eccezioni, vanno bene?
Riguardo all’Aikido mi hanno insegnato che differisce dagli altri sport di combattimento perchè è un’arte e per giunta marziale. Prendendo per buona l’affermazione, osservo che l’arte ci prende, che è più vocazione rispetto al lavoro, che ha un rapporto indefinibile col danaro e che implica turbamenti mal conciliantisi con il cosidetto salario e le aspirazioni di “bella vita”.
L’arte non si imprigiona in categorie, si fa contemplare e, se è tale, eleva lo spirito, propone comunicazione di significati, un po’ come fanno quelle due paroline: Ai e Ki.
Goffredo Parise, giornalista e saggista, inviato nel Viet Nam negli anni settanta, ebbe a dire una volta che in Italia “Chi sa, fa, e chi non sa… insegna). Inutile sottolineare che l’affermazione mi ha colpito e la degenerazione andante, implicita nella parola professionismo (che mi suona male come tutti gli …ismi), contribuisce a far emergere il mio punto di vista. Il motivo per cui lo propongo è proprio di suscitare confronto dialettico, se verrà.
Precondizione per l’arte è un Eros, un daimon artistico, qualcosa che non si iscrive al sindacato, non si protegge in parti politiche e istituzionali, non si identifica con centri di potere. Tutte queste cose esistono (e bisogna farci i conti!), ma sono estranee all’ontologia di arte, che anzi ne viene messa a repentaglio, ove non sia chiara e radicata nel cuore dell’uomo-artista.
Un momento chiave della vita di O Sensei e della creazione dell’Aikido, è quello della rinuncia alla rinomanza sociale, che pur poteva essere un fine di tutto il suo impegno e dei suoi sacrifici.
Lui che era ammirato e rispettato dalla crema della società di Tokio, istruttore del fratello dell’Imperatore (allora ancora divino), esempio di valori marziali da utilizzare per fini bellici, divenuto consapevole (lui che da giovane e piuttosto bassino si era appeso agli alberi al fine di allungarsi, pur di non essere scartato alla leva) della rovina a cui si approssimava la sua patria, portata a ciò da quell’establishment politico-militare, e della contraddizione di quei valori con quanto gli si andava elaborando dentro, si ritirò in campagna a zappare la terra, quasi a far la fame,assistito devotamente da pochi giovanotti affascinati dal suo carisma.
Il senso del daimon, come la traslitterazione dal greco implica, non è estraneo alla nostra matrice culturale, così come era palesemente tangibile, nonché riferito da lui stesso, nella vita di Morihei Ueshiba. L’arte è il modo di farsi palese del daimon, l’incarnazione di quell’eros, di quel qualcosa di trascendente che va “professato” e che sovente non è sincrono all’andamento del sociale.
Se la società patisce gravi contraddizioni, se finisce per porsi troppo frequentemente all’antitesi di quell’amore (eros, appunto) equivalente alla Vita stessa, i suoi schemi saranno impeditivi della sua manifestazione. E’ qui che si pone la scelta tra l’essere artista (anche in senso religioso) e l’essere un normalmente alienato cittadino, succube degli schemi.
L’artista ha un rapporto privilegiato con l’amore e la sua arte è guardare l’amore fisso negli occhi. Il genio unico di O Sensei consiste (come il buon Orazio che affermava: “Nihil umani a me alienum puto”, non considero a me estraneo nulla che sia umano) nel riconoscere la fonte umana del gesto bellico e di mostrare l’arte di ricondurlo ad un amore, umano ed anche sovrumano.
Tutto ciò è molto lontano dalla società corrente, anche dalla società che fa Aikido. Se schemi e steccati non ci consentono, di essere l’amore… che ci fa essere, se qualcosa vuole limitare il nostro comunicarci valori ed esperienze, urge un ripensamento della società dell’Aikido.
L’Aikido non è un’istituzione necessaria, come le poste e telecomunicazioni.
Si fa per amore, perchè ne torni amore. Se qualcuno vuol porre rimedio alla disoccupazione, creando posti di lavoro con l’aikido o cercandosene, lo sta uccidendo. E’ emersa spontaneamente la mia risposta sul professionismo.
Al di là di schemi sociali (abbiamo pur preso una laurea), l’Aikido ha bisogno di propagatori e salvo poche eccezioni, non di gente che vive di Aikido e grazie all’Aikido. Necessitiamo di persone che adempiendo agli obblighi sociali e riconoscendone le contraddizioni, utilizzino l’Aikido come metodo per riportare amore nel luogo della sua alienazione: la nostra quotidianità. Il tatami come luogo per riimparare la coordinazione dei vari livelli dell’essere, sulla lunghezza d’onda dell’amore, che dell’essere è precondizione ed equivalente. Da lì, nel compito senza fine di apprenderlo, testimoniarlo nel quotidiano, umilmente, ma autenticamente.
Probabilmente, con ikkyo, irimi e tenkan, non materialmente e letteralmente, ma trascendendoci progressivamente verso il livello etere dello stupa, quello che opera sul mondo immaginale, psicoide, vera fonte di tutti i nostri gesti. E’ l’unico livello che può, eventualmente, “persuadere” una pistola! Un compito arduo, marziale nel senso pieno della parola, un compito sofferto. Altro che stipendi e stili da Provveditorato agli studi!
Se professione senza fede è negazione, a maggior ragione come si può essere professionisti di un’arte? Si può vivere d’arte, con tutte le precarietà e gli alti e bassi connessi, tramite un rapporto fortemente selettivo col successo e, negativamente, con lo star system.
Se l’arte poi, nello specifico, è ricongiungersi con la profondità, da cui tende a separarci l’appiattimento sociale e la sovraesposizione mediatica dei sentimenti negativi, è estremamente difficile che il riconoscimento giunga dal luogo che li celebra. Quel luogo potrà accettare quell’arte solo per snaturarla, per piegarla alla sua way of life.
Copyright Angelo Armano© 2007
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Pubblicato per la prima volta su
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Riferendomi alla relazione tra l’aikido e le arti in genere occorre ricordarsi che l’aikido si pratica sempre almeno in due, spesso altre arti si possono vivere anche da soli (pittura scultura musica etc..) Ciò detto ci sono e ci sono sempre stati artisti dilettanti e artisti profesionisti, senza che questo implichi per forza un criterio qualitativo a vantaggio di una o l’altra categoria, è semplicemente una scelta, chi sceglie di vivere coi proventi di un lavoro e dedicarsi ad un’arte nei momenti di tempo libero, e chi sceglie di vivere coi proventi dell’arte a cui si dedica. Chiaramente questo implica una relazione di causa ed effetto che può avere pro e contro, ma ribadisco, non ha nulla a che fare con la qualità dell’arte espressa o della purezza con cui viene vissuta.
Occorre poi fare un’altra fondamentale distinzione, non si è professionisti dell’arte dell’aikido ma del suo insegnamento. Questo esplicitamente perchè l’arte si pratica quando si partecipa ad un keiko, ripeto, l’arte dell’aikido si fa in due mentre si pratica. L’insegnante, che poi è l’unico ruolo che attualmente venga svolto da alcuni a titolo professionale si occupa di insegnare tecnica, metodi e spunti di riflessione perchè l’arte possa essere appresa e affiorare nei praticanti che decidono di apprendere da lui/lei. Trovo estremamente pericoloso affiancare l’insegnamento all’espressione artistica, specialmente se si tratta di aikido, perché i demoni del culto della personalità, della spocchia e della violenza si annidano benissimo negli angoli formati da questo accostamento, che chi vuole fare arte si bagni di sudore praticando, per tutta la sua vita, senza mai smettere di cadere e di rialzarsi con rinnovato entusiasmo, perchè sentirsi artisti facendo fare aikido agli altri limitandosi ad insegnarlo è illusorio e costruisce quei miti che meritano, uno dopo l’altro, di essere smontati. L’ho scritto da un’altra parte ma lo ripeto volentieri , il mio lavoro è insegnare Yoga e Aikido, Io amo il mio lavoro e le persone con le quali sto quando lavoro. Amo praticare Aikido e infatti oltre a partecipare a quanti più stage altrui posso spesso chiedo a qualche mio allievo di tenere lezione al dojo in modo da praticare e basta, sudare, cadere e rialzarmi con rinnovato entusiasmo. Arte, amore e lavoro, nulla di più nulla di meno, perfettamente in armonia tra di loro.
Con amicizia,
Max
Grato dell’attenzione, leggo con interesse la risposta di Max Gandossi e non vorrei stupire nessuno dicendo che la condivido, senza per questo rinnegare ciò che ho scritto. Non trovo da eccepire ad un’etica del professionista come la tratteggia lui; mi preoccupo delle organizzazioni, di chi le comanda e ne trae gli utili. Allora quell’etica individuale anche dell’anonimo insegnante, abbinata al bisogno quotidiano, ha ottime possibilità di andarsi a far benedire.
Quest’articolo era stato già pubblicato su Aikido e Dintorni ed aveva provocato, tra l’altro, la risposta sdegnata di Nino Delli Santi, che si ritiene -non a torto- un buon professionista. Da avvocato dico che persino tra gli avvocati si può trovare un buon professionista, per cui le eccezioni si giustificano anche in Aikido. E normalmente confermano la regola.
Nel maturare le nostre opinioni, che tali rimangono anche se pienamente sentite, ma con le quali pur ci regoliamo nelle scelte che facciamo, siamo figli delle nostre esperienze. Con Nino parlandoci da vicino e praticando, abbiamo eliminato i fraintendimenti, gli equivoci delle posizioni così come separatamente le avevamo espresse. Abbiamo fatto Aikido, nulla di meglio.
Con altrettanta amicizia,
Angelo
Grazie per la risposta, illuminante , condivido che le difficoltà si riscontrano davvero negli ambiti organizzativi e pur credendo in una logica trotskyana non ho ancora abbastanza esperienza e dimensioni per poterne fare le Lodi come modello o proporre una soluzione, spero di non sporcarmi mai con le devianze che originano dalla gestione del potere e di non farmi mai sedurre dalla lusinga che alimenta l’ego, ci sto molto attento , spero che basti! Grazie ancora e speriamo di incontrarci su un tatami per praticare insieme. Max