Il Rispetto, gli Idoli e la Sottile Arte del Branding


Iwama Dojo: tanti simboli, nessuna foto...

La foto del Fondatore sul lato d’onore del Dojo è ormai un fatto normale e consolidato. Tuttavia cosa rappresenta e chi ha deciso che ci debba essere e perché? Sicuramente non Morihei Ueshiba, che nel suo Dojo rendeva omaggio ad un principio incarnato in una massima scritta, e non all’immagine di un comune mortale – che, sospetto, tirerebbe rapidamente fuori dalla finestra…

di SIMONE CHIERCHINI

L’abitudine di collocare sul lato d’onore del dojo la foto del fondatore di un’arte marziale – o anche di un maestro che ha contribuito notevolmente al suo sviluppo – non è tipica esclusivamente dell’Aikido, ma è presente anche in altre discipline del Budo. Se da un lato può apparire come un gesto bello e colmo di gratitudine, poiché inspirato dal desiderio di rammentare sempre a tutti – insegnanti e allievi – di rivolgere un saluto e un ringraziamento, ogni volta che ci si accinge a praticare, verso i grandi maestri di cui sopra, la valenza profonda della presenza delle foto sul kamiza e dell’atto di inchinarsi ad esse meritano un esame e una riflessione più attenta.

La riflessione cui ho accennato chiaramente non si prefige di mettere tanto in discussione il rispetto da attribuire ai predecessori, quanto l’opportunità di inchinarsi di fronte alla loro immagine posta sul lato d’onore del dojo; se il rispetto e la gratitudine sono le ragioni di esporre le immagini sopra citate, non sarebbe allora sufficiente collocarle semplicemente altrove all’interno della sala di allenamento?

Il luogo dell’inchino non dovrebbe essere riservato al principio astratto cui si è dedicato il proprio lavoro? E se così non è, perché succede e quali situazioni riflette e genera?

La prima cosa da puntualizzare è il fatto che anche se in altri stili esporre e riverire una foto sul kamiza sia consueto, accettabile e onorevole, questo per noi è del tutto ininfluente. Infatti da una parte in molti stili non lo si fa affatto, dall’altra tra quelli che lo fanno, fanno pure tantissime cose che noi non facciamo, e anzi aborriamo, quindi…

Già sento piovere le prime pietre… “tutti i grandi maestri che ho visto si sono sempre inchinati di fronte alla foto del Fondatore, e se lo fanno loro, dimostrando profonda umiltà e rispetto, a maggior ragione e di buon grado lo farò io e insegnerò a farlo ai miei allievi“. Il questionare la presenza della foto sul kamiza sarebbe quindi un atto di superbia e un attacco alla tradizione, altrui o nostra.

Ora, è palese che nessuna ricerca onesta potrà mai ottenere alcun risultato, se ogni passo fuori dal prestabilito verrà considerato come un gesto di arroganza e superbia e immediatamente rigettato. Anche l’elemento rispetto della tradizione marziale o aikidoistica antecedente come causa di accettazione del’abitudine di cui all’oggetto è quanto meno debole. L’Aikido è un’arte di tale dirompente rottura rispetto alle tradizioni marziali nipponiche precedenti, il suo divenire così inarrestabile che giustificarne elementi importanti con il rispetto della tradizione interna o esterna alla disciplina è sbagliato e fuorviante. Non possiamo tirare fuori e riporre nel cassetto la tradizione a seconda che confermi o meno quello che intendiamo argomentare. Tra l’altro O’Sensei non aveva sul suo kamiza nessuna foto dei suoi pur grandissimi mentori, Denisaburo Oguchi e Sokaku Takeda.

Se ognuno di noi insegnanti ponesse la foto del proprio maestro e dei suoi onorevoli mentori sul lato d’onore, fra 20 generazioni di aikidoka che faremmo? Dovremo costruire un’estensione del dojo, perché nel frattempo lo spazio disponibile sul muro si sarà esaurito! Inoltre, l’umiltà e il rispetto per i predecessori si manifestano con le azioni fatte in accordo con il loro insegnamento, non facendo inchini che questi maestri non hanno mai richiesto, e per cui probabilmente si irriterebbero e imbarazzerebbero, se per assurdo ci vedessero farli…

A noi tutti è stato insegnato a compiere il gesto del saluto alla foto del Fondatore dell’Aikido, Morihei Ueshiba sensei, e anche ai più evoluti e studiosi tra noi raramente viene in mente di domandarsi il perché. Per alcuni di certo simboleggia cose più alte rispetto all’inchino davanti all’immagine di un maestro, non lo metto in dubbio. Per alcuni può arrivare a simboleggiare il patto stipulato con sé stessi e che ha come fine la ricerca della propria strada nel rispetto dei principi generali delineati da O Sensei.

Tuttavia, se così è, perché allora non usare uno scroll con la calligrafia Aikido?

Se arrivati a questo punto vi siete già irritati e mi state riempendo di improperi, ricordatevi che io sto proponendo spunti di riflessione, non sto dicendo a nessuno cosa fare. Se le mie semplici argomentazioni logiche vi hanno fatto arrabbiare, a maggior ragione dovresti dedicargli un paio di secondi… Spesso e volentieri il vostro maestro, o il maestro del vostro maestro è stato anche il mio, e non ho timori nell’affermare che la sua foto dal lato d’onore l’avrebbe fatta volare dalla finestra…

Torniamo al punto: ci hanno abituati a seguire un determinato cerimoniale. Io ho il brutto vizio di chiedermi sempre il perché delle cose, dato che i gesti che eseguiamo in un’arte formale come la nostra non sono mai casuali e mai senza conseguenze. Arriva allora il momento di farsi un paio di domande  insidiose: chi e perché ha voluto trasformare un uomo – Morihei Ueshiba – in un kami, quando costui era di carne e ossa e l’inchino invece lo faceva alla divinità Aiki?

Rispondetemi poi ad un’altra domanduccia innocente: se volete rivolgervi a nostro Signore, lo fate direttamente o parlate ai santi? Per parlare al proprio dio, quale che sia, c’è bisogno di speciali intermediari, altrimenti dio non ci ascolta? Oppure siamo noi che continuiamo a creare sovrastrutture cui attaccarci, invece di mirare al cuore delle cose?

È incontrovertibile che se si è sul tatami alla ricerca della ricomposizione dell’io nell’essere, non ci possono essere intermediari cui dedicare gesti che vanno invece offerti tutti e solo al principio. Il resto è sovrastruttura e una ricerca vera non ha spazio per le sovrastrutture.

La logica e l’uso delle fonti iconografiche possono aprire qualche spiraglio di comprensione sul perché di certe sovrastrutture, che di sicuro non hanno nulla a che fare con il volere del Fondatore, a meno di non considerarlo un vecchio vanesio e contafrottole, e non sarò certo io a farlo.

Santo cielo! Il Kami è vivo e si muove...
Santo cielo! Il Kami è vivo e si muove…

Guardate questa foto dei primi anni 60. Il kami è ancora vivo, ma la sua foto è sul lato d’onore dell’Aikikai Hombu Dojo di Tokyo!

Niente foto, il maestro è ancora di carne e ossa...
Niente foto, il maestro è ancora di carne e ossa…

La seconda foto è precedente di qualche anno. In questa immagine la foto sul kamiza ancora non c’è… Da un certo punto in avanti è cambiata la politica di gestione dell’immagine del Fondatore?

Non voglio andare oltre… solo un cieco non può vedere cosa è stato fatto e perché. Si chiama branding.

“Il brand management è l’applicazione delle tecniche di marketing a uno specifico prodotto, linea di prodotto o marca (brand). Lo scopo è aumentare il valore percepito da un consumatore rispetto a un prodotto, aumentando di riflesso il brand equity (valore del marchio o patrimonio di marca). Gli operatori del marketing vedono nella marca la “promessa” implicita di qualità che il cliente si aspetta dal prodotto, determinandone così l’acquisto nel futuro”. (Tratto da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

Quanto appena suggerito non è una questione da poco e la lasciamo alla coscienza e alla consapevolezza di ciascuno. Anche se il mettere in discussione gli assunti di una comunità allo scopo di fare ricerca può mettere a disagio molti, a cominciare dai grandi enti che gestiscono l’Aikido moderno, le domande da porsi sono tutto meno che banali. Non è accettabile di ricercare a compartimenti stagni, e non è questione di voler essere iconoclasti ad ogni costo. Il mio amore per l’Aikido e il suo fondatore non credo che possano essere messi in dubbio. Tuttavia sono incapace di spegnere le mie capacità logico-razionali in nome di sospette richieste di rispetto o di fideismo a priori.

In ogni caso, già solo il fatto che oggi sia possibile scrivere un articolo su questo soggetto senza finire marchiati a fuoco sull’indice dell’Aikido universale è segno del cambiamento dei tempi, e per una volta in positivo. Neppure troppi anni fa chi si fosse azzardato a suggerire certe tematiche sarebbe stato disintegrato dai vertici delle organizzazioni di riferimento e schifato dai colleghi come un paria, un’apostata. Vuole forse dire che siamo ormai pronti a fare il prossimo passo, cioè a rimettere il nostro grande vecchio dove dovrebbe stare, cioè fra noi, in una posizione di assoluto rispetto e amore, ma giù dai muri e dalle vette dell’Olimpo? Staremo a vedere.

Studiare Aiki non necessita né richiede atti di adorazione nei confronti di un essere umano, a prescindere da quanto buono sia stato quello che costui ha prodotto. La politica di gestione dell’immagine del Fondatore da parte dell’Aikikai Hombu ha fatto presa in tutto il mondo, andando a soddisfare una debolezza interiore presente in noi tutti. Di un uomo eccezionale si è fatto un santone da adorare… In giro c’è gente dichiaratamente atea che si inchina a un kami (?), così come ci sono quelli che si inginocchiano e pregano l’Altissimo davanti al velocemente promosso San Pio da Pietralcina. Liberissimi di farlo, ma bisogna sapere che questo ha poco a che fare con il rispetto verso Ueshiba – che ne sarebbe più che probabilmente schifato – ed è meno che mai in linea con gli aspetti più profondi della ricerca personale. La ricerca non conosce tramiti, è personale, libera, e così fastidiosa e faticosa che non ammette l’uso di santi o santini da pregare per farsi intercedere nel cammino.

Secondo 1.3 miliardi di mussulmani l’inchino ad un essere umano o a immagini che lo rappresentano è idolatria pura e semplice, e anche i cristiani si sono scannati abbondantemente tra di loro prima che gli adoratori di immagini l’avessero vinta (Concilio di Nicea, 787 dC, Concilio di Trento, 1562)…

La questione non è nell’inchinarsi o meno, nessuno questiona l’opportunità dell’inchino, ma il suo recipiente, che dovrebbe essere il soggettivo obiettivo della pratica, e non il padre di Kisshomaru Ueshiba sotto forma di foto-santino, piazzata lì e nei nostri cuori dai manager di quella che si stava trasformando in una multinazionale internazionale.

Copyright Simone Chierchini ©2014 
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