Aikido: Per un Indifferibile Risveglio Spirituale


In un momento di domande che riguardano il separatismo e la radicalizzazione, l’ascesa del fondamentalismo religioso o delle tensioni laiche, la Via (do) dell’Aiki potrebbe fornire risposte adeguate se venisse spiegata e non restasse confinata nei dojo

di ANDRÉ COGNARD

L’individuo del XXI secolo, alla ricerca di valori su cui fondare la propria identità, si rivolge agli estremi, con conseguente inevitabile aumento della divisione all’interno di una società purtroppo già afflitta da numerose scissioni.

I temi dell’uguaglianza e della libertà individuale vengono costantemente proposti; ma più se ne parla più i fatti dimostrano che tali temi rimangono in uno stato di desiderio, ritraendosi immancabilmente di fronte all’onnipotenza di un interesse collettivo fittizio, pretesto per servire meglio gli interessi di entità i cui tratti salienti non sono di certo né la filantropia né l’umanesimo.

Come sempre accade ogni qual volta l’identità viene minacciata, ne scaturisce un riflesso difensivo che porta a ritirarsi in se stessi. Quando poi non si trovano i mezzi per sentirsi sicuri, allora l’elezione di un soggetto “superiore” fornisce un rifugio per chi vive una condizione di carenza identitaria e si innescano di conseguenza le dinamiche religiose e/o ideologiche.

In una società in cui provengono ordini contraddittori da ogni parte, l’individuo prova difficoltà a relazionarsi con un sistema che possa fornirgli legami rassicuranti e un contesto in cui riuscire a orientarsi. L’incapacità di produrre un pensiero che non nasca come reazione a un’altra idea caratterizza il funzionamento degli scambi in questo mondo dove l’urgenza della comunicazione sembra aver preso il sopravvento su tutto il resto. Viviamo forse le nostre vite in modo saltuario, quasi in un regime “a tempo determinato”? Siamo obbligati a comunicare per essere davvero ciò che pretendiamo di essere, affidandoci alle parole per sostenere ciò che in realtà non siamo?

I sondaggi definiscono le scelte politiche; le quali però giungono sempre in ritardo, perché rispondono a quanto è già accaduto anziché anticipare e prevedere. Ma governare non dovrebbe consistere proprio nell’anticipare? Questo problema collettivo è frutto dell’incapacità dei singoli, dei politici, degli specialisti di ogni sorta, di tutti coloro che hanno varia voce nei media, di rinvenire in se stessi le risorse necessarie per assolvere ai propri compiti. Non trovano più nulla all’esterno, eccetto l’effimera approvazione di un pubblico che nessuno può realmente distinguere.

Gli ordini contraddittori che ci vengono imposti da pseudo-élite rappresentano altrettante reazioni a situazioni in grado di mettere in discussione quella parte di identità radicata nel loro ruolo. Per dirla tutta, i vari esperti e le presunte élite che ci governano si trovano nelle stesse identiche condizioni di qualsiasi altra persona sprovvista di punti di riferimento. Il loro elitarismo non poggia su alcuna competenza specifica se non sul potere.

Kobayashi Sensei diceva che “non si deve mai affidare il potere ai deboli”. Ciò nondimeno siamo costretti a constatare che un numero sempre maggiore di paesi ha posto in ruoli apicali dei quasi dittatori. Proprio come durante la ricreazione uno studente atterrito giura fedeltà al bulletto di turno che fa la voce più grossa, così oggigiorno gli individui afflitti da crisi d’identità mettono al potere persone che li rassicurano con metodi arbitrari. In assenza di validi punti di riferimento, questi metodi sono ritenuti un’espressione di forza, quando invece sono l’esatto contrario: espressione di una debolezza che scaturisce da una mancanza di valori capaci di strutturare un’etica, elemento quest’ultimo indispensabile per garantire lo sviluppo di un’identità stabile. L’identità infatti è alla base dell’etica.

La posizione pubblica maschera un ripiegarsi su se stessi che è tipico del nostro tempo e si fonda sul principio del “prima io”; l’identità, instabile, oscilla costantemente tra ciò che bisogna essere per appartenere e la necessità di opporsi a un divenire che risulta già obsoleto nel momento in cui lo si pensa.

Da qui a sostenere che alla luce di questo scenario si possano spiegare, almeno in parte, l’assenza di idee politiche, un governo fondato sulle menzogne e sui grandi fratelli, le lotte spietate tra partiti e all’interno degli stessi partiti, nonché certe estorsioni, il passo è breve; ma non è ciò che mi propongo di fare in questa sede.

Kobayashi Hirokazu Sensei (1929-1998) fu uchideshi del fondatore dell’Aikido moderno, O Sensei Ueshiba Morihei (uke: André Cognard)

Il mio intento piuttosto è dimostrare che quanto accade a livello collettivo è il riflesso esatto di ciò che accade a livello individuale, e che dietro ogni funzione pubblica si cela un individuo. Che questi appartenga alla classe dirigente o meno, egli, alla stregua di chiunque altro, non ha altra possibilità che rifugiarsi dietro un’ideologia per poter compensare la mancanza di sostanza di cui è vittima; tutto ciò che può fare è credere e aggrapparsi al proprio potere. L’ideologia alimenta le guerre e fa morire di fame la gente. La dittatura mascherata da democrazia si ingozza di idee, che sono tanto evanescenti quanto le decisioni che ingenerano.

Le carenze dell’uomo figlio del cosiddetto mondo “moderno”, a prescindere dalle sue origini, cultura e idee politiche, sono il risultato di carenze identitarie che dovrebbero indurci a riflettere sulle nostre storie e sul modo in cui esse non riescono ad armonizzarsi. Sennonché la verità è sempre in accordo con se stessa; di conseguenza se constatiamo tale disaccordo – come ci inducono a fare i conflitti che intercorrono tra i popoli o al loro interno – dovremmo accettare l’idea che ciò che noi chiamiamo storia altro non è che un racconto fatto a posteriori di avvenimenti in contraddizione con i valori che li hanno legittimati.

Siamo di fronte ad una divisione imposta dalla mistificazione, e ciò conduce nel corso del tempo ad una scissione identitaria sempre più necessaria affinché i gruppi sociali possano continuare a convivere con un “io” sempre meno definibile. Ciò suscita degli interrogativi come “cosa significa essere umani?”.

Gli individui che compongono questi popoli non trovano più nel gruppo i mezzi per strutturare la loro identità sociale a meno di non arrivare a negare la propria storia giacché essa non è indipendente dalla storia del gruppo. Quando questa negazione si esprime nei confronti della storia dell’umanità intera, l’individuo deve mettere in discussione il proprio fondamento identitario e si trova inevitabilmente a confronto col quesito esistenziale “come posso essere umano?”.

Purtroppo taluni trovano una possibile risposta nel sentirsi superiori e nel poter disporre a piacimento di tutto ciò che in realtà è altro rispetto a se stessi: è su queste basi che i dittatori vanno al potere e i kamikaze scendono nelle strade.

Su altra scala, senza arrivare al caso estremo della cintura di esplosivo, vige il principio “io prima di tutto”, ovverosia l’affermazione implicita che l’altro è un oggetto.

Kobayashi sensei offre supporto fisico a Morihei Ueshiba

La negazione del soggetto nell’altro è il risultato di una proiezione. L’individuo in questione nega di fatto il soggetto in sé, il che lo porta all’esportazione inconscia del proprio io verso un essere fantasmatico, la cui superiorità diviene indiscutibile poiché assume il ruolo di guardiano invincibile dell'”io” che gli viene affidato. Questa entità superiore permette a quello che a me piace definire il suo “vassallo in soggettività” di poter credere alla propria superiorità, costruita attraverso la negazione della propria finitezza. Da qui nascono le religioni pagane moderne, come l’adorazione delle star, super-umani elevati a livello di semidei. Troviamo inoltre religiosi – si badi bene, non religioni – che usurpano la voce divina e, facendo leva su questa sottomissione, si pongono in concorrenza con le religioni laiche. I loro adepti arrivano alla sottomissione completa, preparandosi al sacrificio ultimo e alla resurrezione promessa.

In realtà, la Via dell’Aiki (e più in generale il Budo) potrebbe offrire risposte concrete e preziose a tutti coloro che patiscono l’assenza di validi punti di riferimento, favorendo la riduzione delle disuguaglianze e una maggiore coesione sociale.

A ben vedere, tutti gli uomini sono uguali: nascono, soffrono e muoiono. Nessuno può sottrarsi a questo percorso; le uniche differenze riguardano il modo di nascere, soffrire e morire. Tutto ciò risulta paradossale rispetto al discorso generale in voga, teso a sospingere la nostra finitezza ai limiti della coscienza, a rigettare la sofferenza come un male da sradicare e a ostacolare ogni autentico processo di nascita.

Nascere veramente significa liberarsi da ogni genere di credo per divenire il solo e unico responsabile del proprio destino. La nascita di un individuo è una trasformazione del mondo, e vivere liberi significa poter continuare quest’opera di trasformazione del mondo.

Essere liberi è dunque un dovere spirituale. Ma come e in quale contesto può esprimersi questa libertà?

Kobayashi Sensei diceva che l’Aikido è la Via che consiste nel mettere l’altro davanti a sé”. Questa bella immagini, che ritrae O Sensei e Kobayashi Sensei all’esterno del contesto del dojo e della pratica, testimonia quell’atteggiamento di premurosa vigilanza che informa il principio enunciato

Samurai in giapponese significa “servitore”. Kobayashi Sensei diceva che l’Aikido è la Via che consiste nel mettere l’altro davanti a sé. Ritenermi alle dipendenze di un daimyo moderno va contro le mie convinzioni; viceversa fare di ogni altro – e ribadisco ogni altro – un soggetto degno di considerazione, cui esprimere rispetto, è lo strumento principe per ristabilire un’uguaglianza in grado di lenire le ferite di una società in caduta libera.

La Via dell’Aiki è priva di dottrina e di dogmi; è composta di pratiche il cui contenuto e scopo ultimo consistono nel “come armonizzarsi con ciò che è” e “come armonizzarsi con l’altro”.

Contrariamente alla religione o all’ideologia politica, la Via non conduce all’esercizio di un potere sugli altri, sui soggetti che costituiscono un’alterità; si esercita infatti esclusivamente in virtù della relazione che si intrattiene con gli altri. Il principio fondante di ogni relazione non è mai “l’altro deve cambiare”, “l’altro deve essere differente”. Va rilevato in quest’ottica un grosso malinteso riguardo all’educazione: l’educazione è divenuta l’arte di formare gli altri. La parola formazione è invero onnipresente nel mondo odierno, ma il vero senso di educare (dal latino educare, intensivo di e-ducĕre, “trarre fuori”) è molto spesso dimenticato: esso consiste nel condurre l’altro al di fuori dei propri limiti, proponendogli strumenti efficaci per essere in armonia con il suo nuovo essere, e non con un altro essere.

Per tornare al contesto del dojo, la tecnica non consiste nel cambiare il compagno (aite) ma ad armonizzare la relazione con lui, qualsiasi sia l’attacco che ha intrapreso. Lo stesso dovrebbe accadere nella vita quotidiana. Il vero praticante è impregnato della regola “tutti sono soggetti senza limiti”, concetto che Kobayashi Sensei esprimeva dicendomi “bisogna guardare gli allievi per ciò che sono realmente: perfetti”.

In effetti non vedere il soggetto nella sua perfezione, nella sua perfetta definizione, è già un averne fatto implicitamente il proprio oggetto.

Gli insegnamenti, così come i maestri di ogni via spirituale, non devono mai porsi come obiettivo quello di modificare i praticanti. Ciò non significa annoverare l’Aikido tra gli sport o le attività ricreative.

L’Aikido moderno è stato donato al mondo da O’Sensei Ueshiba Morihei come una Via di risveglio spirituale; egli era un adepto di Omotokyo ma non ha mai affermato che gli Aikidoka debbano seguire una religione, inclusa la sua. La sua intera eredità è tuttavia un grido di speranza per un rinnovamento dell’umanità e la sua forza motrice risiede nella ricerca instancabile dell’armonia. L’Aikido ha già subito la sclerotizzazione cui si espone ogni concetto che non arrivi a rientrare, così com’è, nella coscienza di massa; e la massa è composta da tutti coloro che tirano verso il basso. L’Aikido deve rimanere ciò che era quando è stato donato al mondo: una Via di risveglio spirituale.

Ho già esposto questa tesi in altri scritti: spirituale non significa religioso. La spiritualità è l’espressione dello spirito che ci ha fatto nascere e ci fa vivere nel quotidiano, in particolare nelle relazioni che intessono le nostre esistenze.

Quando Kobayashi Sensei afferma “fate passare l’altro davanti a voi”, egli addita la strada maestra, il modo per essere – per utilizzare un’espressione a me cara – un Aikidoka utile.

Il rispetto di ogni soggetto, e la conseguente espressione di tale rispetto nei confronti di tutti, è un modo per offrire a coloro con cui condividiamo la vita, a quanti incontriamo, la sostanza che consolida l’identità. In quanto praticanti di un Budo, le nostre identità, pur non esenti da difetti, risultano edificate e consolidate dall’esperienza relazionale ripetuta quarantamila volte sul tatami (utilizzo la cifra quarantamila perché Kobayashi Sensei soleva dirmi: “bisogna aver subito quarantamila volte nikkyo per saperlo eseguire”).

Kobayashi sensei esegue la chiusura di nikyo

Osservate quante volte nella vita quotidiana siete indotti a osservare e ad armonizzare i rapporti con chi vi circonda: la maggior parte di tali rapporti rimane cristallizzata sulla base del primissimo incontro. Nel corso di una sola lezione di Aikido al contrario si finisce col rimettere in discussione centinaia di volte il modo di relazionarsi. In quest’ottica la mia proposta di essere un Aikidoka utile è semplice: si tratta di permettere la condivisione di questa esperienza nella vita di tutti i giorni, di offrire a chiunque la chiave d’accesso alla propria profondità spirituale, favorendo il contatto con tale dimensione interiore; trascendere la tecnica per farne l’espressione del rispetto e mettere in relazione ciò che è essenziale nella condizione umana; mettere in atto nel quotidiano – proprio come avviene nel dojo – il ki no musubi: in tal modo sarà possibile non rivolgersi alla coscienza superficiale dell’altro, evitando ad un tempo di fondare la relazione sulla propria coscienza superficiale, incline alla discriminazione e al rigetto.

Nell’immagine, tratta da uno stage del 2014 a Padova, i praticanti applicano il principio di ki no musubi (letteralmente un nodo del ki, collegare l’energia delle due persone coinvolte nell’interazione) eseguendo kokyu nage in hanmi hantachi waza

Il nostro spirito deve agire su ogni istante della nostra vita. Ma la spiritualità attiene all’intimità; riguarda esclusivamente il rapporto dell’individuo con se stesso. Qualora un credo strutturi l’identità di un individuo, esso dovrebbe rimanere nella sfera privata; ogni dimostrazione pubblica della dimensione religiosa è oscena; la componente religiosa dovrebbe rimanere strettamente personale, ignorata da tutti. E non mi riferisco a riti religiosi inventati da psicotici ma a una coscienza aperta sul mondo, conscia dei propri limiti.

Un aneddoto permetterà forse di chiarire il mio pensiero; in occasione di un laboratorio di scrittura teatrale organizzato dal ministero della cultura francese, dove ero stato invitato in qualità di autore, avevo sostenuto la tesi secondo cui la mitologia è la pornografia della coscienza. Perché mai lo sarebbe? Perché la mitologia veicola il concetto che la soggettività è costitutiva della nascita dei popoli, e così facendo riduce l’identità dell’individuo alla sua appartenenza al collettivo; aspetto precipuo della pornografia è d’altro canto quello di mettere il soggetto in secondo piano rispetto agli attributi e agli atti sessuali, che vengono depersonalizzati.

Non metto in dubbio che la mitologia abbia rappresentato un elemento necessario e fondante delle culture, e sono conscio del paradosso di un’affermazione secondo cui un soggetto individuale potrebbe esistere al di fuori della relazione con il collettivo umano. Ciò che sostengo però è che i cambiamenti profondi oggigiorno in atto ci conducono o all’oscurantismo o alla presa di coscienza che tutto è soggetto, e che essere umani significa essere responsabili di questa soggettività universale.

Andre Cognard – Immagine tratta da uno stage a Varsavia nel 2019

Il Budo permette di assumere questa responsabilità. Ho sviluppato altrove il concetto di armonia efficace e spiegato più volte che l’armonia non consiste nell’adattarsi, nel porgere l’altra guancia, nel negare la violenza. L’Aikidoka non può concedersi alcuna debolezza: armato di una coscienza che gli consente di vedere il suo antagonista nella sua perfezione, egli è in grado di trovare il cammino che conduce all’anima dell’avversario.

La Via dell’Aiki permette di vivere una spiritualità non religiosa, i cui fondamenti risiedono in domande costantemente ripetute: “Sono veramente capace di esprimere rispetto verso ogni altra persona?”; “Sono in grado di far passare l’altro davanti a me?”; “Faccio tutto il bene che potrei fare?”.

Si tratta delle stesse domande che vengono messe in pratica nel dojo: “Sono capace di interagire con il compagno (aite) in modo non aggressivo, malgrado la sua aggressività?”; “Sono in grado di esprimere rispetto nei confronti del compagno anche quando cerca di sottomettermi mediante l’attacco o la tecnica?”; “Ho convertito i miei riflessi difensivi in una tecnica pacifica, portatrice di un’etica e capace di esprimere compassione verso ogni essere vivente?”.

In ultima analisi: “Sono entrato sufficientemente in me per poter dimenticare le domande: ‘Sono?’; ‘Chi sono?’; ‘Come essere me stesso?'”.

Kobayashi Sensei affermava: “L’Aikido è la via che porta a dimenticare se stessi”. (wa ga wasureru no michi: 我が忘れるの道) “Il problema dell’ego si risolve attraverso l’oblio della stessa domanda che pone”.

Copyright André Cognard ©2020
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