
Pubblichiamo questa interessante analisi della situazione dell’Aikido in Italia, elaborata da Daniel Leclerc, di cui condividiamo interamente forma e contenuto, con l’invito a tutti di leggerla e divulgarla.
Un’unica precisazione: non e’ BREVE come suggerisce il titolo… ma vale il tempo speso per assimilarne il contenuto
di DANIEL LECLERC
Questa analisi, fatta da un non italiano, non ha né l’intenzione né tantomeno la pretesa di spiegare in maniera esaustiva il “perché” e il “come” della situazione politica dell’Aikido in Italia a partire dalle sue origini.
Non è questo il suo scopo. Si tratta piuttosto di uno strumento di lavoro, che potrebbe servire da base ad una riflessione più approfondita, per tutti i praticanti italiani desiderosi di vedere l’Aikido considerato e riconosciuto dai ministeri publici, restando però coerenti con i principi basilari di questa disciplina marziale, soprattutto: «AI».
Scuserete quindi questa mia «ingerenza» in una situazione che, di primo acchito, non mi dovrebbe riguardare. In compenso, mi sento molto coinvolto dall’Aikido in se stesso, in quanto praticante e cittadino del mondo.
Inoltre, quelli che leggeranno questo scritto dovranno considerare che la riflessione proposta non solo li concerne direttamente; ma che il risultato delle loro azioni e delle loro decisioni influirà sulle generazioni future di praticanti. Devono mettersi nella disposizione d’animo di un uomo che pianta un seme, sapendo che non vedrà mai l’albero.
Dai miei primi passi in aikido nel 1973, ho conosciuto numerosi praticanti italiani durante gli stage che frequentavo, sia in Francia che all’estero e in Italia (soprattutto a Carisolo, Milano, Trieste, Roma,Venezia e Vicenza). Anche se alcuni di loro non condividono la mia stessa «obbedienza», non ho potuto fare a meno di apprezzare le loro motivazioni e la serietà della loro ricerca sulla lunga, incerta e difficile via del Budo.
Prova ne è che la maggior parte di loro continua a praticare con costanza ed applicazione e con alcuni ho instaurato dei legami d’amicizia, proporzionalmente al grado di affinità reciproca al livello di pratica, gusto ed altro.
Chi mi conosce da parecchio tempo, sa che ho participato attivamente all’organizzazione dell’Aikido in Francia, con la creazione nel 1982 della FFAB, costituita attorno a Tamura Sensei.
Ciò nonostante, nel 1984, mi sono ritirato dalla «vita pubblica di Aikido» e ho dato le dimissioni dai diversi incarichi che occupavo nell’ambito di questa struttura.
A ritroso, posso dire che la mia decisione fu dettata soprattutto da 2 ragioni:
• da una parte la necessità di dedicarmi, sia professionalmente che moralmente, alla mia famiglia ed all’educazione dei miei figli
• dall’altra dalla constatazione del fallimento dell’unificazione dell’Aikido francese –comprovato dall’esistenza di 2 federazioni – in ragione delle ambizioni personali nutrite dallamaggioranza dei responsabili e la loro incapacità, cosciente o incosciente, di consacrarsi interamente al futuro di questa disciplina, indipendentemente dal loro avvenire personale.
Non ho mancato tuttavia di interrogarmi sui mezzi che potrebbero essere adottati per evitare che le ambizioni personali prevalgano sull’interesse generale, senza sottovalutare questa propensione umana a dimenticare col tempo gli scopi iniziali, sia che si tratti di aikido o di creare una qualsiasiassociazione.
Da quello che ho potuto constatare prendendo contatti con gli uni e con gli altri, la situazione italiana è al contempo sterile ed ideale.
La mancanza di una regolamentazione, infatti, lascia il terreno vergine, anche se un po’ incolto.
D’altro canto, ciascuno sembra voler continuare a coltivare, più o meno felicemente, il suo piccolo orticello, e non essere disposto ad abbandonarlo.
Quei pochi tentativi di voler unificare l’Aikido italiano hanno miseramente abortito, rinforzando l’idea generale di «ognuno per sé e Dio per tutti».
Molti dei praticanti italiani pensano che il tipo d’organizzazione sia il risultato della popolarità diquesta disciplina in Francia (più di 60.000 iscritti). Ma questo argomento cade di fronte ad un’analisi obiettiva della situazione.
Di fatto, le strutture create in Francia sono più la conseguenza di una volontà politica – nel vero senso della parola – di regolamentazione dello sport in generale (brevetto statale di educatore sportivo, comitato nazionale di gradi), che della volontà degli stessi aikidoka. E’ molto probabile infatti che in assenza di una regolamentazione statale, la situazione francese non sarebbe molto diversa da quella attuale italiana, se non per il numero di gruppuscoli che si troverebbero a coabitare.
Ora, il tipo di organizzazione realizzato in questo paese non permette di evitare il « mandarinato », e la coesistenza di 2 federazioni, entrambe accettate dal Ministero dello Sport, mostra i limiti di questosistema.
D’altronde, i fatti hanno dimostrato che non esiste nessuna reale volontà d’unificazione, visto che ciascuna federazione – o meglio ciascun responsabile delle 2 federazioni – vuole conservare i suoi piccoli privilegi.
Da ciò si evince che il modello francese non è da seguire e l’interesse dei Francesi per l’Aikido dipende più dal loro individualismo che dal tipo di organizzazione messa in atto.
Al momento attuale, in Italia, non esiste alcuna regolamentazione specifica. Dalle ricerche che ho effettuate, ho scoperto che il Ministero dello Sport ha delegato i suoi poteri al CONI, che a sua volta è costituito dalle federazioni nazionali delle diverse discipline olimpiche. A fianco di queste, il CONI riconosce altre federazioni sportive facenti parte delle cosiddette «discipline associate», (il kung-fu wu-shu per esempio ne fa parte), così come delle associazioni chiamate «enti di promozione» (come lo CSEN) che raggruppano tutte quelle organizzazioni sportive che non rientrano nell’ambito delle discipline olimpiche o associate.
A questo punto mi sembra opportuno ricordare che, contrariamente al Judo, al Karate ed al Kendo per esempio, l’Aikido non è uno sport, in senso etimologico e politico del termine, in quanto non esiste alcuna forma di competizione – per lo meno sufficientemente rappresentativa – che opponga un praticante ad un altro con lo scopo di designare un vincitore ed un vinto.Verosimilmente, è solo la componente fisica della pratica che lo accomuna agli altri sport di combattimento.
Ma sembra alquanto prematuro dissertare a questo proposito, per lo meno fino al momento in cui l’Aikido italiano non sarà abbastanza unito per scegliere tra le diverse opzioni che gli si presentaranno quando sarà ufficialmente riconosciuto.
La domanda che si pone oggi, o che potrebbe porsi , è determinare in che misura sia auspicabile l’unificazione dell’Aikido italiano. Dal mio punto di vista, esistono 2 ragioni principali che giustificherebbero tale unificazione: una politica e l’altra etica.
1.POLITICA
L’Italia fa parte dell’Europa che a sua volta oggi è diventata una realtà politica. Infatti – tanto per smentire le parole di Kissinger che, in risposta alle pressioni dei suoi collaboratori perchè la prendesse in considerazione nel quadro delle negoziazioni internazionali, avrebbe detto:« L’Europa, chi è ? Mi date il suo numero di telefono ?» -, l’Europa dispone oggi delle strutture politiche (esecutive, legislative e giudiziarie) che le permettono di organizzarsi ed essere rappresentativa.L’Europa ha già legiferato in molti settori (monetario, economico, istituzionale), ma non è stato fatto ancora niente a livello di sport, se non le prime assise tenute a Olimpia il 21 e 22 maggio 1999 ed intitolate: « Il modello europeo dello sport ».
La Commissione Europea, rileva un aumento esponenziale delle denunce relative alla libera circolazione, tra cui il riconoscimento dei diplomi. D’altro canto, ella invita le istituzioni comunitarie a consultare le organizzazioni sportive laddove trattino questioni importanti che riguardano lo sport.
Più avanti, sottolinea che ella non ha alcuna intenzione di proporre un modello unico di organizzazione sportiva in Europa, né di varare nuove iniziative legislative.
Relativamente al modello europeo, dichiara che l’organizzazione dello sport in Europa presenta delle caratteristiche comuni a tutti gli stati. Così lo sport è praticato soprattutto nell’ambito di società sportive, raggruppate in federazioni sportive territoriali, inquadrate da federazioni nazionali.Infine, relativamente al ruolo delle federazioni sportive, indica che la riflessione deve vertere in primo luogo sulla definizione di federazione sportiva.
In alcuni Stati tale questione non solleva difficoltà di sorta perché la definizione di federazione sportiva è fissata per legge e gli Stati hanno stabilito un registro delle federazioni sportive. In altri, la definizione è più imprecisa e le federazioni sono iscritte in registri generali riservati alle associazioni. Un primo passo potrebbe consistere nella compilazione, da parte di ogni Stato membro, di un elenco delle sue federazioni sportive con gli omologhi europei e mondiali.
Da ciò che precede, è possibile trarre le conclusioni seguenti :
• Non esiste alcuna federazione di Aikido in Italia, e quindi se il governo dovesse fare una lista delle federazioni sportive, l’Aikido non vi sarebbe incluso ; e ciò vorrebbe dire che potrebbe sopravvivere soltanto attraverso altre federazioni sportive riconosciute.
• Se una delle federazioni sportive (per es. la FILPJK) o uno degli organismi di promozione (per es. lo CSEN) rivendicasse il controllo dell’Aikido, questo sarebbe a scapito di tutte le altre associazione entro le quali coesistono dei gruppi di aikido come per esempio: l’Aikikai d’Italia, il gruppo Kobayashi, l’Aiko, il gruppo Iwama Ryu, il gruppo Tissier, ecc.
D’altra parte, ho saputo da alcuni responsabili politici (parole che attendono conferma) che, a breve, il governo italiano dovrebbe legiferare in materia di sport. Se questo fosse vero – soprattutto per quanto riguarda l’istituzione di un diploma di insegnamento sportivo –, l’Aikido non sarebbe preso in considerazione, e quindi l’insegnamento dell’Aikido non potrebbe essere dispensato senza la copertura di un professore legalmente riconosciuto (per esempio di Judo o Karate).
In altri termini, gli insegnanti di Aikido non potrebbero più aprire delle sale a loro nome, ma solo appoggiandosi ad un professore diplomato e con licenza. Tale situazione è già stata vissuta inFrancia (fino al ’75) quando i soli professori di Judo avevano l’avvallo giuridico per potere insegnare Aikido e Karate.
Infine ciascun praticante, se dotato di conoscenza e studio sufficientemente approfonditi, può fare dell’Aikido ciò che vuole, seguendo la sua libera interpretazione. Perfino in Giappone coesistono differenti stili di Aikido : quello di Shioda, di Tomiki, di Tohei, dell’Aikikai ecc. Qualcuno ha avuto l’onestà intellettuale e morale di designare la loro propria interpretazione di quest’arte con un nome diverso da Aikido (come il maestro Noro, in Francia, che ha dato al suo sistema il nome di Kinomichi, o come il maestro Tsuda che ha chiamato il suo “la scuola della respirazione”). Questa coabitazione non da fastidio a nessuno, non turba in niente l’ordine sociale e parte dal principio che «Dio riconoscerà i suoi».
Non è la stessa cosa in occidente, dove il sistema – a base democratica – poggia su principi egualitari. Ora, dal mio punto di vista, l’arte marziale, e il Budo che ne è il suo prolungamento spirituale, è tutto fuorché democratico. Piuttosto è un sistema oligarchico – nel senso etimologico del termine –dove quindi il potere è esercitato da un numero ristretto di persone, scelte in funzione dei loromeriti. Le tribù degli indiani d’America, per esempio, funzionavano secondo questo modello. Il Budo si basa su dei valori morali e spirituali che trascendono le nozioni di uguaglianza o maggioranza; all’uomo che decide di intraprendere il suo studio, propone di diventare responsabile di sé stesso e delle proprie azioni, ed in nessun caso propone un sistema d’organizzazione sociale.
Quando un shugyosha decideva di aprire una sala – in Giappone si parla piuttosto di Ryu – era perfettamente libero di farlo e il successo della sua scuola dipendeva solo ed unicamente dalla sua capacità di accettare le sfide incessanti che gli altri shugyosha gli lanciavano di continuo, per provare in questo modo la validità del suo sistema. In effetti, l’usanza voleva che il perdente di una sfida diventasse l’allievo dell’altro. Questo sistema aveva il vantaggio di mantenere un alto livello di qualità tecnica e morale. Secondo un vecchio detto giapponese : «Soltanto il pesce forte osa nuotare in acque alte».
Ciò nonostante, sarebbe stupido ignorare il contesto nel quale si sviluppa attualmente il Budo –soprattutto in occidente – dove un’attività esiste o è considerata solo per il numero di persone che rappresenta. Churchill diceva a questo proposito : «la democrazia è il meno peggio dei sistemi, ad esclusione degli altri». Comunque è il nostro, con tutti i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti.
E’ una realtà politica che non possiamo più trascurare, a meno di restare all’ombra dei più grandi. In un sistema democratico, perché un dojo possa esistere – essere legittimato – basta che i suoi iscritti siano assicurati. Non è possibile – non è legale e democratico – che un dojo ne sfidi un altro per affermare la sua validità. E’ la politica «del migliore e del peggiore» ed il prezzo da pagare per la Libertà.
Personalmente al termine « Libertà » – che ingloba delle nozioni che vanno al di là del quadro sociale – preferisco il termine «libero arbitrio» che definisce meglio la libertà, in quanto scelta che l’uomo ha di «fare» o «non fare». Ciascuno quindi è libero di pensare e di esprimersi come vuole, ed anche in questo caso «Dio riconoscerà i suoi».
Ciò nonostante questa libertà è indissociabile dal principio di tolleranza : la disposizione d’animo e di cuore di colui che accetta, ammette da parte degli altri dei sentimenti, delle idee e dei comportamenti diversi dai suoi. Molto spesso la tolleranza consiste nell’ignorare ciò che è diverso e nel vivere ciascuno per sé. Ma questa tolleranza non è il risultato di una scelta personale, piuttosto di una rassegnazione, nata dal constatare l’impossibilità di imporre agli altri le idee per le quali sipotrebbe perfino morire. Don Juan – il maestro di Castaneda – diceva a questo proposito :«l’impeccabilità del guerriero è nell’accettare che gli altri vivano così come sono».
Riporto qui un breve passaggio tratto da « etica del sapere » di M. Cacciari, (in Micro Mega,almanacco di filosofia, 97, pag. 71) :« Hostis era lo straniero – straniero in tutto – che si presentava, autentico pro-blema all’ospite,all’Hospes. E che veniva ospitato, mantenendo integri il suo carattere e il suoi costumi. Nomade ma accolto. Soltanto se ognuno ritrova lo straniero in sé stesso, soltanto se l’altro che parla in noi, l’hostis che abita in noi, è riconosciuto e ascoltato, possiamo essere con lo straniero che viene, autonomo, affrontarne il pericolo, dialogare con esso. E riconoscere pericolo – e – dialogo come essenziali a noi stessi. Se tace o è messo a tacere lo straniero in noi, con quel pro-blema che ci affronta «da fuori» potremo avere soltanto rapporti di inimicizia… E nessuna comunità tra questi« nomadi » sarà concepibile mai.»
L’uniformità e l’isolazionismo non permettono quindi di realizzare l’AI, l’UNITA’. Ma esiste una struttura capace di raggruppare, di unire i diversi gruppi dell’Aikido italiano allo stato attuale ?
2. ETICA
E’ molto triste, per certi versi, constatare quante discordie e disaccordi ci siano tra i praticanti di una disciplina il cui nome inizia con una sillaba che significa «UNITA’», o anche «ARMONIA».
Etimologicamente l’ideogramma « AI » è composto da 3 caratteri:
• L’uomo in piedi – nel senso di «umanità»
• Il numero «uno»
• Una bocca, nel senso di «espressione».
Tradotto letteralmente, significa « l’umanità d’una sola voce » da cui il senso più esteso di« UNITA’ o ARMONIA » dato a questo termine. Sia la filosofia che la tecnica di questa disciplina ci invitano a ricercare e trovare questa unità, questa armonia con l’altro, sia sul tatami che al di fuori.
Ora, purtroppo, si constata che a livello dell’organizzazione di questa disciplina, gli aikidoka hanno qualche difficoltà a parlare all’unisono. Questi dissensi e queste divergenze, per naturali ed «umane» che possano essere, si ritorcono immancabilmente contro la disciplina stessa, discreditandola.
Tutto ciò, non è appannaggio solo dell’Aikido ma esiste anche in altri settori – come la musica o la pittura per esempio – tuttavia con una sostanziale differenza. Nessun musicista o nessun pittore avrebbe mai la pretesa di dichiarare che tutto ciò che non è la sua musica o la sua pittura, non è né musica né pittura. Esistono numerose correnti e tendenze e nessuno avrebbe mai l’audacia di sostenere che l’impressionismo o il barocco siano la sola vera pittura o la sola vera musica.
Al contrario la diversità degli stili ne costituisce la loro ricchezza e fa parte del patrimonio dell’umanità.
Alle soglie della morte, O’Sensei dichiarò : «L’Aikido appartiene al mondo intero», ma nondisse : «Il mio aikido appartiene al mondo».
Sembra che l’essere umano provi un bisogno viscerale nel ricercare l’opposizione : un modo come un altro, e sfortunatamente più di un altro, di provare che esiste. Questo è vero all’interno di una famiglia o di un club, di una federazione o di una nazione. In caso di conflitto, i fratelli, i genitori, i responsabili politici «si scannano» allegramente, ma se la famiglia è minacciata dall’esterno, dallo straniero – il barbaro come veniva chiamato dai greci – essi si riconoscono, dimenticano i loro risentimenti personali ed uniscono le loro forze per affrontare il pericolo. Si può quindi concludere che, di fronte all’ignoto, l’essere umano ricerca altrettanto visceralmente il supporto dei membri della famiglia, ed in senso generale, di tutti coloro con i quali condivide gli stessi interessi.
Quando questi interessi sono comuni a quelli di altre persone, altri gruppi e altre nazioni, essi o esse si uniscono per difenderli e preservarli.Inoltre, « unità » non significa « uniformità ». Resta quindi da capire come raggiungere l’unità senza perdere la propria specificità.
L’AÏKIDO ITALIA (A.I.)
Progettare l’unificazione dell’Aikido italiano adottando una struttura classica (Presidente, Comitato Direttore, Direttore Tecnico, Assemblea Generale e multi commissione) sarebbe destinato al fallimento poiché questo sistema conduce immancabilmente al mandarinato e alle lotte di potere (sebbene ci si possa interrogare sulla portata di un tal potere, se si esclude un’esaltazione supplementare dell’ego…).
Quindi, sembra che il sistema che meglio converrebbe sia quello di tipo oligarchico ; cioè quello in cui solo le persone che lo meritano deterrebbero il potere e potrebbero dunque decidere quali scelte fare per l’avvenire della disciplina, soprattutto a livello tecnico. Ma come valutare questo merito nel quadro attuale dell’Aikido italiano?
Effettivamente, tutti gli aikidoka con un minimo di 25 anni di pratica potrebbero far valere la loro esperienza e rivendicare un posto da dirigenti in seno a questa futura associazione. Il criterio da adottare non può dunque essere quello dell’anzianità. In compenso, alcuni di questi « anziani » sono arrivati a tesserare attorno a loro un certo numero di praticanti che segue l’insegnamento che propongono e si sono organizzati per funzionare in perfetta autarchia. In altre parole, potrebbe trattarsi di persone il cui carisma e la competenza si estendono su svariati dojo e/o associazioni legalmente costituite.
Poco importa, a questo punto, di dissertare sulla validità del loro insegnamento; meglio riconoscere che la loro sfera di influenza si estende al di là del loro proprio dojo e constatare che dei praticanti sinceri hanno scelto di seguirli. Queste persone esistono in Italia e sono quelli che potremmo chiamare i «leaders» del gruppo che si è costituito attorno a loro, che abbiano tagliato oppure no il cordone ombelicale con una eventuale legittimità morale (Aikikai, Iwama, Kobayashi, ecc.).
Sembra tuttavia indispensabile precisare cosa intendiamo con «gruppo», per evitare che qualunque insegnante di club possa pretendere questa carica di leader. Così, nello stretto contesto di questo futuro comitato, un gruppo dovrà essere costituito da un numero minimo di dojo e/o associazioni legalmente registrate (per esempio 10, ma questo numero dovrà essere stabilito dai pionieri del progetto) o da un numero minimo di praticanti, per esempio 200. Ciò non significa che un gruppo che non arrivi ad avere tali numeri non possa far parte del Comitato, però non potrà essere direttamente rappresentato.
Ogni gruppo che risponderà ai criteri stabiliti designerà un rappresentante, che sia il leader stesso o una persona scelta dai membri del gruppo per costituire quello che potremmo chiamare : «Il Consiglio degli Anziani» («senatus» in latino) o dei «saggi».
Quest’ultimo sarà l’organo legislativo del Comitato. Prenderà le decisioni che giudicherà opportune per l’avvenire della disciplina, all’unanimità o almeno col consenso di una maggioranza dei suoi membri che non potrà essere inferiore ai 2/3 o 3/4, per evitare abusi di maggioranza e discussioni «di corridoio». Ben inteso, questo Comitato dovrà possedere personalità giuridica, cioè dovrà essere dichiarato ufficialmente e registrato come Associazione Sportiva Culturale Dilettantistica. Per questo motivo, dovrà necessariamente avere un Presidente, un Segretario e un Tesoriere, che avranno un ruolo esclusivamente amministrativo e non politico. Saranno l’organo esecutivo.
Ugualmente, l’A.I. non dovrà possedere più fondi di quanti saranno necessari al suo funzionamento ed ogni gruppo che entrerà a farne parte manterrà la sua totale autonomia amministrativa, tecnica e finanziaria. I soli fondi di cui disporrà proverranno da iscrizioni e quote assicurative che potrà ricevere e versare per conto di tutti i gruppi presso l’ente nazionale al quale si appoggerà. Questa struttura di«sostegno» o «accoglienza» potrebbe essere lo CSEN, a condizione che accetti di riconoscere e costituire un settore specifico AIKIDO.
La struttura e il funzionamento di questo futuro Comitato, qualunque sia il nome che gli si darà, non possono dipendere dalle mie sole riflessioni. Le poche indicazioni riportate qui sopra hanno solo loscopo di sottolineare, in modo concreto, lo spirito con il quale dovrebbe essere costituito.
Così, per coloro che vorranno consacrare tempo e competenze alla sua creazione, riassumo brevemente questi punti:
• Riunire l’Aikido italiano sotto una sola bandiera per poter levare una sola voce e ritrovarsi pronti quando il governo italiano legifererà in materia di sport.
• Permettere ad ogni gruppo che lo costituirà di funzionare come ha sempre fatto, cioè mantenendo la sua completa autonomia amministrativa, tecnica e finanziara, nel pieno rispetto del lavoro pregresso di ciascuno.
• Ottenere delle condizioni finanziarie interessanti a livello di licenze e assicurazioni, in proporzione al numero delle iscrizioni.
• Fissare un codice etico della pratica dell’Aikido che sia conforme al messaggio del suo fondatore, cioè : lo sviluppo armonioso dell’uomo in relazione all’intero universo.
E’ soprattutto su questo ultimo punto che il consiglio dei Saggi trova la sua principale ragione d’essere. Questo codice etico riguarda infatti tre settori :
• L’attribuzione dei gradi DAN.
• La formazione degli insegnanti e l’istituzione di un diploma corrispondente che sia realmente qualificante.
•L’etica propriamente detta.
I GRADI
Anche a questo livello sarebbe auspicabile che ogni gruppo potesse mantenere le sue prerogative. Tuttavia, ho potuto constatare una certa propensione all’inflazione dei gradi in Italia, per lo meno in rapporto ai criteri valutativi che ho potuto osservare dal Maestro Tamura durante i suoi esami.
Tutti concordano nel pensare che la tecnica non sia il fine ultimo dell’Aikido, ma il mezzo proposto da O’Sensei per divenire Aiki. I più grandi maestri di arti marziali, soprattutto di spada, hanno sempre affermato la supremazia dello spirito sulla tecnica, senza peraltro denigrarla.
Tra gli altri, Yamaoka Tesshu disse: «Particolare» e «universale» sono i due aspetti della pratica. «Particolare» è la tecnica, «universale» è lo spirito. Là dove particolare ed universale sono in armonia si schiude il mondo dell’attività meravigliosa».
« L’essenza dell’arte della spada poggia sulla padronanza dei due aspetti dell’universale e del particolare. Il particolare fa riferimento alla tecnica, l’universale allo spirito».
« L’arte della spada consiste nell’utilizzare la non-forma all’interno della forma per ottenere la vittoria».
Il grado che decreta la fine dell’apprendistato della forma è il 4° dan. Il praticante giunto a questo livello possiede la tecnica; ma non ancora l’arte. I gradi successivi confermano la progressiva padronanza dello spirito, ragione per cui non è più necessario sostenere «esami».
Sembrerebbe dunque sensato, per assicurare una certa omogeneità di livello, che l’esame del yondan sia presentato davanti al Consiglio dei Saggi o, almeno, di una maggioranza di essi. In compenso, il candidato verrebbe giudicato solo dal leader del suo gruppo di appartenenza.
In questo modo si potrebbe assicurare una certa legittimità al grado, oltre a permettere ai diversi gruppi di presentare pubblicamente il loro lavoro attraverso gli esaminandi.
In conclusione, ogni gruppo conserverebbe la propria autonomia nella attribuzione dei gradi fino al quarto incluso, sottinteso che quest’ultimo dovrebbe essere presentato davanti al Consiglio dei Saggi. Riguardo ai gradi successivi, sarebbe il Consiglio stesso a definirne i criteri di attribuzione.
L’INSEGNAMENTO
Che l’insegnamento dispensato in futuro sia costruito su criteri comuni condizionerà l’avvenire stesso della disciplina e la sua credibilità.
A questo punto però non dobbiamo confondere spartito e interpretazione. In musica, per esempio, si può preferire l’interpretazione di una «Polacca di Chopin» eseguita da Rubinstein piuttosto che da Horovitz. Ciò nonostante si tratta dello stesso spartito, dunque delle stesse note. Nella pittura, esistono infiniti stili, ma tutti gli artisti utilizzano pennello, colori e tela.
Allo stesso modo, si può preferire l’Aikido di un maestro piuttosto che di un altro. Eppure, quando questi eseguono un movimento, tutti riconoscono la tecnica realizzata e le danno lo stesso nome, indipendentemente da come è stata interpretata. Uno dei compiti essenziali di questo futuro Comitato sarà dunque di assicurarsi che i futuri insegnanti suonino le stesse note, leggano lo stesso spartito.
Attualmente, qualunque praticante italiano può aprire una sala se dispone di una tecnica sufficientemente credibile, per lo meno agli occhi dei suoi futuri allievi; ma si sa che «Al paese dei ciechi, i guerci son re!». Se è vero che il bagaglio tecnico è di primaria importanza per quelli che si votano all’insegnamento come per coloro che li seguiranno, non basta però da solo a garantire un insegnamento di qualità.
La parola «insegnare» deriva dal latino volgare : «insegnare, rinforzo del latino signare, indicare (da cui istruire), da signum, segno, e dal latino classico: insignire, lasciare un marchio, segnalare, distinguere». Il suo significato si situa dunque al di là della pura e semplice trasmissione di tecniche; ruolo, questo, che un libro o un video potrebbero benissimo ricoprire.
Consideriamo anche che l’essere istruiti non conferisce necessariamente le qualità del buon pedagogista (dal greco : paidagôgos, da paîs, paidos, bambino, e da agein, condurre, e dal latino paedagogus, schiavo che accompagna i bambini, precettore). Non è sufficiente saper leggere e scrivere per essere in grado di insegnarlo agli altri. Insegnare necessita di una pedagogia, di un metodo; gli istruttori, e gli insegnanti in generale, seguono un iter formativo specifico che conferisce loro la capacità di trasmettere il sapere.
E’ a questo riguardo che il Consiglio dei Saggi dovrà deliberare per stabilire e definire i criteri di una formazione indispensabile, e far si che i praticanti votati all’insegnamento possiedano le competenze necessarie per trasmettere l’Aikido in modo professionale ed autorevole. Ma attenzione ! Non dimentichiamo che i più grandi virtuosi non sono sempre i migliori professori di musica; l’allenatoredi Cassius Clay non è mai stato campione del mondo di pugilato e il talento artistico di Salvator Dali non gli è sopravvissuto.
L’ETICA
Diderot ha scritto :«l’etica politica ha due obiettivi principali: la cultura della natura intelligente, l’istituzione del popolo». Prendiamo a prestito da questo umanista occidentale, che consacrò la sua vita –sotto ogni aspetto– a risvegliare la coscienza (secondo Goethe), questa frase che riassume in se stessa quello che bisognerebbe intendere per etica, nel contesto specifico di questa esposizione.
Dal mio punto di vista –possa perdonarmi Diderot– la cultura della natura intelligente fa riferimento a la coscienza di sè» e l’istituzione del popolo a «la coscienza morale» o «coscienza sociale o collettiva».
L’Aikido è un «DO», una «Via». Questa via è stata tracciata dai fondatori del SHIN-BUDO (discipline marziali moderne) come Jigoro Kano, Morihei Ueshiba, Funakoshi Gichin, Yamaoka Tesshu, per citare i più illustri: utilizzare le arti maziali classiche come sistema per migliorare il corpo e lo spirito dell’uomo orientandolo verso una ricerca d’armonia con se stesso e la società nella qualevive, e raggiungere così un mondo di pace e in pace.
Tutti concordano nel pensare che l’Aikido sia una filosofia, una scuola di vita – non parliamo forse di« spirito dell’Aikido»? – che si situa al di là della tecnica… che ne è solo il supporto, che si pratica 24 ore su 24, sul tatami e fuori di esso, ed altre considerazioni profonde ed elevate. Peccato! I fatti sembrano dimostrare che la società degli aikidoka non si comporta diversamente dalle altre.
Spetterà dunque al Consiglio dei Saggi istruire i praticanti (dal latino in, prefisso che sottolinea il movimento verso, e struere, assemblare, ordinare, costruire) su questo aspetto, un poco astratto, della nostra disciplina.
CONCLUSIONE
Come ho sottolineato nel preambolo di questa esposizione, può sembrare presuntuoso, per non dire utopistico, tentare di nuovo di costruire l’unità dell’Aikido italiano, considerate le sue divergenze e i fallimentari tentativi precedenti. Il mio incurabile ottimismo è temperato da una buona dose di pragmatismo e le mie speranze in questa ipotetica unione si basano:
• sulla congiuntura europea e l’apparente volontà politica italiana di regolamentare lo sport,
• su di un diverso modo di funzionamento di questo futuro Comitato,
• sulla capacità di questi futuri «dirigenti» – il consiglio dei Saggi – di dare più di quanto la struttura non possa rendere loro, semplicemente perchè la pratica glielo ha già apportato.
Questo scritto si rivolge quindi a tutti i praticanti di buona volontà, desiderosi di dimostrare che l’armonia con se stessi è indissociabile dall’armonia con gli altri.
Ma lascio l’ultima parola a O’Sensei estrapolando questo breve passaggio dall’unico libro che ci ha tramandato «Budo»: «L’approccio all’«altro» può essere considerato come un’occasione di testare la sincerità del nostro allenamento mentale e fisico, di vedere se siamo capaci di una risposta effettiva, in accordo con la legge divina.»
Milano, il 31 maggio 2004
Curriculum di Daniel Leclerc
Copyright Daniel Leclerc©2004-2011
Pubblicato per la prima volta su
http://www.idam.altervista.org/articoli/DLai.pdf
Scritto nel 2004, valutazioni fondamentalmente acute e propositive ma viziate, a mio parere, da una conoscenza parziale del panorama aikidoistico italiano.
Purtroppo queste valutazioni, o parte di esse, sono state già prese a riferimento in ambito federale e proprio in questi ultimi due anni, in nome di una presunta unificazione dell’Aikido italiano si è determinato un vero “guazzabuglio” che oltre a non dare alcuna garanzia in termini di etica, gradi e insegnamento ha provocato le ennesime scissioni.
Il progetto, con alcune modifiche, sarebbe sostanzialmente condivisibile ma quando i “gruppi” si incontrano e si parlano, chissà perchè, i tavoli sono sempre gravidi di gradi e qualifiche e avari di etica….
E fino a quando l’atteggiamento sara’ questo non andremo da nessuna parte assieme, ma solo ognuno per conto suo sulla propria barchetta di carta, con tanto di cresta regale, ma spersi in un oceano tempestoso e indifferente…