Riflessioni Sulla Pratica


Chi non ha mai sentito dire che la tecnica è solo un mezzo, non un fine? Tuttavia, è proprio grazie ad essa che si apriranno le porte dell’Aiki. A questo punto, possiamo porci la domanda: «Ma se la tecnica non è un fine, qual’è il fine della tecnica?»

di DANIEL LECLERC

L’Aikido è innanzitutto una pratica corporea. È infatti attraverso il corpo che O’Sensei ci propone di trovare l’armonia in noi e con il mondo. È lo strumento che ci permetterà di studiare il movimento, entrando in relazione con l’altro, percependo infine che questo movimento è quello dell’Universo stesso e che occorre muoversi in accordo con le sue Leggi, fisicamente e mentalmente.

In un precedente articolo, scrivevo che l’Aikido si pratica fisicamente, intellettualmente ed emozionalmente. Qui di seguito mi piacerebbe spiegare cosa intendo con questo.
In primo luogo, tengo a precisare che non esiste una reale separazione tra questi tre aspetti della pratica che, al contrario, ritengo indissociabili. Infatti, una pratica solo fisica, o solo intellettuale, oppure solo emozionale porterà uno squilibrio nella crescita del praticante creando un ipertecnico insensibile, o un intellettuale senza concretezza, oppure un santo inconsapevole. Eppure, quasi inevitabilmente, durante il nostro percorso marziale tenderemo a soffermarci in particolar modo su uno di questi aspetti più che sugli altri.

La pratica fisica

È la più essenziale, la più concreta, la più evidente, il che non significa però la meglio compresa perché è basata sullo studio del movimento nel doppio ruolo di Tori e di Uke. Uno dei primi obiettivi del praticante dovrebbe quindi essere quello di far acquisire al proprio corpo questo movimento attraverso la ripetizione. È ripetendo e ripetendo che il corpo può imparare a muoversi in accordo con i principi su cui si fonda la nostra disciplina. Ed è solo quando potrà muoversi secondo questi principi, senza pensarci, che comincerà a praticare Aikido, un po’ come il pianista che deve dimenticare le sue dita per «interpretare» La Musica.

Tuttavia, dimenticare non vuole dire che non ha più bisogno della tecnica ma, piuttosto, che le sue dita hanno acquisito la capacità di muoversi naturalmente, senza che si debba prestarci attenzione, senza doverci riflettere. Solo a questo punto la sua pratica potrà entrare in quella dimensione in cui gli consentirà di dimenticare corpo e tecnica. Finché le sue dita, o la sua tecnica, costituiranno un problema, non potrà pretendere di fare musica o praticare l’Aikido.

Ovviamente, può sembrare insensato dire che lo studio della tecnica possa essere dimenticato. In effetti, non lo è mai realmente e lo prova che anche i più grandi virtuosi continuano a ripetere regolarmente gli esercizi di base. Questo vale ugualmente per un praticante di Aikido: non deve mai smettere di praticare, di ripetere, tanto Tori quanto Uke. L’età certo non aiuta, in particolare per il ruolo di Uke. Ma anche in questo caso, la padronanza fisica dei principi, cioè quella che chiamerei «la comprensione o l’intelligenza del corpo», dovrebbe permettere al praticante meno giovane di restare sul tatami serenamente, anche in età avanzata.

Con «intelligenza del corpo» intendo quell’istinto che si sviluppa con la ripetizione e che consente di reagire ad uno stimolo anche prima che il cervello abbia avuto il tempo di ragionare sulla situazione. Gli esempi di praticanti di Aikido che sono usciti illesi da uno scontro frontale in moto grazie all’ukemi non mancano; e molti potranno raccontare di non avere avuto nemmeno il tempo di realizzare quanto stesse accadendo che il loro corpo aveva già reagito, istintivamente.

Se vuole poter continuare a praticare il più a lungo possibile, il praticante deve prima o poi porsi domande sul movimento che esegue, la sua ragione di essere, il suo senso. In effetti, la ripetizione meccanica di un gesto non garantisce che il corpo sarà educato bene e che «le dita si muoveranno sulla tastiera da sole». E ciò per almeno due ragioni:

1) Il modello del movimento da riprodurre deve essere perfetto. In generale, questo ruolo è devoluto all’insegnante ed è del resto la sua funzione principale. Ma come ottenere una bella grafia se quando impariamo a scrivere il modello delle lettere non è corretto? Si tratta di una grande responsabilità e si dovrebbe riflettere attentamente prima di decidersi ad insegnare. In effetti, se il praticante riproduce un gesto scorretto, di chi è l’errore?

Ma l’Aikido non si scrive come la musica. Invece, le leggi fisiche della biomeccanica, si!
È dunque essenziale rispettare lo spartito prima di poter interpretare un movimento. Gli insegnanti non dovrebbero mai dimenticare che devono, prima di tutto e indipendentemente dalla loro personale interpretazione, insegnare il «solfeggio» dell’Aikido. Quando si ascoltano Furtwängler o Toscanini dirigere la 9° sinfonia, si può avere l’impressione di sentire due brani completamente diversi, ma sappiamo che entrambe i Maestri rispettano scrupolosamente lo spartito scritto da Beethoven. Questa responsabilità è ancora più grande verso i ragazzi che hanno ancora intatta la capacità di «cogliere» il movimento e di riprodurlo facilmente.

Si potrebbe dire anche che lo studio dei movimenti (delle tecniche) per un aikidoka è paragonabile a quello delle note per un musicista o dei passi per un ballerino.

Certamente si può diventare musicista senza studiare il solfeggio. Questo è soprattutto vero per i ragazzi perché la loro intuizione (dal latino «intuito», conoscenza immediata di q.c. senza intervento della riflessione – diz. etimologico Zanichelli) non é stata ancora corrotta dal dualismo della materia e della mente.

2) Posto che l’essere umano abbia la capacità innata di riprodurre un gesto per imitazione (secondo la teoria dei neuroni a specchio), ci si chiederà perché non pratichiamo tutti l’Aikido di O’Sensei. Dando per valida questa teoria scientifica, qualcosa nel nostro modello sociale, culturale ed educativo sembra atrofizzare tale capacità nel tempo, tanto che pochi adulti sembrano averla mantenuta. Di conseguenza, e anche supponendo che il modello sia perfetto, niente può garantire che l’allievo avrà la capacità di vederlo e di riprodurlo correttamente. I gesti che riprodurrà per imitazione all’inizio della sua pratica si discosteranno dunque da quelli del modello e, con tutta probabilità, il corpo ripeterà dall’inizio dei movimenti scorretti senza rendersene conto.

Riassumendo: la nostra incertezza nel percepire un movimento e nel tentare di riprodurlo fedelmente, associata alla nostra mancanza di competenza nel valutare il modello che abbiamo sotto gli occhi, ci dà quasi la certezza che passeremo i primi anni di pratica ad insegnare al nostro corpo dei movimenti scorretti. E la ciliegia sulla torta, per così dire, è che passeremo il resto del nostro tempo di pratica, purché sia seria e assidua, a correggere gli errori ed a «ri-imparare a camminare».

Nell’ambiente specificamente sportivo, la pratica agonistica è uno dei mezzi pedagogici che può condurre all’acquisizione di quest’«intelligenza corporea» perché si basa su un’allenamento fisico intenso e regolare che permette di modellare strutturalmente il corpo in modo che risponda alle esigenze atletiche dello sport considerato. Trattandosi di formazione, è preferibile iniziare la pratica ad un età in cui la struttura muscolo-scheletrica si sta ancora trasformando, cioè tra 7 e 21 anni al massimo. Possiamo notare a questo riguardo che più la disciplina sportiva fa appello a capacità prettamente fisiche, più i campioni sono giovani. Per di più, lo spirito di competizione si accorda perfettamente a questo periodo della vita in cui si entra facilmente in conflitto con tutto e tutti e fornisce degli stimoli positivi. Ma con questo non miro a fare l’apologia della pratica agonistica oppure a schierarmi a favore della sua introduzione nell’Aikido. Vorrei insistere sul fatto che la didattica in ogni disciplina corporea, e l’Aikido ne fa parte, si basa sulla ripetizione fisica dei movimenti che porterà al corpo ad agire istintivamente.

Ma esiste una differenza fondamentale tra un Do ed uno sport: il loro scopo. Il primo è un sistema per migliorare l’uomo inteso nel senso più ampio del termine e il secondo mira principalmente a migliorare le sue performance. Ciò non vuole dire che un nuotatore che si allena duramente non possa migliorare sé stesso, ma non è questo il suo scopo e/o non ci pensa neanche. Altrettanto, un adolescente accetterà di soffrire fisicamente durante l’allenamento perché ha l’obiettivo di vincere una medaglia: è la sua motivazione. Ma quale potrebbe essere quella di un praticante per fargli accettare un’ora di suburi e più?

Ciascuno deve avere la o le sue, almeno immagino! Ma se bastasse allenarsi per crescere, tutti i campioni sportivi diventerebbero automaticamente dei Maestri e così non è. Invece, tutti i maestri che ho conosciuto hanno, in un momento del loro percorso, allenato seriamente il loro corpo. Sembra quindi evidente che il praticante non può accontentarsi del solo lavoro corporeo per afferrare i principi della propria disciplina. Nel caso contrario, il suo corpo rischia di cristallizzare cattive abitudini che gli sarà difficile eliminare senza una completa rieducazione strutturale. Uno dei mezzi di cui dispone è fare appello alla sua capacità di ragionamento e di discernimento, che ho chiamato l’aspetto intellettuale della pratica.

La pratica intellettuale

Come abbiamo visto, lo studio della tecnica non può limitarsi alla riproduzione della forma che ne è solo la sua rappresentazione grafica o, dovrei dire, coreografica. Più questa sarà semplice, più sarà facile da riprodurre e da trasmettere senza subire alterazioni. La forma è solo la manifestazione fisica di un principio e ognuno deve stare attento a non prendere il dito che mostra la luna per la luna.

Per introdurre questo aspetto della pratica che ho chiamato «intellettuale», vorrei subito precisare che non si tratta solo della curiosità naturale che porterà il praticante ad interessarsi alla cultura legata al sua disciplina, né di una semplice accumulazione di conoscenze ma, piuttosto, di una ricerca, di uno studio teorico e speculativo sul movimento.

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Con la pratica fisica, il corpo acquisisce il movimento ripetendolo. Ma occorre averne una buona comprensione prima di farlo ripetere dal corpo. Comprendere è preso qui nel suo doppio senso etimologico (dal lat. comprehèndere che significa abbracciare, includere in un insieme o capire i motivi e la natura di qualcosa cioè, nel nostro caso, del movimento). La pratica intellettuale si basa dunque sulle nostre capacità cognitive per apprendere il movimento attraverso l’analisi, l’introspezione, la critica e, al limite, la polemica se non ci fa cadere nell’emozionale. In altre parole, dovrà impegnarsi a definire il come e il perché del movimento.

In effetti, se l’insegnante alza un braccio girando su sé stesso, l’allievo può limitarsi a ripetere all’infinito quello che ha visto, persuaso di riprodurre fedelmente il movimento dimostrato. Però, a un certo punto, dovrà arrendersi all’evidenza che la sua azione non produce gli stessi effetti di quella del Sempai, dell’insegnante o del Sensei.

L’imitazione della forma esterna del movimento o della tecnica riguarda l’aspetto fisico della pratica ma un movimento non può essere studiato indipendentemente dal suo effetto: qual’è il risultato che voglio ottenere riproducendo questo gesto? Se vuole andare avanti, il praticante dovrà interrogarsi sul suo come e sul suo perché, cioè il suo processo fisiologico, biomeccanico, fisico, strutturale e pluridimensionale.

Dovrà capire, per esempio, che per entrare nel movimento di Uke, dovrà necessariamente visualizzare la traiettoria del suo attacco – e dunque della sua energia cinetica – per poterla annichilire (Irimi) o guidare (Tenkan).

Questa ricerca dovrebbe permettergli di capire che il corpo umano funziona come una meccanica di alta precisione e gli consente di effettuare dei movimenti straordinari, se usato correttamente.

Questo percorso intellettuale dovrebbe naturalmente aprirsi verso il grado di Shodan, cioè quando il praticante ha dimostrato di aver acquisito la forma della tecnica. Lo conferma il fatto che questo grado corrisponde ad un «inizio». Ma un’inizio di cosa esattamente? Qualcuno ha mai risposto a questa domanda?

Morotetori Kokyo-ho

Per riprendere il parallelo con la musica, potremmo dire che il musicista pratica fisicamente quando suona il suo strumento e intellettualmente quando studia il solfeggio. E penso di poter affermare che, anche se non dichiarato, esiste un solfeggio in Aikido costituito dalle leggi della fisica e della biomeccanica. È solo quando il praticante avrà un’idea del come e del perché del movimento che saprà «educare» il proprio corpo quando lo farà ripetere.

Possiamo dire che questo processo si svolge essenzialmente in tre fasi : la prima legata alla percezione, quindi alla raccolta di dati, la seconda di rielaborazione e sperimentazione, la terza di metabolizzazione e creazione.

Contrariamente ad un’idea preconcetta, l’intelletto funziona meno velocemente del corpo. Basta, per convincersene, ricordarsi le innumerevoli fasi di apprendistato a cui ci sottomettiamo durante la nostra esistenza, tipo: imparare a nuotare, ad andare in bicicletta, oppure a designare un kanji. Il corpo non vede il movimento, non sente le spiegazioni dell’insegnante. Vede e sente solo quello che il cervello ha registrato grazie ai suoi organi di senso. È dunque attraverso il cervello che il corpo otterrà le istruzioni di cui ha bisogno per riprodurre il movimento dimostrato. All’inizio, la nostra comprensione è limitata e il movimento che riproduciamo ne è la dimostrazione. Poi, man mano, la nostra comprensione migliorerà perché senza di essa il movimento non ha nessun senso. Quid manibus si nihil comprenhendum? (Cicerone). Perché le mani se non c’è niente da cogliere?

In questo modo, correttamente istruito, il corpo prenderà sempre più fiducia e riinvierà le sue impressioni all’intelletto per analisi e correzioni, e così via… Nishioka Sensei, il mio Maestro di Jodo, insiste sul fatto che un praticante debba sempre mantenere lo stesso livello in Ken ed in Jo. Bisogna sapere che la pratica del Jodo necessita l’apprendimento non solo della parte Jo della tecnica, ma anche della parte Ken, perché tutti i movimenti del Jo sono stati elaborati per far fronte a degli attacchi di Ken. «Il vostro livello in Jo vi deve permettere di migliorare il vostro livello in Ken e viceversa», ci ripete di continuo. Allo stesso modo, una buona comprensione intellettuale del movimento – quello che occorre fare e perché occorre farlo – permetterà di correggere gli errori e dunque di migliorare le esecuzioni successive in un continuo processo di aggiustamento.

Tuttavia, il praticante dovrà essere attento a non lasciarsi sedurre dal canto delle sirene, nel senso in cui è facile compiacersi nella pratica intellettuale perché è molto meno impegnativa fisicamente e meno stancante. Sono in molti a valutare il proprio livello in Aikido basandosi su questa sola comprensione. Basta girare un po’ negli stage per osservare che, a parte qualche rara eccezione, i praticanti sono più abili a spiegare che a dimostrare e ovviamente le loro spiegazioni sono spesso all’altezza di ciò che sono in grado di dimostrare.

Lo studio del Budo potrebbe essere paragonato ad un puzzle : ogni pezzo corrisponde ad un Kihon, un movimento di base. Il praticante sa che deve mettere tutti i pezzi al loro posto perché l’immagine sia completa e coerente. Il suo lavoro sarà molto facilitato se ha già un’idea dell’immagine finale che otterrà quando tutti i pezzi saranno assemblati. La sola differenza con un puzzle comune è che una buona conoscenza di ogni pezzo permette di creare un numero infinito di immagini. Forse è questa la libertà di cui parlano i maestri: per molto tempo, bisogna riprodurre l’immagine che ci è proposta dall’insegnante e posizionare i pezzi secondo le sue indicazioni fino a quando avremo sviluppato la capacità di creare delle immagini personali e, in seguito, il metodo per riprodurle.

Questa ricerca, o pratica intellettuale, può portare a studiare tanto la fisica dei fluidi, la meccanica quantistica, l’astrofisica, quanto lo Zen, per esempio. Senza arrivare a questo, già raggiungere la consapevolezza di tutte le resistenze e dei gesti superflui nell’esecuzione di un movimento fa parte di questa ricerca. In questo caso, si tratterà di lasciar dialogare corpo e mente al fine di eliminare le tensioni inutili per ristabilire l’armonia.

Ugualmente, l’insieme di nozioni e concetti veicolato dalla nostra pratica rientra in questo studio, dalla semplice memorizzazione delle numerose nomenclature giapponesi (nomi dei kata, delle tecniche, dei periodi della storia giapponese e tante altre cose…) alla stesura di questo articolo.

Prendiamo, per esempio, lo studio del Reishiki: di cosa potrebbe essere costituito? Da una parte, di tutte le informazioni raccolte qua e là dagli insegnanti e dai compagni di pratica. Comincerà appena il praticante indosserà per la prima volta il suo keikogi per continuare, magari dopo anni, con lo studio della tradizione Ogasawara in uso attualmente alla Corte Imperiale del Giappone. Dall’altra, di tutte le ricerche personali che il praticante avrà intrapreso per capire il senso e la ragione di essere del Reishiki, da una semplice riflessione allo scambio di punti di vista tra amici durante la tradizionale birra del dopo corso. Infine, della sua capacità di integrarne i principi nella sua pratica, manifestando un progressivo cambiamento di comportamento, tanto personale quanto sociale.

Sintetizzando, una buona comprensione intellettuale della propria pratica aiuterà l’Aikidoka tanto quanto la padronanza del solfeggio un musicista. Comunque, è un’aspetto del loro studio che non possono permettersi di ignorare.

Conquistato questo livello di comprensione fisica e intellettuale, che dovrebbe corrispondere, secondo i miei criteri personali, al grado di 4° dan, il praticante dovrebbe aver raggiunto la cosiddetta «intelligenza del corpo». Le dita si muovono sulla tastiera da sole senza ragionarci. Al contrario, un’interferenza mentale interromperà la fluidità del movimento perché il corpo sarà costretto a ridurre la sua velocità a quella, più lenta, del cervello.

Ed è a questo livello che la pratica emozionale comincia ad avere un senso. Ciò non vuole assolutamente dire che il praticante non si sia confrontato all’emozionale prima d’ora : in effetti, lo ha fatto dalla sua prima caduta, ma grazie alla maggior comprensione fisica ed intellettuale acquisite, saprà muovere correttamente il suo corpo e così affrontare, analizzare, capire le sue emozioni e specialmente le sue paure.

Ad esempio, entrare nel vuoto fa paura, specialmente se il corpo non sa come muoversi. Chi non ha mai esitato di fronte ad un ostacolo da saltare? Ovviamente, è sempre possibile buttare qualcuno in mezzo ad un lago per insegnargli a nuotare e, in questo caso, il poveretto si troverà subito immerso (senza giochi di parole) nei tre aspetti della pratica:

  • fisico: deve muoversi se non vuole affogare
  • intellettuale: dovrà scoprire in fretta un mezzo come muoversi per risparmiare
    le forze se vuole raggiungere la sponda prima di affogare
  • emozionale: e non mi sembra il caso di precisare come e perché!

Sarebbe la stessa cosa, tornando a parlare di arti marziali, di una recluta mandata al fronte in tempo di guerra dopo solo un mese di addestramento. Lo studio del Budo è meno immediato e traumatizzante, «anche se…»! È dunque volontariamente, e progressivamente, che il praticante si impegnerà su questa via. Ed eccoci di nuovo di fronte alla famosa domanda: perché si pratica? Ma ci torneremo più tardi perché, ovviamente, esiste un quarto aspetto della pratica.

Così, in possesso di un corpo ben allenato e conscio di quello che fa, il praticante può approfondire ciò che ho chiamato: la pratica emozionale. In altre parole, come si comporterà un praticante ben preparato e consapevole di quello che sa in un vero combattimento « simulato » o su un campo di battaglia «virtuale»?

La pratica emozionale

A mo’ di introduzione, vorrei precisare che in questo capitolo non si cercherà di repertoriare e di analizzare l’insieme delle emozioni che ognuno di noi proverà praticando. In effetti, questo tipo di disciplina passa necessariamente dal contatto fisico e ciascuno ha il proprio modo di reagire ad una presa/attacco/aggressione, anche se simulata e codificata. Questo contatto potrà provocare, in particolare nei principianti, una gamma di emozioni che si manifesteranno con delle reazioni fisiologiche involontarie, tipo: accelerazione dei battiti cardiaci, sbattere involontario delle palpebre, risate nervose, forti tensioni muscolari, sudorazione eccessiva, dimostrando che il praticante è inevitabilmente immerso nell’emozionale dal suo primo corso. Il contatto lo condurrà, più o meno consapevolmente, ad entrare in relazione con l’altro. Aiutato dalla pratica fisica, che gli consentirà una risposta tecnica adeguata, e dalla pratica intellettuale che gli ha fatto capire il come e il perché, sarà pronto a gestire queste reazioni emozionali affinché non disturbino né il suo movimento, né il suo avversario/partner.

Tuttavia, queste sono comuni a tutte le pratiche corporee dove ci sia un contatto fisico, dal ballo da sala al calcio, e saranno sicuramente diverse da quelle che proverà un praticante di Zen assumendo la sua postura di meditazione.

Eppure, l’arte marziale possiede un modo diretto e specifico di farci entrare nelle nostre paure perché propone, con il suo sistema di allenamento, di avvicinare l’ultima paura : quella della morte. Ovviamente, per affrontarla, il guerriero dovrà combattere realmente per la propria vita. Certo, non serve praticare le arti marziali per farne l’esperienza, tuttavia la particolarità di questa pratica è creare una situazione per studiare, capire e controllare la paura. Oppure, per essere più precisi, per familiarizzare con l’idea senza dover necessariamente rischiare la vita. Ma se si può dire obiettivamente che tutti i praticanti proveranno questa paura prima o poi, non si può dedurre che si manifesterà nello stesso modo per ognuno di loro.

Ubaldo Chiossi

Come dico spesso durante i miei stage, l’uomo non è psicologicamente programmato per entrare di sua spontanea volontà in un attacco. Al contrario, la sua rogrammazione genetica lo spinge a fuggire. La pratica marziale propone dunque un’alternativa a questo istinto di sopravvivenza perché insegna che è spesso meglio affrontare un problema che cercare di evitarlo.
Questa infatti ci permette di entrare progressivamente nello stato emotivo che il praticante potrebbe provare se combattesse realmente per la propria vita. Ciascuno ha vissuto o vivrà virtualmente quest’esperienza, che sia durante una gara, un passaggio di grado oppure facendo Uke per un Sensei.
Questo approccio è progressivo perché dipende dalla nostra capacità di ricevere e portare l’attacco fino al punto in cui Tori abbia paura per sé stesso e Uke paura di toccare Tori. Daltronde, non è raro vedere Uke interrompere il suo attacco con la sensazione che avrebbe colpito Tori. Molti esitano ad entrare in questo spazio/tempo e direi che hanno ragione di ascoltare il loro istinto di sopravvivenza perché li avverte che non sono ancora pronti.

Esiste in Ken un esercizio di taglio a due in cui, mentre Shitachi perfeziona le sue traiettorie, Uchidachi sviluppa la propria capacità di ricevere (ukeru) il taglio di Shitachi sul suo bokken. Questo esercizio, di un valore educativo riconosciuto, sprofonda subito i due praticanti nell’emozionale e, forse, Uchi ancora più di Shi perché è lui che «riceve il colpo» mentre il suo istinto di sopravvivenza gli suggerisce di evitarlo. Un altro è Kiri-Otoshi (Chokusen Irimi, in Aikido) perché la tecnica è efficiente solo se Shitachi lascia Uchidachi entrare più a fondo nel suo attacco fino a fargli credere che lo toccherà.

Nel suo libro “Aikido”, Tamura Sensei lo esprime così:

«Più importante è dimenticare il proprio corpo, entrare e trafiggere pensando di essere trafitto, entrare direttamente senza la minima esitazione.
Spingete Aite con la vostra potenza mentale, fino a costringerlo ad attaccare; usando, prendendo il suo attacco, entrate!»

Conosco molti praticanti che si mettono in pericolo senza neppure accorgersene. Ma in questo caso, è solo la prova che non hanno studiato abbastanza e che non valutano appieno la situazione. È necessario aver raggiunta una buona pratica fisica e intellettuale per poter intraprendere un reale e obiettivo lavoro su questo terzo aspetto. In effetti, la sola comprensione intellettuale della situazione non dà al praticante i mezzi fisici-tecnici per affrontarla. Ciò non vuole dire che non proverà nessuna emozione, anzi al contrario ne avrà troppe, al punto di esserne travolto e impedirto nel fare, nell’essere Aiki.

Oppure, se possiede la capacità fisica-tecnica – ed in particolare un buon potenziale atletico – senza una comprensione sufficiente rischierà di ferire Uke e, anche in questo caso, gli sarà impossibile di fare, di essere Aiki. Devo riconoscere che il lavoro con le armi, forse in ragione del pericolo che rappresentano nell’imaginario popolare, è un eccellente modo per entrare in questo aspetto della pratica. Ciò non significa che l’Aikido non lo sia, anzi al contrario ! Ma ricordo qualche serie di kata con cari amici alla fine dei quali le armi letteralmente fumavano! Altrettanto bene ricordo il mio inizio in Aikido quando facevo Uke per Tamura e Chiba Sensei: anche allora ho sperimentato una varietà impressionante di emozioni!

Vorrei dunque, ancora una volta, precisare che il praticante non potrà studiare – da non confondere con provare – realmente l’aspetto emozionale della pratica che dopo aver acquisito «l’intelligenza del corpo». O perlomeno capirà, in occasione delle esperienze emotive che vivrà durante il suo percorso marziale, che ha bisogno di questa capacità se non vuole essere la vittima delle manifestazioni fisiologiche involontarie che provocheranno.

Per fare un paragone, lo studio di questo aspetto della pratica sarebbe un po’ come mettersi al volante di una Ferrari quando si conoscono tutti i segreti della guida. A cosa servirebbe un’auto del genere a qualcuno che non sa neanche cosa siano una «doppietta» o un «tacco-punta»? Il parallelo è interessante perché effettivamente l’arte marziale mette subito una Ferrari a disposizione dei praticanti ma molti la usano come se guidassero una 2 cavalli o un Suv, anche dopo anni e anni di guida.

Il lavoro che consiste dunque a mettersi volontariamente in situazione di pericolo, cioè questa capacità di stare «immobile e impassibile» fino al punto di non ritorno dell’attacco di Uke, ci fa entrare in una nuova dimensione e valutare a quale punto i due altri aspetti della pratica sono tanto indispensabili quanto inutili. O, per usare le parole di O’Sensei: «Non vi insegno come spostare i vostri piedi ma come muovere la vostra mente!». È però innegabile che si capisce meglio quando si sa come muovere i piedi…

Raggiunto il momento in cui la sua pratica fisica, intellettuale ed emozionale è diventata «un tutto» armoniosamente sviluppato ed equilibrato, il praticante come il musicista è capace di suonare tutti i brani del repertorio, senza errori tecnici e con tutte le sfumature imposte dallo spartito. Da un punto di vista marziale è diventato un guerriero, nel senso in cui ha acquisito tutte le competenze che gli permetteranno di ingaggiare un combattimento con la probabilità di uscirne vivo. Può da allora in poi dedicarsi totalmente a perfezionare la sua interpretazione, o la sua efficacia, secondo le sue motivazioni, tenendo presente che sono personali e dunque intrasmissibili: solo il solfeggio lo è!

A questo livello è grande la tentazione di voler insegnare il proprio stile piuttosto che il metodo che ha permesso di definirlo. Se si deve insegnare a scrivere a qualcuno, sarebbe improduttivo (perché prematuro) spiegargli subito tutte le figure retoriche. Il percorso marziale del praticante potrebbe finire qua, cioè nel perfezionarsi mantenendo in equilibrio questi tre aspetti della pratica. Infatti, lo studio dell’arte marziale (Bu-Jutsu) si limita a questo : diventare sempre più efficace.

Tuttavia, esiste un’altra dimensione, una «quarta» pratica. La sua particolarità è che non è obbligatoria, né automatica e che non renderà il praticante più forte tecnicamente. Il fatto di tralasciarla non gli impedirà dunque di progredire, purché continui a praticare fisicamente, intellettualmente ed emozionalmente.

È a discrezione del praticante di intraprenderla consapevolmente o meno. È comune a tutte le discipline con il suffisso «Do» nel loro nome ed è perfettamente riassunta con queste parole del Buddha:

«Il solo vero combattimento da ingaggiare è il combattimento contro sé stesso!»
Trattandosi di un combattimento, chi meglio di un guerriero potrebbe ingaggiarlo?
Si tratta, certamente, di una nuova dimensione della pratica. L’arte marziale (Bu-Jutsu) si limita a migliorare le performance dei suoi adepti e questa è la sua funzione.
Le discipline marziali (Bu-Do), invece, propongono al praticante di utilizzare il metodo marziale (diventato obsoleto dal punto di vista propriamente «guerresco») per perfezionarsi e diventare migliore dal punto di vista umano.
Da qui si può parlare di «pratica spirituale».

L’Aikido è un’arte di Pace, come lo definiva O’Sensei

La pratica spirituale

Molte persone sono attratte dall’Aikido e dalla sua «aura» per la dimensione spirituale, quasi mistica, a cui l’ha elevato il suo fondatore. E hanno ragione: l’Aikido è un’arte di Pace, come lo definiva O’Sensei. È dunque compito di chiunque ne intraprenda lo studio elaborare le strategie che lo trasformeranno in un Artigiano della Pace.

Per molti anni, il praticante d’Aikido studia e sperimenta la tecnica, la quale propone soluzioni per far fronte ad un eventuale aggressione senza che ci sia opposizione al movimento e alla dinamica. Quando i suoi livelli di pratica saranno equilibrati e sarà capace di rispondere tecnicamente con efficienza a tutti gli attacchi del repertorio, la sua riflessione dovrebbe naturalmente condurlo a chiedersi di più sulla natura del conflitto, la sua origine, ciò che l’ha generato. Poi, comincierà a percepire lo spazio e il tempo tra l’intenzione dell’attacco e la sua manifestazione fisica, e perfino tra la non-intenzione e l’intenzione. Più la sua percezione si affinerà, più realizzerà che può agire – e non più reagire – anche prima dell’attacco.

Yoyu è la parola usata in Budo per definire questa capacità: il margine. Quando il praticante avrà raggiunto questo livello, dovrà scegliere tra il male e il bene, tra distruggere Uke o convincerlo pacificamente a modificare il suo atteggiamento:
setsuninto (la spada che uccide) – katsujinken (la spada che dà la vittoria), Hei-ho Heiho desu (i metodi della guerra diventano i metodi della Pace).

La pratica spirituale si fonda principalmente sulla capacità di trasporre la nostra comprensione tecnica (fisica, intellettuale ed emozionale) dell’Aikido nella nostra vita quotidiana per gestire armoniosamente gli inevitabili conflitti a cui ci espone il nostro modo di vivere e di pensare. Come mi comporterò se qualcuno mi taglia la strada e investe la mia macchina mentre sono già in ritardo al lavoro a causa del traffico? Come, non lo so ma esiste certamente una soluzione Aiki, altrimenti il sistema non sarebbe valido e il suo studio non avrebbe senso! In effetti, a cosa potrebbe servire un sistema di combattimento basato sull’unione delle energie e l’armonizzazione con l’avversario se non conducesse a modificare l’atteggiamento dei praticanti nel loro modo di entrare in relazione con l’altro, in particolare in situazione conflittuale?

Eppure, stranamente, per non dire paradossalmente, non esistono forse altre discipline marziali in cui le polemiche siano così diffuse come in Aikido! Infatti questa pratica, che dovrebbe interessare tutti, i principianti come gli avanzati, i più e i meno dotati, si rivolge direttamente al nostro cuore «Kokoro». In questo combattimento, l’idoneità tecnica non serve e il suo esito dipenderà solo dalla nostra capacità di interagire con empatia.

Se si interroga sinceramente, il praticante dovrà prima comprendere le ragioni per cui dovrebbe combattere con sé stesso. Questa prospettiva potrebbe effettivamente risuonare in lui come un Koan tanto sembra assurda a priori. Ma se non ne capisce la necessità, quale sarebbe dunque il senso di questo combattimento per lui? Se non fa niente per risolvere questo koan, la pratica rimarrà solo un modo di perfezionare la propria tecnica mentre dovrebbe essere il mezzo per perfezionare il proprio essere. In effetti, a cosa servirebbe essere più forti se non si diventa migliori?

Tuttavia, per riuscirci, dovrà sviluppare la sua capacità empatica ed accettare di rimettersi in questione. In effetti mettersi al posto dell’altro permette di accettare l’idea che possa aver ragione e, di conseguenza, che il proprio orgoglio possa uscirne ferito. Spesso, questa situazione è vissuta come una perdita o una sconfitta, mentre può essere trasformata in una piccola vittoria su sé stesso. È quest’atteggiamento, quest’altro modo di pensare che lo aiuterà a capire che non c’è niente da guadagnare nell’opposizione e questa consapevolezza concorrerà alla sua crescita personale.

Etimologicamente, empatia è un neologismo che significa «sentire dentro» e che la psicologia ha definito come la capacità di mettersi al posto dell’altro, di provare quello che prova. Non è dunque insensato dire che lo studio di una disciplina basata sull’armonia e sull’unità con l’altro, come lo è l’Aikido, dovrebbe prima o poi condurre il praticante a trascendere la tecnica, realizzando che lo studio sul tatami gli insegna come evitare il conflitto nelle sue relazioni quotidiane. È Uke che recita il ruolo dell’altro sul tatami ma, fuori del Dojo, che ne è della pratica? Ovviamente, si indirizza direttamente all’ego, quest’entità virtuale a cui diamo vita e spazio, come Dr. Jeckyll e Mr. Hyde ! Perché, di sicuro, il nemico da combattere è questo : una creazione unica e personale che proteggiamo da chiunque osi offuscarla.

L’ego non è cattivo in sé: è! Il problema è l’importanza che gli diamo, il culto che gli dedichiamo. Ma se il «guerriero» ha capito bene la lezione dell’Aikido e se non vuole opporsi a tutti quelli che metteranno la sua imagine in questione, si convincerà man mano che l’opinione che l’altro ha di lui può, a volte, essere più obiettiva. Questa capacità di cambiare di prospettive, quest’elasticità mentale (Junanshin) nel giudicare, si sviluppa grazie all’empatia. Ma l’ego non è disposto ad ammettere così facilmente che l’altro possa aver ragione e si oppone.

Curiosamente, la crescita delle capacità tecniche è direttamente proporzionale a quella dell’ego : diventare più forte tecnicamente lo tranquillizza, lo gratifica e lo fortifica. In questo modo però si rischia di dimenticare o, meglio, si tende a rimuovere l’idea di questo combattimento contro sé stessi perché la rimessa in questione sarà sempre più difficile da accettare, quasi intollerabile. Come scrive Franck Noël nel suo libro (Aikido – Fragments d’un dialogue à deux inconnues) «A tale titolo, i rigonfiamenti dell’ego che sono l’arroganza o la sufficienza di colui che si crede bravo, che crede di aver capito tutto, sono tappe per cui è difficile non passare perché la valorizzazione dell’individuo fa parte integrante del percorso. E come non fermarsi per contemplarsi un po’?»

Ma, come dicevo in preambolo, la pratica spirituale non è indispensabile per afferrare e capire i principi dell’Aiki il cui studio può assolutamente limitarsi agli aspetti fisico, intellettuale ed emozionale… così come a un poco di «contemplazione dell’ego!».

Intraprendere questa pratica significa ingaggiarsi consapevolmente a dichiarare guerra a sé stessi, all’ego, con le sue strategie, i suoi compromessi, le sue inguaribili ferite e i suoi rimpianti. Perché si tratta effettivamente di una vera guerra, con battaglie infinite e numerosi combattimenti, il cui numero dipenderà dalla nostra abilità a non cadere nelle sue trappole. Ogni battaglia persa ci rende più vulnerabili per le successive, un po’ come l’ostacolo che non siamo riusciti a superare la prima volta. E il drago non muore facilmente. Per ucciderlo, deve smettere di essere la nostra ragione di vita…
Questa è anche una delle risposte alla domanda: Perché si pratica?

E come dice O’Sensei stesso: «L’approccio all’«altro» può essere considerato come un’occasione di testare la sincerità del nostro allenamento mentale e fisico, di vedere se siamo capaci di una risposta effettiva, in accordo con la legge divina».

Mi sembra difficile però chiudere questo capitolo senza evocare l’aspetto mistico dell’Aikido. Chi non ha visto O’Sensei pregare nella maggiore parte dei film e delle immagini che lo ritraggono? Tuttavia questo argomento presenta un carattere troppo personale e intimo per poter essere direttamente collegato alla pratica marziale, perché su questa via l’importante è avere Fede, non quello a cui si crede. Miyamoto Musashi, nel suo libro «Gorin-no-Sho», riassume ammirevolmente il comportamento che un guerriero dovrebbe adottare riguardo alla religione: «Rispetta tutti gli Dei ma non aspettare niente da loro!»

Il misticismo è legato ai «misteri», ad un credo nascosto superiore alla ragione e l’Aikido, al contrario, non ha nulla da nascondere! Il praticante può dunque seguire questa via se pensa che gli spalancherà le porte dell’Aiki, convertito dall’esempio del Fondatore. Ma anche se O’Sensei non ha mai predicato una religione – o allora la sua si chiamava Aikido – non si può traslasciare di ricordare le esperienze estatiche che hanno costellato il suo percorso e aperto la sua coscienza al punto di poter comunicare con gli Dei.

In conclusione, mi piacerebbe esporre brevemente le ragioni per cui ho scritto questo articolo. In effetti, si assiste ad una proliferazione di «scuole» di Aikido che, in modo curiosamente contraddittorio, si oppongono senza riuscire a trovare tra loro l’AI che dovrebbe invece unirle. Ciascuna è convinta di proporre la giusta interpretazione dell’Aikido senza accorgersi che la sua particolarità è data dall’essersi probabilmente specializzata in uno solo dei tre primi aspetti della pratica. Se li avesse equilibrati tra loro, si ritroverebbe a cooperare armoniosamente con tutte le altre.
Benché di natura idealistica, non sogno al punto di credere che il mondo sia di frutta candita! Spero semplicemente che questo articolo ricorderà agli Aikidoka di ogni obbedienza di non fissarsi su un solo aspetto della pratica perché, come detto, l’Aikido è costituito dall’insieme di questi approcci. Infatti, le differenze tra gli stili, in apparenza discordanti, dimostrano allo stesso tempo la diversità e la coerenza della nostra Arte e sottolineano il carattere universale dell’Aikido, come lo auspicava O’Sensei.

Copyright Daniel Leclerc©2010
Traduzione dal francese di Valeria Glingani

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