Violenza e Narcisismo Sul Tatami


Circa 15 o 20 anni fa lessi un articolo scritto da Ellis Amdur che mi aiutò a non sentirmi più solo nel pensare che nell’Aikido vengano manifestate due pericolose tendenze: da parte una certa inclinazione alla violenza, dall’altra una sottile forma di narcisismo

di RENATO FILIPPIN

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Vorrei riproporre qui la teoria di Ellis Amdur, che condivido completamente, traducendo parte del suo lavoro ed aggiungendo alcuni mie riflessioni personali.

“L’Aikido è un’arte marziale che è particolarmente adatta per l’abuso fisico sul Tatami”.

Soffermiamoci un momento ad osservare la pratica quotidiana dell’Aikido.
Da un giovane uke principiante ci si aspetta che si lasci cadere con eleganza e senza resistenza quando proiettato da un tori più anziano o più avanzato di lui. D’altra parte, anche a tori, essendo più avanzato o anziano di uke, è richiesto che riceva ukemi per il più giovane, con l’idea così di insegnargli.

Ciò può essere fatto molto efficacemente, preparando il giovane aikidoka ad assumere l’adeguata forma e posizione per eseguire la relativa tecnica di Aikido. Tuttavia, può anche essere fatto resistendo, bloccando o contrastando la tecnica. In Aikido ci si aspetta che un principiante non possa resistere ad una tecnica eseguita da un tori più avanzato; ma se l’uke principiante dovesse cercare di resistere al movimento allo stesso modo, questo verrebbe giudicato come insolenza.

Nelle altre Arti Marziali, come il Judo per esempio, i due partner cercano di proiettarsi reciprocamente utilizzando la propria forza, tecnica, velocità ed esperienza, ed il più bravo vince. Andando avanti con l’età, un judoka consegue un certo livello di rispetto, come un vecchio guerriero; questo gli concede la possibilità di riposare sui propri allori. Quando un giovane judoka spinge il più anziano troppo forte, l’anziano può permettersi di dire: “Guarda figliolo, sono un po’ troppo vecchio per giochi del genere!”…

Katsuaki Asai
Non molti aikidoka si curano della loro efficienza atletica

In Aikido, invece, molte persone sviluppano una strana scissione della coscienza. Penso che questo avvenga perché nell’Aikido tanti hanno travisato il concetto di Ki, che viene visto come una forza speciale, quasi mistica, superiore alla forza fisica umana. Presumibilmente questa è la ragione per la quale non molti aikidoka si curano della loro efficienza atletica. In molti sistemi di allenamento, esiste una ideologia più o meno dichiarata secondo la quale dopo un certo numero di anni di pratica non solo si dovrebbe raggiungere un’abilità tecnica superiore, ma anche conseguire un tipo di energia paranormale; questa addirittura permetterebbe di superare le naturali perdite di energia dovute all’invecchiamento.

Entrambi i praticanti sanno benissimo che nell’Aikido le tecniche si possono eseguire solamente attraverso la reciproca co-operazione di tori e uke. Molti praticanti avanzati di Aikido, tuttavia,  si lasciano trascinare dall’illusione che il proiettare con forza ed eleganza un partner che sta cooperando li qualifichi come grandi maestri. Ovviamente costoro dimenticano convenientemente il debito che hanno verso uke in quanto loro partner,  e il lavoro di uke all’interno della tecnica che li fa apparire così efficaci, preferendo invece credere che una proiezione perfetta avvenga solo ed interamente grazie alle loro capacità. Tuttavia, sotto alla superficie, costoro sono perfettamente consapevoli del reciproco stato di interdipendenza. Senza un amichevole partner, il loro Aikido sarebbe solo una vuota manovra nell’aria o un puro atto di violenza.

Queste persone odiano questo stato di dipendenza e vivono nel terrore che si scopra che non sono poi così potenti come vogliono far credere. Quando eseguono una tecnica, se incontrano resistenza o se uke si muove in maniera non consona a come logicamente previsto, i suddetti non ci pensano due volte a causare seri danni a chi, una volta dentro alla dinamica dell’ukemi, offre completamente il proprio corpo all’azione di tori.

In questo momento si manifesta la violenza che si annida dentro a tanti aikidoisti. Basta guardare uno dei tanti Embukai presenti su YouTube: generalmente tori scaraventa uke sul tatami con la massima forza e velocità esattamente quando quest’ultimo si trova nella posizione più debole. Nota bene: questa posizione debole è offerta volontariamente da parte di uke, per offrire al compagno l’opportunità di studiare, ossia è uno strumento di lavoro. Nelle tecniche di Aikido, uke mette a disposizione il proprio corpo per tori.

La pura sete di potere, di dominio sull’altro, fa cadere tanti insegnanti di Aikido nella trappola del narcisismo. Mi chiedo, come è possibile che un Maestro di Aikido debba sviluppare un’apparenza da burattino marziale? Alcuni di questi “maestri” non avrebbero il coraggio di praticare nemmeno per un solo minuto in un’altra arte marziale da combattimento.

Il vero spirito dell’Aikido

Questi individui creano grande negatività attorno all’Aikido, che poi ricade sull’arte che noi amiamo così tanto. Grazie a questa gente, i praticanti di altre discipline sono convinti che gli aikidoisti fanno Aikido perché non sono capaci di fare niente altro, o peggio ancora, non sanno fare niente. D’altra parte, questi pseudo-praticanti di Aikido sono così pieni di complessi di inferiorità che farebbero ricorso alla plastica facciale per apparire più giovani, più forti, più giapponesi, e appena salgono sul tatami si servono dell’hakama per nascondere il loro vero ego.

Non è raro che siano proprio queste persone a far carriera nel corso degli anni, diventando responsabili di un Dojo prima, e salendo nei ranghi tecnico-amministrativi delle loro rispettive associazioni poi: questo caricarsi di responsabilità amplifica ancor più il loro narcisismo che si manifesta, come ho già detto, nella violenza sul tatami verso i loro cosiddetti allievi.


Conclusione personale

Un praticante di Aikido fa bene a chiedersi se il maestro nel dojo in cui pratica è veramente un Maestro di Aikido o se è soltanto un burattino marziale; fa inoltre benissimo a domandarsi se veramente quello che il maestro dice viene anche vissuto da lui nella vita di tutti i giorni, o se quello che di tanto in tanto fa apparire è veramente quello che lui non vuole che si veda. Ai genitori consiglio di informarsi bene per evitare di finire col lasciare i propri figli proprio nelle mani di certi individui.

 

Copyright Renato Filippin ©2020
Ogni riproduzione non espressamente autorizzata dall’autore è proibita

 

13 pensieri riguardo “Violenza e Narcisismo Sul Tatami”

  1. Qui mi si tocca sul vivo. Uke è un arte marziale.
    Quale gioia migliore di essere proiettati da tori essendo pienamente consapevoli della capacità di saper cadere.
    Naturalmente negli anni anche io ho notato, sui vari tatami nazionali, la presenza incessante di quel tipo di aikidoka che io chiamo “Serial Aikiller”.
    Come arginare questa malcuranza? A mio parere si dovrebbe spendere qualche parola, durante le lezioni, sul ruolo di Uke. In fondo anche il ruolo di uke è di per se un arte marziale.
    Ecco, noto spessissimo che durante la pratica, mentre tori e attento ad eseguire le tecniche, uke sposta tutta la sua attenzione a quello che sta facendo tori, con azioni di disturbo “verbale” e soprattutto “fisico”.
    “Bisogna istruire uke a fare “uke”.
    Deve capire che il suo studio, a prescindere dal livello di pratica che si sta facendo (kihon, awase, kinonagare…), oltre a comportarsi di conseguenza (perché spesso tori pratica in kihon mentre uke in randori), deve imparare a “sentire” la tecnica dal suo punto di vista ma soprattutto deve studiare “come ricevere la tecnica”. In sostanza se si occupasse del suo compito (a Roma si dice in un altro modo), eviterebbe spiacevoli incidenti, nocivi per se e per il suo partner.
    Il più bel complimento me lo fece il M° Giorgio Oscari, già fin troppo generoso nei miei confronti: “Tu sei un bravo Uke”.
    Credevo di fare una cosa per me, per la mia sicurezza, vederla riconosciuta è senz’altro piacevole.
    Sono d’accordo, “Ai” è armonia e non un grido di dolore, “Ki” è energia e non mazzate e “Do” è la via e non un modo per mandare a quel paese tori.

  2. Diventare buoni uké è una cosa importantissima e sottovalutata, molto molto, sottovalutata.

    Mi spiego meglio: quanto è il il tempo impiegato dagli insegnanti per spiegare il ruolo di torì in una tecnica e quanto il tempo impiegato per spiegare il ruolo di uké?

    Ricordando come nel ken il ruolo di uké nel’esecuzione dei katà a coppie è quello che spetta al praticante più esperto.

    Allora come mai nella pratica a mani nude esiste questa disparità?

    E’ frequente infatti che si oscilli tra due estremi, dall’aikimedusa, ossia un uké che qualsiasi cosa tu facci ti segue senza volontà, senza energia propria, pronto a prostrarsi in tutti i modi possibili, all’aikimacigno, altra figura caratteristica che tipicamente, su qualsiasi tipo di attacco, non allontana mai mani e braccia dal proprio tronco, quasi questi fossero intimamente saldati ad esso, spostandosi in generale il meno possibile.

    Il ruolo di uké è invece [o dovrebbe essere] fortemente attivo, uké pone una domanda a torì, e sarebbe bene che, in base alla capacità di torì, la ponesse sinceramente [il che vuol dire attaccare sapendo di poter essere attaccati in qualsiasi momento e, dunque, sfruttare pienamente la distanza e non facendo l’aikimacigno] e con energia.

    Ma non finisce li, bisogna sapere come comportarsi dopo il primo attacco, in quale parte del corpo mettere energia, in quale direzione cercare di recuperare l’equilibrio, cosa che varia con la tecnica che si sta eseguendo.

    Se, ad esempio, faccio da uké nello stesso modo su shomenuchi ikkyo e su shomenuchi yonkyo, vuol dire che non conosco né una tecnica né l’altra e che in realtà di quella tecnica non conosco né il ruolo di torì né quello di uké.

    Vuol dire che quello è allenamento inutile, se non controproducente, per entrambi.

    Questo, naturalmente ricade interamente nella responsabilità dell’insegnante, che deve riuscire a rendere chiaro l’intero katà, non uno solo dei ruoli [ammesso che questo sia possibile], se ci stiamo allenando in modo formale e non libero.

    E poi, progressivamente, aumentare il grado di libertà, chiedendo ad esempio ad uké di scegliere se impostare l’attacco di ryotetori secondo due direttrici opposte, come per tenchinagé e shihonagé urà, sviluppando così la sensibilità di torì nel dare la risposta giusta e così via, per gradi di libertà maggiori.

    Ma quando si fa un katà si fa QUEL kATA’, non uno qualsiasi e bisogna conoscere bene entrambi i ruoli, per poterlo capire.

  3. scusate, ma secondo me l’articolo parla d’altro che di uke e del suo ruolo.
    Anzi va proprio nel senso di accettazione degli errori e delle differenze dello stesso.
    Stigmatizzando proprio l’uso di uke addomesticati.
    ma sopratutto di maestri imbattibili e sadici(solo con chi glielo permette)

  4. Certo, l’articolo parla a tutto tondo, quindi anche di uke. Il comportamento violento è praticato da tori e da uke (ho perso 8 mesi di pratica a causa di un uke che non aveva (ha?) non solo lo spirito giusto, ma soprattutto la “conoscenza ” della pratica di uke).
    Ed è proprio questo che voglio rimarcare.
    Io ho esplicitamente voluto mettere il punto su una disparità di evoluzione delle due figure, a mio avviso, troppo evidente. La situazione che ho descritta è pratica comune e non occasionale. A mio avviso la violenza è si, generata da manifestazioni dell’animo non in sincrono con la pratica dell’Aikido, però non si può negare che ci sono due ruoli e che devono essere entrambi considerati.
    Se si predilige l’Aikido di tori, con tutti gli aspetti positivi e negativi (leggi violenza), l’Aikido di uke viene sminuito, perché non impara a praticare la sua arte e le conseguenze sono più dannose per entrambi i ruoli.
    Uke è un arte marziale meravigliosa e va approfondita, bisogna leggere fra le righe, io non ho solo commentato un articolo ed ho specificato che uke deve adeguarsi al livello di pratica (kihon, awase, kinonagare…) e NON che deve essere addomesticato, ed ho voluto dare uno spunto di riflessione affinché si equilibrino i due ruoli che, spesse volte, non essendo in sincrono fra di loro, creano autonomamente, quindi anche senza quella volontà troppo energica tipica di alcuni individui, situazioni più o meno violente, quindi dannose.
    Aggiungo che “ho imparato moltissimo dalle donne che, essendo dotate di intelligenza indubbiamente più elevata, e di una armonia ed elasticità per noi uomini irraggiungibile, vedono l’Aikido nel suo spirito naturale cioè nell’elevazione dell’ armonia e dell’energia interiori, fonti di vita senza eguali. Quando pratico con loro non vedo mai la differenza tra Tori ed Uke.
    E’ un fatto di cultura?

  5. L’osservazione di Marco Marini è pienamente corretta; entrando però più nello specifico, il danno fisico più importante che abbia mai ricevuto in un ventennio è stato proprio dovuto ad un uké [yudansha dell’Iwama ryu], che su kokyunagé decise di voler “migliorare” la caduta volante, lanciandosi da solo… sul mio ginocchio. Ottima kaeshi waza!

    Tornando però a noi, ed alla giusta osservazione di Marco, la connessione credo proprio si trovi nel fatto che, sottolineando eccessivamente il ruolo di torì a scapito di quello di uké si finisca per pensare ad una sorta di “Aikido unidirezionale”, in cui c’è una prima parte in cui si esce dall’attacco di uké, ed una seconda in cui ci si allena al lancio del peso o del disco, a seconda del wazà in esecuzione. Cosa che credo volesse sottolineare anche Marco Garofolo

    Ricordando invece che ukè avrebbe SEMPRE la possibilità di uscire dalla tecnica o di renderla inefficace [le modifiche fatte da O-sensei vanno infatti tutte in questa direzione, rispetto alle tecniche di Daito molto più bloccanti, proprio perché l’allenamento è pensato per sviluppare alcune capacità, diverse da quelle delle scuole di jujitsu] la relazione diventa molto diversa, incentrata, in ogni momento della tecnica, sulla relazione che si viene a stabilire tra i due ruoli.

    Tornando al mio caso: è vero che l’incidente fu dovuto ad un uké che improvvisamente “si mise a fare altro”, ma è altrettanto vero che, evidentemente, in quel momento il suo torì [io] stava esercitandosi nel lancio del peso, diversamente si sarebbe reso conto, dinamicamente, del mutare degli equilibri in corso.

    E torniamo quindi alla violenza. Nell’episodio capitatomi non c’era negli animi desiderio di violenza [mai fatto danni ad un uké, nanche quando, sotto esame, mi capitava “una patata”], né da una parte né dall’altra, ma neppure c’era quell’attenzione all’istante ed alla relazione che invece adesso trovo essenziale.

    Riflettevo l’altro giorno sulla “perpendicolarità”: nello zazen c’è questa unione che si manifesta nella postura, nello shatzu l’importanza della “pressione perpendicolare” nell’Aikido uno dei modi in cui si esprime la perpendicolarità dovrebbe essere questa attenzione costante [zanshin] alla relazione tra i due ruoli, che non si limita all’inizio od alla fine della tecnica ma si dovrebbe sviluppare in ogni istante.

    L’esempio più attinente è quello [vecchio] della relazione tra un surfista e l’onda che lo pone in movimento.

    Lasciando questa perpendicolarità iniziano tutte le degenerazioni, da quelle involontarie, come nel caso capitato a me, di lancio del peso da una parte e ginnastica acrobatica dall’altra, a quelle più perniciose di narcisismo e violenza, ma tutte hanno la costante di essere caratterizzate da una “proiezione in avanti” della mente verso l’autogratificazione dell’ego, il lancio di uké o la sua sottomissione-distruzione.

    Forse per questo, riequilibrare l’importanza dei due ruoli può portare ad una diminuzione degli incidenti e delle deviazioni, riconoscendo che la tecnica nasce solo dalla corretta e continua interazione.

  6. “ma tutte hanno la costante di essere caratterizzate da una “proiezione in avanti” della mente verso l’autogratificazione dell’ego, il lancio di uké o la sua sottomissione-distruzione”.

    Mentre invece se smettessimo di chiamarlo “uke” e lo chiamassimo “compagno d’allenamento”, “training partner” forse sarebbe più chiaro il quadro e i rispettivi ruoli.
    E’ chiaro che un compagno d’allenamento per me ha un significato diverso da quello di un principiante.
    Un compagno che crei difficoltà ad un praticante anziano sta svolgendo la sua funzione allenante nei confronti dello stesso. Ma se creasse le stesse difficoltà ad un principiante, sarebbe fuori dal suo ruolo.
    Come dovrebbe esser chiaro che un incidente a me è un “mio ” errore, ma lo stesso incidente ad un principiante va visto come un fallimento di tutti.
    Per come la vedo io Uke è soggetto attivo dell’allenamento dell’altro e niente altro. Saper cadere e cadere non fa parte del suo ruolo…cadere è una conseguenza non scontata e… saper cadere …attiene alla salvaguardia personale del praticante, non al suo ruolo di uke.

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