
Non si tratta solo di una questione di ritmo superiore, maggiore fisicità e atteggiamento mentale più focalizzato. La metodologia di studio presso l’Aikikai Hombu Dojo di Tokyo è diversa: il praticante è “solo” con i suoi problemi di crescita e deve sforzarsi di scoprire da sé le connessioni che regolano la pratica. A meno che non abbia un senpai pronto a decodificare il messaggio. Tratto da “L’Allievo – Intervista a Francesco Re“, vi proponiamo questo fresco ritratto delle difficoltà che un giovane praticante italiano ha dovuto affrontare per integrarsi all’Hombu Dojo
di FRANCESCO RE & SIMONE CHIERCHINI
“Per quanto riguarda l’Aikidō, la difficoltà principale è stata che l’allenamento all’Hombu Dōjō è molto intenso e io forse fisicamente non ero neanche così preparato.”
(SC) “Quante ore facevi di lezione?”
“Ho iniziato subito a farne tre, però praticamente morivo ogni sera. Ogni sera tornavo a casa distrutto. Ero lì, una povera cintura bianca… Ogni tanto andavo a invitare a praticare gli uke dei maestri, che poi sono diventati i miei amici. Era veramente dura! Inoltre anche il tatami è duro, letteralmente, e tornavo a casa pieno di lividi. Un’altra difficoltà mi veniva dal fatto che i maestri non spiegano un granché, non vengono spesso da te a insegnarti, personalmente. I maestri giapponesi, generalmente, quanto meno all’Hombu Dōjō, tendono a spiegare poco e quindi devi un po’ imparare a rubare il mestiere con gli occhi. Vige questo tipo di formazione: per poter imparare bisogna allenare l’occhio a vedere.” (…)
(SC) “Fermiamoci un attimo sul tuo allenamento all’interno dell’Aikikai Hombu Dōjō, Francesco. Ci dicevi che, pre-pandemia, avevi l’abitudine di frequentare tre lezioni al giorno. Ci puoi dire con chi? Suppongo che inizialmente avrai annusato tutti gli insegnanti, ma poi chi è che hai finito per frequentare regolarmente? E, soprattutto, quali sono i criteri che ti hanno poi spinto a continuare con certi shihan piuttosto che altri?”
“In genere, da quando ho preso lo shodan ho iniziato a fare praticamente tutti i giorni la lezione delle 8 del mattino e poi le due ore serali – quindi le lezioni che si tengono alle 5.30 e alle 7. I maestri che dirigevano le lezioni serali hanno attratto il mio interesse in modo particolare, specialmente Yokota, Miyamoto e Osawa sensei. Ciò che facevano mi stimolava, e inoltre Osawa e Miyamoto li avevo già incontrati in Italia durante due seminari, quindi ero stato già introdotto e più o meno mi conoscevano, almeno di vista. Ho avuto la sensazione che avessero qualcosa in più da trasmettere rispetto agli altri – non che gli altri siano da meno – però loro sono quelli che mi hanno attratto di più.”
L’Allievo
Intervista a Francesco Re
I Dialoghi Aiki #6
by Simone Chierchini, Francesco Re
Francesco Re è un giovane aikidoka italiano alla corte di Ueshiba.
Attualmente 3° Dan Aikikai, ha iniziato a praticare Aikido nel 2010 a Milano presso lo Zanshin Dojo, sotto la guida del padre, Andrea Re, uno dei maggiori esperti italiani
di Aikido, Iaido e Katori Shinto Ryu.
Francesco ci offre una prospettiva unica della sua esperienza di studio marziale in Giappone presso l’Aikikai Hombu Dojo di Tokyo.
La sua è una storia ricca di aneddoti e curiosità dai tatami del Giappone, visti dall’occhio di un praticante italiano di Aikido di nuova generazione.
(SC) “Ti erano più congeniali?”
“Sì, anche nelle loro diversità ho capito che potevo prendere da ognuno, sia nella tecnica che nell’ukemi.”
(SC) “Quale pensi che sia il filo conduttore tra di loro?”
“Forse lo stesso maestro, dato che tutti hanno seguito specialmente Yamaguchi sensei. Tuttavia hanno tre diversi approcci rispetto all’Aikidō e alla sua applicazione tecnica, quindi anche il modo di fare da uke con ciascuno di loro è diverso. Ognuno vuole che tu ti muovi in un certo modo, ciascuno diverso dall’altro, per vari motivi. È stato interessante vedere queste diversità e studiarle, ma non solo loro, anche con altri shihan. Ho un particolare interesse nello studiare i diversi sistemi di fare da uke. Ho così scoperto che l’ukemi non è solo la caduta in sé, ma è tutto il movimento dopo l’attacco. Devo dire che per me è stato molto stimolante scoprire queste cose nuove.”

(SC) “Ci dicevi, Francesco, che hai notato un’ovvia differenza nello stile di insegnamento fra quello cui eri abituato in Italia e quello che hai trovato all’Hombu Dōjō, cioè il fatto che all’Hombu Dōjō chi insegna praticamente non spiega niente – si pratica e basta.”
“Qui si fa e basta. Si danno poche spiegazioni e si dà molto più spazio alla pratica. Ricevendo poche spiegazioni, inizialmente risulta più difficile apprendere e per questo all’inizio spesso mi confondevo. Qui all’Hombu, però, durante la loro lezione, ogni tanto i maestri praticano anche con gli studenti. Questa trovo che sia una grande opportunità per far loro da uke, anche se per poco tempo.”
(SC) “Questo sistema ti obbliga a trovare le connessioni. Non ti vengono date in automatico da qualcun altro, sei tu che devi farle, giusto?”
“Sì, praticamente il grosso del lavoro lo devi fare tu. Poi, ovviamente, se sei fortunato, ci sono praticanti più anziani (soprattutto stranieri), gente di esperienza, che ti spiegano esattamente cosa il maestro intende. Da lì prendi a considerarli con degli occhi particolari e inizi, a lungo andare, anche a capire la correlazione tra senpai e kohai.”

(SC) “Spiegaci ulteriormente quanto sopra, Francesco, perché questo è un concetto che tutti fingono di conoscere e citano in Occidente, ma in realtà poi, in pratica, nei nostri dōjō il rapporto senpai-kohai non si vede, o si vede pochissimo. Invece mi sembra di capire che è un elemento fondamentale nella trasmissione della conoscenza marziale.”
“Magari mi sbaglierò, ma secondo me il concetto di senpai e kohai in Occidente è un po’ diverso da quello che c’è in Giappone. In Giappone il senpai è colui che ha più anni di esperienza, più anni di pratica marziale alle spalle. Non è sempre detto che debba essere di grado superiore al kohai, dipende. In genere è colui che ha più anni di esperienza.”
(SC) “Quindi il tutto è sganciato dalla questione dei gradi? I gradi non contano niente, conta l’esperienza sul tatami?”
“In Giappone il grado conta, ma per un fattore di rispetto. Invece in Italia o in Occidente, il concetto di senpai e kohai sembra essere più ‘il chi è più bravo’: della serie io sono più bravo di te, anche se ho diversi anni di meno di pratica e quindi io sono il senpai. Però non è affatto così.” (…)

“Tra me e i miei senpai, di base, c’è un rapporto di amicizia e un’idea comune riguardo l’Aikido. Sono come dei mentori che hanno qualcosa da insegnarmi. In pratica i miei senpai mi aiutano nel mio percorso sia in Aikidō che al di fuori, nella vita quotidiana, dandomi consigli, motivandomi e supportandomi. Spesso anche spronandomi! Abbiamo soprattutto un legame di fiducia in base al quale, in cambio, io li supporto: per esempio, se dovessero organizzare delle lezioni private, io sentirei l’obbligo morale di parteciparvi. Se discutessimo sull’Aikido e dovessero emergere opinioni diverse, non andrei troppo oltre a sostenere la mia idea, accettando con fiducia il loro consiglio, anche come segno di rispetto. Per quanto riguarda i nostri rapporti fuori dall’Hombu Dōjō, svolgo per loro delle commissioni dove necessitino di un mio aiuto e li sostengo sempre come posso.
Tratto da: Simone Chierchini, L’Allievo – Intervista a Francesco Re, 2021, Aikido Italia Network Publishing
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