Un Buon Dōjō Non È Un Posto Comodo!


Un buon Dōjō è un luogo pericoloso per i preconcetti e per le idee acquisite (le famose “sovrastrutture”). Può essere addirittura brutale per i concetti che non sono costruiti su basi solide. Un buon Dojo può farvi mettere in discussione chi e che cosa siete. Un buon Dōjō non si limita a insegnare tecniche di combattimento. Un buon Dōjō vi farà guardare dentro a voi stessi e vi aiuterà a strappar via le illusioni e le cose comprese male.

di PETER BOYLAN

Fare un allenamento di sabato era una buona idea, ma poi siamo andati oltre quello che avevo pianificato. Abbiamo cominciato secondo il programma, lavorando sui Kihon di Jōdō (Fondamentali di Bastone medio). Circa a metà, però, abbiamo virato in un territorio pericoloso. Abbiamo iniziato a guardare alcuni dei principi fondamentali. Uno dei più giovani studenti del Dōjō [1], che ha delle esperienze precedenti in Aikidō e Kenpō, ha posto alcune buone domande intorno al Ma-Ai (distanza), gli intenti e i significati. Le risposte chiaramente non erano quelle che aveva previsto, e abbiamo potuto vedere quasi il vapore che usciva dalle sue orecchie, mentre lavorava per elaborare le nuove idee. Si è trovato a dover rivedere le sue certezze e le cose che riteneva di aver capito. Un buon Dōjō è un luogo pericoloso per i preconcetti e per le idee acquisite (le famose “sovrastrutture”). Può essere addirittura brutale per i concetti che non sono costruiti su basi solide. Un buon Dojo può farvi mettere in discussione chi e che cosa siete. Un buon Dōjō non si limita a insegnare tecniche di combattimento. Un buon Dōjō vi farà guardare dentro a voi stessi e vi aiuterà a strappar via le illusioni e le cose comprese male.

In un modo molto concreto, il mio allievo stava scoprendo che quello che pensava di sapere circa l’effettivo utilizzo delle armi e dove lui poteva essere al sicuro non era molto preciso. Il modo concreto con cui lo stava scoprendo consisteva nel fatto di essere dalla parte sbagliata di un pezzo di legno che lo infilzava allo stomaco o si fermava poco prima di colpirlo in testa.

Ci sono molti modi in cui il Dōjō può essere inconfortevole, oltre il momento in cui si scopre di avere l’intestino meno solido fisicamente di un bastone, ma questi “altri modi” non sono meno reali. Abbiamo tutti delle aree in cui siamo tutt’altro che perfetti, e l’allenamento in un buon Dōjō porta tutto questo alla nostra attenzione. Il Budō [2] comprende tutto ciò che è necessario per affrontare un conflitto. Quello che nessuno mi ha detto quando ho iniziato era che alcuni dei conflitti più difficili sarebbero stati quelli con me stesso.

Tutti iniziano il Budō con una serie di obiettivi: per imparare a combattere, per non essere più intimiditi da persone aggressive, per imparare qualcosa sui samurai, per ottenere un senso di potere personale, per imparare a difendere fisicamente se stessi. Questi sono alcuni dei motivi che mi hanno dichiarato le persone che volevano iniziare la pratica delle Arti Marziali. Sono tutte belle motivazioni per iniziare il percorso. É solo che il percorso comporta relazionarsi con molte parti di noi stessi che non abbiamo mai pensato di affrontare, e arrivare in posti nella nostra mente dove non avremmo ma pensato di andare.

Molte persone che iniziano a praticare il Budō non sono a loro agio se devono colpire altre persone, se devono fare qualsiasi cosa che ritengano possa ferire qualcuno o possa sembrare aggressivo. Questo è un problema per le persone che vogliono imparare a difendersi. Questo è un problema che di solito è evidente per le persone già prima di recarsi in un Dōjō, vuol dire che almeno sono già disposti a confrontarsi. L’allenamento di ogni giorno li porta faccia a faccia con questo problema. Ancora più importante, li mette in contatto con un insegnante o un compagno più anziano di pratica che gli sta dicendo “colpiscimi” o “proiettami”, o di fare una qualche altra azione di attacco, ma noi siamo tutti cresciuti sapendo che le persone corrette non colpiscono altre persone.

Quando un principiante nel Dōjō dice: “Io non voglio farti del male” sta confessando diversi preconcetti. In primo luogo, che pensa di poter ferire le persone. In secondo luogo, che non si fida di se stesso, non ritiene di avere abbastanza controllo per non far male a qualcuno, e la terza, che a un certo livello non crede che l’insegnante possa gestire quello che stanno facendo. Tutti e tre di queste sono cose che fanno sì che la maggior parte delle persone si senta a disagio.


Riflessioni di un Vagabondo del Budo
I Classici del Budo #2
di Peter Boylan

Le tecniche sono un contenitore per veicolare tutto ciò che costituisce il Budo.
La maggior parte dei libri sulle arti marziali si concentra sulle tecniche, anche se alcuni raccontano la storia, e qualche informazione di natura filosofica.
È davvero raro scoprire un libro che combina in modo così fluido tutto questo nel contesto più ampio della cultura e dello stile di vita, e lo fa in un modo così semplice, coinvolgente e accessibile.
Riflessioni di un Vagabondo del Budo è un libro che si interessa non tanto al come o al cosa, quanto al perché. Perché chiamare sensei gli insegnanti di Budo? Perché ci inchiniamo? Perché i kata? Perché continuare ad allenarsi?
Peter Boylan, alias il “Vagabondo del Budo”, ha raggiunto un alto grado in diverse arti marziali, dopo aver trascorso decenni di immersione nel Budo, a cavallo tra i mondi e le culture del Giappone e dell’America, traducendo l’una per l’altra.
In questi saggi, il lettore è invitato a camminare al fianco di un uomo tranquillo che si interroga in profondità riguardo ai mondi in cui il Budo è stato creato e viene praticato, e che porta il significato di tutte le cose che sono il Budo nella nostra vita quotidiana.

Peter Boylan studia le arti marziali giapponesi da oltre trent’anni. Ha iniziato con il Kodokan Judo, per poi aggiungere Iaido e Jodo dopo essersi trasferito in Giappone, dove ha vissuto e studiato per quasi sette anni. Attualmente è 5° dan di Iaido della All Japan Kendo Federation, 5° dan di Jodo della All Japan Kendo Federation e 3° dan di Kodokan Judo. Possiede uno Shomokuroku di Shinto Muso Ryu e un certificato Jun Shihan di Shinto Hatakage Ryu. Quando gli è stato chiesto dei suoi interessi al di fuori del budo, la domanda gli è sembrata del tutto senza senso.


La Società non approva che le persone vengano ferite, e noi interiorizziamo questo dato mentre cresciamo. Entrare in un Dōjō è un problema sin dal primo passo per varcarne la porta, perché lo studio del Budō implica imparare come ferire le persone, e la nostra cultura sociale dice che “Tutto questo è male”. Quindi il primo blocco mentale che dobbiamo superare è l’idea che saper combattere non è una capacità che la gente considera una “buona cosa”. Mi rendo conto che sto predicando ad un gruppo di individui già simili a me, perché sospetto che tutti coloro che stanno leggendo questo testo siano già praticanti di Arti Marziali. Pensate, però, che al di fuori del Dōjō, la gente ha paura e si spaventa di chi ha abilità di combattimento, che la gente in ufficio non vede mai fare qualcosa di più violento di triturare vecchi documenti. Questa è già una prima cosa di cui chi viene ad un Dōjō deve abituarsi.

Nel Jūdō e nell’Aikidō, la nuova paura che le persone devono superare una volta che sono sul Tatami, è la paura di cadere. Passiamo metà del nostro tempo effettuando tecniche sui nostri partner, e l’altra metà ricevendo le stesse tecniche, il che significa un sacco di cadute. Cadere è qualcosa impariamo ad evitare già da bambini, perché fa male ed è imbarazzante. Ci può volere un po’ di tempo per sentirsi a proprio agio con le cadute. E’ in contrasto con ciò a cui le persone sono abituate a fare, ma mi piace effettuare le cadute come partner di un altro quando ci si allena. Si può sentire la loro tecnica, come si muovono e impostano un lancio, e come si prendono o no cura del loro partner. Francamente, penso anche che sia davvero bello che qualcuno mi può buttare a terra duramente, tanto che avrei dovuto avere ossa rotte, e posso saltar su e dire: “É stato fantastico! Fallo di nuovo!”. Una volta a superare la paura di farsi male, cadere è divertente.

Un grosso problema per molte persone consiste nella loro paura di ferire realmente qualcun altro. Non si fidano di loro stessi, di essere in grado de non ferire il partner, e molte persone non si sentono a loro agio ad esprimere potenza fisica. Noi possiamo passar sopra l’impressione che i principianti freschi freschi non posseggano affatto quelle capacità che li renderebbero delle minacce per chi sta loro intorno. I nuovi studenti devono superare l’impressione che solo ad avere la conoscenza di come ferire le persone, conoscenze minori di quanto siano poi abili ad usarle, sia qualcosa di negativo.

Aggiungete a tutto questo la vocina pignola che risuona nella mente di molte persone, ripetendo loro che non possono più fidarsi di se stessi, dopo che hanno acquisito questa conoscenza ed abilità. “E se mi arrabbio e faccio qualcosa che poi mi dispiace?”, “E se io non sono bravo abbastanza per controllare la mia tecnica e ferisco qualcuno involontariamente?”, “E se mi piace molto essere forte e divento un bullo?”. La gente ha tutti i tipi di preoccupazioni, alcune delle quali sembrano piuttosto stupide. Fino a quando non hai frequentato per un tempo abbastanza lungo un Dōjō e hai effettivamente visto poche persone che si comportano male. A quel punto non sembrano poi così sciocche le preoccupazioni.

Non essere fiduciosi che l’insegnante non sia in grado di gestire ciò che lo studente fa, è un ostacolo molto più facile da sistemare che quello di non essere fiduciosi di voi stessi. Dopo qualche occasione in cui il maestro dice: “Colpiscimi!”, lo studente decide finalmente: “Bene, lo vuole davvero, quindi è colpa sua se si farà male!”. Lo studente cerca di colpire l’insegnante e scopre che l’insegnante non è dove lui ha sferrato l’attacco. Peggio ancora, o meglio, l’insegnante ha contrattaccato in qualche modo, e che non sarebbe stato molto piacevole se non avesse avuto un buon controllo. Non è necessario che si svolgano molte ripetizioni di queste situazioni prima che lo studente inizi ad aver fiducia che l’insegnante può fare quello che dice, e che si terrà al sicuro da solo.

Imparare a fidarsi di se stesso, però, è molto più difficile. Noi non accumuliamo molta esperienza con il conflitto e la violenza fisica nella società occidentale attuale (il Giappone è ancora più tranquillo). La maggior parte dei nuovi studenti probabilmente non è stata mai coinvolta neanche in una gara a spintoni ai tempi del liceo, e tanto meno in un combattimento. Prima che le persone inizino l’allenamento, sono consapevoli che possono ferire gli altri, ma non hanno alcuna tecnica, così loro hanno poche idee di cosa accadrà se fanno qualcosa. I principianti, molto ragionevolmente, non si fidano di loro stessi. Non hanno alcuna abilità tecnica e non hanno molto controllo del proprio corpo, così non credono che loro stessi siano in grado di attaccare qualcuno, o siano in grado di applicare una tecnica senza danneggiare o ferire i loro compagni di allenamento, questo atteggiamento è probabilmente saggio.

Ci vuole tempo per imparare a fidarsi di se stesso e di capire di cosa si sia davvero capaci. Il cammino in cui si arriva alla fiducia in se stessi è complicato. I primi passi sono solo imparare ad eseguire la propria tecnica di base, capire che si può tranquillamente fare una caduta, o proiettare il proprio partner, o attaccare con precisione e controllo. Una volta che gli studenti iniziano ad avere un certo grado di fiducia nelle proprie capacità fisiche, si imbattono in alcune delle altre domande scomode. “Ho abbastanza autocontrollo per fare questo?”, “Potrei perdere la calma e fare male a qualcuno?”. Raramente ho incontrato studenti che avevano padronanza e capacità di usare quello che avevano imparato, ma contemporaneamente mancanti di moderazione tanto da usare ciò che sapevano senza una buona ragione. Che gli studenti si preoccupino di questo è un buon segno per me, ma richiede una forma di riflessione e consapevolezza non comune, non facile da realizzare.

E’ difficile considerare che non potremmo essere dei perfetti e meravigliosi esseri umani. Ciò rende la consapevolezza una delle cose più difficili da acquisire nell’allenamento. Appena lo studente acquisisce abilità, non è raro che si chieda quale sia il tipo di persona che possiede la capacità di fare cose potenzialmente violente. Trovo che questo sia particolarmente vero per le donne: “Le brave ragazze non si comportano in questo modo!”, “Colpire la gente non è signorile!”, “Le signore sono al di sopra di questo genere di cose!”. Aggiungete a questo gli stereotipi sociali dove le ragazze non “menano” (es.: “Colpisce come una ragazza!”), e gli ostacoli mentali ed emotivi possono diventare eccessivi. Devo ringraziare Ronda Rousey per aver dimostrato al mondo che, si, le donne possono combattere. Ogni donna che frequenta il Dōjō deve fare un simile percorso mentale per se stessa.

Ognuno deve decidere che tipo di persona sia chi sa come combattere. Questo di solito non è un problema per gli uomini, ma molte cose che vengono insegnate in un Dōjō di Arti Marziali non riguardano direttamente il combattimento. É’ la precisa, quasi scientifica arte di come decostruire un’altra persona. Che tipo di persona sa queste cose? Un mostro? Gli studenti si sentiranno a disagio finché non raggiungeranno l’abilità di saper dislocare le articolazioni e rompere gli arti, di saper strangolare qualcuno fino all’incoscienza dei sensi, o di lanciarlo attraverso la stanza così duramente da farlo rimbalzare.

Gli studenti devono guardare dentro loro stessi e capire chi sono, che tipo di persona sono e decidere che questo va bene per loro, sapere come fare queste cose violente. Devono decidere che va bene per loro possedere questo potere. É facile dire “Questo non è una gara” quando si sta al di fuori. Abbiamo tutti gli aspetti di noi stessi che non ci piacciono particolarmente, espressioni personali e caratteristiche di cui non siamo orgogliosi, e forse anche da vergognarsi. Queste parti di noi stessi ricevono tutta questa conoscenza e potere.

Questi sono solo i problemi che ognuno deve superare nelle Arti Marziali. Diversi ostacoli saranno più difficili o meno difficili secondo le persone. Poi ci sono questioni particolari che le persone possono portare con loro. Se qualcuno ha subito abusi o traumi, anche il semplice afferrare la mano di un partner per praticare una leva potrebbe essere difficile. Permettere a un partner di farci proiettare potrebbe richiedere un atto di fiducia, fede e coraggio, maggiore di quanto abbia mai dovuto dare. 

Essere nel Dōjō non è comodo, ma è una buona cosa. Un buon Dōjō offre agli studenti un luogo per lavorare su tutti questi problemi. Buoni insegnanti danno agli studenti sostegno per lavorare su di loro. Ho conosciuto persone che pensavano che essi dovevano “premere dei pulsanti” per aiutarli a crescere. Trovo che solo ad essere nel Dōjō ed allenarsi attivamente sia di solito più che sufficiente. Quello che facciamo nel è giocare con la violenza, l’aggressività e la forza. Roba che non è consentito nella buona società. Basta lavorare con queste cose, imparare a controllarle e come applicarle farà la gente conosca parti di se stessa che può evitare di affrontare nel suo mondo quotidiano.

Lavorare con queste cose può fare di un Dōjō un posto scomodo, ma anche una grande possibilità per imparare non solo a combattere e infliggere un danno, ma anche qualcosa su che tipo di persona sei. Guardando dentro noi stessi, chiaramente, non è quasi mai facile, ma vivere nel Dōjō richiede che guardiamo dentro noi stessi una volta, e ancora, e ancora dopo. Forse stiamo semplicemente scoprendo delle cose che non sapevamo, delle cose che credevamo di aver capito. Tutto questo implica la realizzazione di una scoperta: forse non siamo proprio “buoni” pensavamo di essere.

A volte lo stress dell’allenamento espone pezzi di noi stessi che preferiremmo non affrontare. Forse ci arrabbiamo troppo facilmente con gli altri quando siamo involontariamente toccati o quando ci facciamo male durante la pratica. Potremmo scoprire che non sopportiamo bene essere sotto la pressione di un attacco impegnativo e senza tregua, che ci facciamo prendere dal panico. Potremmo scoprire che non ci stiamo a perdere, anche se perdere nel Randori non è realmente perdere. Questi sono solo alcuni dei problemi che si possono sollevare frequentando un Dōjō.

Nel Dōjō, però, così va bene. Per questo un Dōjō è ciò che il Dōjō è. Non si può essere un buon combattente se non si conoscono le proprie debolezze, quindi un buon Dōjō aiuta ad affrontare i problemi e le debolezze che si trovano in noi stessi. Un buon Dōjō è un po’una fonte di disagio perché nei fatti è uno specchio per guardare dentro se stessi. Un buon Dōjō è meraviglioso perché ti dà il sostegno e la struttura per affrontare quello che si vede in quello specchio.


Peter Boylan pratica Judo da oltre 25 anni. Fluente in giapponese, ha trascorso 7 anni allenandosi, gareggiando e insegnando a Shiga, in Giappone. È anche un praticante di diverse altre arti del budo giapponese, tra cui Muso Jikiden Eishin Ryu, Shinto Muso Ryu e Shinto Hatakage. Dopo più di un decennio concentrato sulla competizione, ora ha un particolare interesse per i kata e le applicazioni non competitive del Judo. È l’autore di un popolare blog sul Judo e sul Budo, The Budo Bum, e dell’apprezzato volume Riflessioni di un Vagabondo del Budo, uscito in traduzione italiana per i tipi di Aikido Italia Network Publishing.

[1] La parola “Dōjō” è giapponese e significa “Luogo dove si pratica la Via”. E’ un concetto buddista e viene usato per denominare un luogo dove si studia e pratica fisicamente una disciplina il cui fine è un miglioramento del corpo/mente/spirito di un individuo attraverso duro lavoro ed applicazione costante senza limiti – [Nota di AA]

[2] Budō = Via del Guerriero – il complesso di tutte le Arti Marziali giapponesi intese come disciplina di crescita e sviluppo dell’individuo nella società e nell’ambiente – [nota di AA]

Copyright Peter Boylan ©2015 http://budobum.blogspot.com/2015/04/a-good-dojo-isnt-comfortable-place.html
Tutti i diritti riservati. Qualsiasi riproduzione non espressamente autorizzata è severamente proibita.
Traduzione di Adriano Amari


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