Aiki Kokyu e il Jazz


Miles Davis

Il vecchio Patanjali scriveva “Yogas chitta vritti niroddah”, cioè “lo yoga é acquietare i vortici della mente”. Vorrei, dovrei e vorrei seguire questo principio, ma fatico molto, sinceramente parlando, a farlo

di MASSIMILIANO GANDOSSI

Complice la mia età che mi chiede di pensare tanto ed essere attivo, complici i social network, le discussioni che fomentano e le riflessioni che ne conseguono. Ma questi pensieri vorticano, continuamente, fatta forse solo eccezione per le ore quotidiane di pratica in cui effettivamente , planando si appoggiano a terra e si acquietano. E allora danziamo con questi pensieri e osserviamoli così da scoprire, magari, qualcosa di interessante.

Penso spesso all’Aikido, rileggo mentalmente i movimenti, le emozioni, le difficoltà, mie e di chi condivide con me il cammino. Oggi, come spesso succede sto pensando al kokyu, a questa parola utilizzatissima e al suo misterioso valore nascosto, nel lato ura del nostro essere, quello che viene offuscato dai ben più rumorosi sensi, e che purtuttavia dipende da essi in quanto parametri di riferimento del mondo, diciamo così, terreno.

Kokyu ho, kokyu nage, due radici comuni come lo sono le sorgenti di fiumi che sfociano a centinaia di kilometri di distanza. In entrambi i casi, il corpo e la tecnica sono gli strumenti di avvicinamento per il principiante che devono essere trascesi quanto prima DURANTE la pratica onde evitare che diventino il limite del praticante, super specializzato nelle leve favorevoli e nelle posizioni ben piantate del corpo e così sicuro di esse e fermo in esse da essere completamente incapace di ascolto profondo e di CREATIVITA’. Kokyunage non é una tecnica, non é una posizione, é un MODO.

Mi spiego: se attendo di vedere il movimento di uke, usando gli occhi, il senso della vista, sono già in ritardo. Inutile dire che se aspetto il contatto o la presa, la possibilità che ciò che faccio sia un kokyunage é pari a quella di rianimare un morto partendo dalle sue ceneri. Il movimento di uke è giá un effetto, effetto di un atto di volontà, di un guizzo decisionale che noi possiamo percepire, così uke prenderà aria inspirando per sferrare l’attacco e noi faremo lo stesso e nello stesso momento, così il tempo del nostro movimento sarà armonizzato non con il movimento di uke, ma con ciò che lo genera e faremo kokyunage.

Charlie Parker e Miles Davis a New York (1947)

Similmente nel jazz il musicista necessita di avere preparazione tecnica per suonare uno strumento ma deve guardarsi dalle deformazioni che vengono prodotte dalla tecnica e dall’eventuale eccesso di enfasi che si dà alla tecnica. Il musicista che ha studiato troppo, che si è esercitato per molti anni e troppo sui libri di tecnica attribuendo ad essa la buona riuscita del suo essere un musicista, sarà arido, risulterà quadrato, quasi pacchiano quando cercherà di suonare jazz e improvvisare perché tenderà a rifugiarsi sempre in quei tecnicismi che lo rendono sicuro, nella sua grotta calda senza kokyu, legato alla carta dello spartito più di quanto lo sia alla sua stessa mente, alla sua stessa anima.

Come sopra, un audace esploratore dei sentimenti musicali, privo di tecnica produrrà melodie mal suonate e cacofonie senza ne capo ne coda. E allora? Meglio la tecnica o la liberazione dalla tecnica? La ma risposta è MEGLIO TUTTE E DUE! Ed è possibile, ad opera del LAVORO dell’ insegnante che fin dall’inizio dia un colpo al cerchio e uno alla botte, aspettando pazientemente di veder crescere i propri studenti, senza smaniare dalla voglia che esprimano prima possibile il suo modo di vedere o la destrezza in uno o l’altro ambito.

Non si può pensare che un aikidoka che ha sempre praticato in maniera statica per anni e anni considerando GIUSTE, e non possibili, le sue tecniche, un bel giorno dopo 15 anni e con il terzo dan decida di mettersi in gioco e rinunciare alle sue sicurezze fluidificando la pratica e mettendo in movimento il suo lavoro svincolandosi dalla logica del contatto come segnale di partenza, perché non succede!

Non ci si può aspettare che praticando solo il tempismo e l’unificazione del proprio asse mente corpo lo studente capisca da solo l’anatomia e fisiologia dei kata e waza per controllare e sbilanciare un uke che si è sempre e solo comportato in maniera asservente. Ma ci vuole certamente piú tempo e pazienza. La pazienza che deve avere il jazzista, pur assetato di emozioni e ferocemente desideroso di suonare, che magari si trattiene, ascolta, aspettando un’ispirazione che gli faccia suonare le note da suonare e non quelle che sa suonare, i suoi personali tecnicismi, belli magari ma alla lunga decisamente ripetitivi.

Sicuramente è piú facile e veloce far ripetere in continuazione agli studenti un determinato movimento scomposto nelle sue parti didatticamente più semplici da ricordare per ottenere che lo sappiano fare bene in quel modo, ma alla lunga quel modo diventa IL MODO e diventa una comoda prigione dalla quale il praticante non vuole più uscire, e anzi col tempo ne fa un pregio e una scelta stilistica. Ma l’Aikido non é un brano scritto sullo spartito che si esegue pari pari, è una composizione estemporanea che si suona a 4 mani e se uno dei due pianisti legge la carta e l’altro improvvisa il risultato sarà una musica sconnessa, magari anche bella ma sconnessa; se entrambi leggono la carta rappresenteranno magari in modo sublime la musica di qualcun altro, se invece si guardano negli occhi e dimenticandosi di essere divisi da 88 tasti iniziano a comunicare e sentire allora quello che si ascolterà sarà vero jazz.

Certo è che non a tutti piace il jazz…


Copyright Massimiliano Gandossi ©2012
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Il website di Massimiliano Gandossi è http://www.bushidokai.it/

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