Accade a volte di avere delle fulminee intuizioni, quelle che si potrebbero chiamare “Illuminazioni”, prendendo a prestito dall’Oriente un termine sin troppo abusato e probabilmente eccessivo per questa occasione. Sono quei momenti in cui tutto ti appare sorprendentemente chiaro, ed anche oggetti e situazioni normalmente sideralmente lontane tra loro ti appaiono legate da un filo tanto sottile quanto robusto che ti riporta – novello Teseo – fuori dal labirinto del Minotauro
di CARLO CAPRINO
In fondo appartenere alla razza umana è anche questo: avere l’incoscienza di Icaro e l’arroganza di Prometeo, non accontentarsi del destino che ci appare segnato, sfidare l’ignoto e avventurarsi in territori sconosciuti. Un coraggio, una arroganza, una hybris senza la quale – probabilmente – andremmo ancora vestiti di pelli di animali e dormiremmo nelle caverne come i nostri progenitori di qualche millennio fa.
E così stamattina sono balzato di colpo fuori dal letto, preoccupando non poco mia moglie, inseguendo quel pensiero che si era fatto largo tra il sonno e la veglia come il lampo provocato dal riflesso del sole su una spada sguainata, dando il via a quello che l’amico Stefano chiamerebbe “flusso di coscienza”, sicuramente più utile a chi sta scrivendo queste righe che a quei pochi che le leggeranno, cercando di fissare attraverso la tastiera di un computer quello che per un baluginante attimo è apparso come un pensiero compiuto, complesso da interpretare eppure immediato da comprendere, singolarmente unitario eppure fantasiosamente sfaccettato, più simile alla vetrata policroma di una cattedrale medievale che ad una equazione matematica.
Nulla è per caso, e merito (o colpa, lo decideranno i lettori…) è senz’altro da attribuirsi alla meritoria opera di Simone Chierchini, che ha tratto dallo scrigno di Aikido Italia Network alcune perle che avevo colpevolmente perso, permettendo a noi distratti lettori di scoprire che Ueshiba Morihei, il Fondatore dell’Aikido, non era quel nonnetto mite e bonaccione che una certa aneddotica new age vorrebbe far passare, che l’Aiki un po’ come l’Araba Fenice, “che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa”, e che si può praticare la stessa disciplina avendo sul modo di farlo e sugli obbiettivi da raggiungere idee affatto diverse, come nel caso di Carlo Cocorullo e Fabio Branno, che con i loro ricordi marzial-gastronomici hanno risvegliato in me – che cito spesso gli ammaestramenti dei miei nonni e che ho da poco perso una zia – una nostalgica gratitudine che non credevo di poter provare, per quanto ho da loro ricevuto.
La Spada, il Gioiello, e la Tazza del Té: che cosa potrebbe unire questi oggetti (o categorie dello spirito, azzarderebbe un filosofo…)? Beh, i nipponofili suggerirebbero che i primi due sono i simboli stessi del Giappone, e anche la terza – richiamando il Cha-no-yu – abbonda di riferimenti al Sol Levante, ma la mia sensazione di stamattina era che questi oggetti rappresentavano per me, per le mie esperienze, per il mio vissuto, il simbolo di qualcosa che vorrei si conservasse in eterno, intatto e intangibile, perfetto come il primo giorno. In realtà, questi oggetti, come tutti gli altri e come tutti noi esistono davvero solo quando accettiamo che un giorno non esisteranno più.

Ripenso al destino di molti gioielli: nascosti in cassette di sicurezza, protetti da robuste casseforti, occultati in fondo a qualche cassetto tra ciarpame di nessun valore per tema di un furto o uno smarrimento. Quante opere d’arte, specie se acquisite illecitamente, giacciono nascoste a tutti se non a colui che egoisticamente ogni tanto le rimira beandosi di quanto ha sottratto allo sguardo di tutti, quale triste destino è quello di un diamante che non può riflettere in raggi multicolori i raggi del sole che lo illuminano? C’è un racconto a fumetti di Zerocalcare, dolce-amaro come tanti suoi disegni, in cui ricorda il furto di un giocattolo fatto da bambino ad una amica di famiglia: fa ridere, ma fa anche riflettere su certi nostri comportamenti.
Allo stesso modo, quanti hanno conservato gelosamente un raffinato liquore, un cibo gustoso, un frutto succulento, rimandando l’assaggio ad un momento speciale che sembrava non giungere mai: poi il frutto marcisce, il cibo si guasta, il liquore si annacqua e invano rimpiangiamo l’occasione persa. Che senso ha preparare una tazza di tè che poi lasciamo raffreddare senza godere dei suoi effluvi e senza apprezzarne il gusto?
Chi scrive ha per anni custodito con affetto quasi religioso la spada ricevuta in dono dal suo primo Maestro, la battezzò con un nome noto solo a lui ed a chi quella spada l’aveva posseduta prima e ceduta poi “da Cuore a Cuore”, come simbolo tangibile di una Tradizione che si perpetuava, anche se espressa solo nel continuare a tenere attivo un corso di Aikido che perdeva per motivi di lavoro un Maestro lungimirante per affidarsi ad un allievo che tantissimo aveva da imparare e ben poco da insegnare. Quella spada fu custodita per anni lontana da occhi indiscreti, mai guardata, mai sguainata, solo ogni tanto spolverata.
Quella spada oggi è nel Dojo dove pratico, sul Kamiza insieme al Jo ed al Ken che mi sono stati donati da due Maestri, uno che purtroppo non è più tra noi ed uno che – fortunatamente – ancora mi onora della sua amicizia. Per anni ho tenuto al riparo questi preziosi doni da ogni accidente della pratica, li ho lasciati fermi ed inoperosi, per tema di scalfirli; poi – parafrasando lo Zarathustra di Nietzsche che affermava: “si fa un pessimo servizio al proprio Maestro se si rimane per sempre allievi” – compresi che si merita una spada solo se si ha il coraggio di sguainarla. Ovviamente è da escludere la sbruffonesca vanagloria o il presuntuoso atteggiarsi a ciò che non si è; riandando agli ammonimenti dei Maestri passati – tanto d’Oriente quanto d’Occidente, vergati nell’inchiostro dei Densho o incisi sull’acciaio dei “coltelli d’amore” – si può sguainare una lama solo se si ha il coraggio di farlo, e non si intenda con questo solamente l’ardimento al limite della sconsideratezza dell’arrogante guascone, quanto piuttosto la consapevolezza che – come ci viene insegnato – “una volta sguainata, la lama potrà riposare solo dopo essere stata bagnata dal sangue, nostro o altrui”, con tutte le responsabilità delle conseguenze etiche, morali e legali che ne derivano.
Ho deciso allora di usare quella spada, quel jo e quel bokken per il motivo per cui erano stati creati prima e donati poi, per aiutarmi a fare un passo avanti lungo la Via che avevo deciso di percorrere, mostrandomi nei fatti che senza lividi, senza escoriazioni e senza ecchimosi – tanto nel corpo quanto nell’anima – non si va da nessuna parte. Dispiace? Si. Fa male? Certo! Osservare il jo scheggiato da una parata mi ha lasciato il magone sino a quando le mani abili di un amico me lo hanno restituito restaurato come fosse nuovo; contare le ammaccature che segnano i fianchi del bokken ogni tanto mi fanno dubitare di aver fatto la scelta giusta, poi osservo nel video il Maestro inginocchiarsi mentre esegue un kata di kenjutsu sulla sua terrazza di casa (ubi coronavirus, Dojo cessat) senza preoccuparsi di sporcare la sua immacolata Hakama e capisco che i miei timori sono ingiustificati; ho il timore di non saper legare il sageo della spada con l’elegante fiocco che aveva quando la ricevetti in dono, ma questo sono e sarebbe stupido voler mostrare altro.
Ecco, questo è il pensiero che mi ha svegliato stamattina: che senso avrebbe non fare ciò che è giusto fare per timore di ciò che potrebbe accadere? Che senso ha impedire ad un bambino di correre e giocare in un prato per il timore che cada, si sbucci le ginocchia e si sporchi i pantaloni? Che vita è la vita che non è vissuta?

Usando una spada, ammirando un gioiello, assaporando una tazza di tè dovremmo comprendere che esistono oggi perché domani non ci saranno più, ed è questo il senso per cui sono stati creati, ed esiste un “qui ed ora” che possiamo e dobbiamo vivere solo nel momento presente, nel “tada ima” che Saito Morihiro Sensei spesso ricordava ai suoi allievi, nel proprio adesso che è per un attimo e per sempre non sarà più, nella consapevolezza che “Paganini non ripete”, né quando suona il violino, né quando esegue una tecnica di Aikido.
E lo stesso vale per un sentimento, per una amicizia, una parentela: quanto valgono se non accettiamo di viverle ogni giorno che ci è dato di farlo per smettere di rimpiangerle quando non sarà più possibile? Che coraggio dimostreremmo se, invece di rischiare i nostri talenti – come nella parabola evangelica – crederemmo di mettere al sicuro noi e loro nascondendoli nell’angolo più nascosto che abbiamo?
Dobbiamo allora aprire gli occhi (non solo quelli fisici, ovviamente..) per percepire quel “suki”, quella momentanea apertura della guardia dell’avversario che crea un’opportunità d’attacco, per agire con tutto il nostro essere; “un colpo, una vita”, ammoniscono i Maestri senza dare soverchie spiegazioni, “Sotto la spada alta levata / C’è l’inferno che ti fa tremare. / Ma fai un passo avanti e troverai / la terra della beatitudine.” ci dice un saggio che forse era Miyamoto Musashi e forse no.
Dobbiamo affrontare la paura. Paura di cosa? Paura di essere sconfitti, forse. La paura di perdere, non tanto la vita (oggi sarebbe difficile) ma le nostre convinzioni, le nostre sicurezze, le nostre certezze, le nostre illusioni. Ma anche i nostri beni, i nostri affetti, le nostre amicizie e tutto quello che fa di noi ciò che siamo o che crediamo di essere.
Ci vuole coraggio, tanto. Ci vuole coraggio a sguainare la spada, ci vuole coraggio a indossare il gioiello, ci vuole coraggio a mettere l’acqua a bollire per preparare il tè. Ma senza questo coraggio, la vita varrebbe davvero la pena di essere vissuta?
Fonte: https://www.fenicerossagrottaglie.it/2020/04/30/la-spada-il-gioiello-e-la-tazza-di-te/
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