
Lo spunto per scrivere quest’articolo proviene da una lettura e dalla pratica. Nel filone dei miei studi (trasversali e comparativi) ho recentemente affrontato il fondamentale libro sulle Arti Marziali indonesiane, scritto da Donn F. Draeger negli anni ‘70: “The Weapons and Fighting Arts of Indonesia” [1]
di ADRIANO AMARI
Da seguace senior (anche “master”, penso…) della scuola Yōseikan, ho seguito l’approccio progressivo a diverse discipline, anche il Pencak Silat Indonesiano [2] rientra tra i miei studi. La pratico da più di vent’anni. Ho una buona conoscenza di due scuole dal nome “topografico” (il nome ha un riferimento ad un luogo geografico) e di tre scuole “totemiche” (fanno un riferimento imitativo agli animali). Si tratta di scuole di Giava e Sumatra.
Dico subito, al lettore meno attento, che il numero di scuole di pratica non deve né impressionare, né apparire dispersivo. Provengono tutte da un’unica matrice antica e ancestrale, e tutte mantengono un “corpo” trasversale, differenziandosi tra loro, essenzialmente, nel modo con cui espandono dei principi comuni e nelle strategie che ognuna sceglie di approfondire [3].
Come gruppi di ingranaggi ognuno in sé perfettamente funzionanti, le discipline “vere” di tutte le Arti Marziali del Mondo sono in grado di congiungersi l’una all’altra, formando un unico meccanismo superiore. Il tutto è un sistema compiuto dove le varie parti collaborano e si spiegano l’un l’altra vari principi, passaggi, movimenti tecnici.
Questo avviene anche per il Pencak Silat – il nome è un “contenitore” esattamente come “Kung-Fu”, “Jū Jutsu” o “Lotta” – si interfaccia magnificamente non solo con il Kali (o Arnis) delle Filippine, che è uno “stretto cugino” con cui condividono molte cose, ma anche con lo Yōseikan Budō, l’Aikidō/Aikibudō, e più oltre, con il Jū Jutsu Koryū.
Ok, torniamo al testo, adesso.
Nel suo libro Draeger traccia la storia generale dell’arcipelago indonesiano, poi particolareggia quella delle isole più importanti, una per una, a seguire la provenienza e lo sviluppo delle armi e delle tecniche di combattimento, generalmente divise per i territori e le molte etnie.
Traspare un “filo rosso” che traversa tutte le pagine – un filo che è una gomena da nave di grande tonnellaggio – ma non tutti sono in grado di percepirlo.
Le Arti Marziali di quel paese, consideriamo l’epoca in cui fu scritto, cinquant’anni fa, erano ancora “vive” in quanto conoscenze “applicabili” per periodiche necessità e situazioni ambientali. Nelle descrizioni fatte dall’autore compaiono i diversi scenari: grandi centri abitati, i villaggi disseminati nella natura, le tribù ancora “territoriali”, cacciatori di teste e pirati per scelta [4].
Estraggo qui alcuni di questi elementi che si intrecciano nel “filo rosso”:
- Combattere per uccidere o, quanto meno, mettere l’avversario in condizioni di non nuocere, senza alcuna cura per la sua incolumità;
- Usare armi, normali o speciali, con intenzioni letali. “Inventare” armi da quello che la natura o il caso ci mette a disposizione sul posto;
- Vincere è l’unica opzione, non importa come: trucchi, attacchi proditori o asimmetrici, assalti di gruppo, ogni cosa.
Aspetti etici si esprimono in genere prima o dopo lo scontro. Norma generale è combattere solo se e quando è necessario, con delle interpretazioni restrittive o espansive caso per caso. Nell’ambiente della “giungla” o “battaglia”, agire “prima” appare spesso una necessità, come assaltare improvvisamente il possibile “nemico” senza alcun preavviso.
Questo non fa che ricordare a tutti il principale scopo per cui sono state formulate le Arti Marziali, vincere il combattimento. Che è il dovere del guerriero. Il “come” può essere stemperato dagli aspetti cavallereschi e dell’onore, come restringere l’azione ai combattenti effettivi, evitare la ferocia o infierire sul vinto, non distruggere e saccheggiare.
In ogni modo il tema del combattimento è la l’efficacia e la consapevolezza di quali effetti hanno le azioni – cosa fanno e come lo fanno – e le tecniche che sono state apprese attraverso l’insegnamento ricevuto, sia esso avvenuto in una struttura separata, o un addestramento militare, o impartito all’interno di una famiglia. Questo punto è stato perduto, dimenticato, o mistificato. Una “svirilizzazione”.
La perdita di valore dell’Arte Marziale ai giorni contemporanei può essere individuata in questo punto. È uno “stato di fatto” che sottolineava, in Italia, per fare un esempio, il maestro Cesare Barioli, fautore e propagatore del “Jūdō Educazione”, solo in parte sportivo (e comunque non con le regole d’oggi). “…io ti insegno ad uccidere e ti do contemporaneamente la struttura per evitare di farlo…”. Della perdita ne parla anche lo stesso Draeger nelle sue opere più famose, marcando la distinzione tra Bujutsu, Budō classico e Budō moderno.
Nessuno, neanche la quasi totalità di maestri del passato che agivano per addestrare guerrieri in tempi di guerra endemica, per sopravvivere e vincere, voleva produrre efferati assassini. E se il Giappone è sopravvissuto al periodo degli “Stati in Guerra” [5], vuol dire che l’insegnamento marziale conteneva i principi educativi che poi Kanō sensei e gli altri maestri usciti dal periodo Meiji portavano avanti. Però il modo in cui si è realizzata questo cambiamento ha alterato degli equilibri che non si sono più oggettivamente rimessi a posto.
Mi spiego, cerco di farlo.
Nell’Arte Marziale destinata all’uso, la tecnica doveva essere efficace. La vita era affidata alla tecnica e alle istruzioni per usarla. Non solo la vita, ma l’incolumità della propria gente e della propria famiglia. La scuola di Arti Marziali non cercava un allievo “fenomeno”, anche se poteva apprezzarlo e lo faceva, piuttosto intendeva dare un’istruzione generale più che sufficiente a tutti gli allievi, in modo da evitare che ci fossero combattenti impreparati, il proverbiale anello debole.
Una volta messo in moto, il guerriero diplomato dalla scuola doveva essere efficiente in modo assoluto. Doveva saper essere consapevole “prima” del fatto d’armi, possedere la capacità strategica di evitare il conflitto avanti della sua manifestazione, e anche “dopo” lo scontro sapersi temperare e non indulgere in eccessi di violenza sullo sconfitto. Il guerriero previdente e temperato era sempre preferito dal comandante al sanguinario impulsivo.
L’intensità dell’esercizio di apprendimento e allenamento era altissima, un filo sotto la realtà. E questo non vuol dire frenesia o impiego d’eccedenza di forza o velocità, brutalità o violenza, bensì la ricerca del vero tempismo e di attacchi decisi ed efficaci. Chi attaccava, al suo turno, usava la stessa intensità del campo di battaglia, stava a chi si difendeva neutralizzarlo e controllare (oppure no, se la sequenza continuava, se non si interrompeva lì).

Questo modo di ragionare viene interrotta dall’azione di Jigorō Kanō sensei e degli altri innovatori moderni? In realtà no, e gli scritti che ci hanno lasciato lo testimoniano. Il costante richiamo alla “sincerità” degli attacchi fa proprio riferimento alla netta e nuda implacabilità del Jutsu originario. La massa, però, non poteva allenarsi con l’idea di veramente impegnarsi per un conflitto. È un problema, uno stato psicologico riferito ai grandi numeri. I guerrieri sono sempre una percentuale piccola della popolazione e la differenza tra “guerriero” e “soldato” è sostanziale.
Se si prende esempio dal Gekiken o dallo Shinai Geiko pre-Kendō [6], pur essendo ancora nel tempo dello shōgunato, la frequenza ai corsi e ai tornei dei figli di contadini e mercanti, o altri popolani, era alta perché potevano “giocare” ai Samurai senza farsi troppo male.
Si, appunto, è come dice quella vecchia canzone: “…la guerra è bella anche se fa male…” [7], ma è ancora più bella se la si può giocare senza rischi, tuttalpiù qualche livido da sfoggiare al bar con amici e ragazze.
Come controprova, possiamo portare gli scontri di “selezione” per assunzioni nella Polizia e nell’esercito, con regole minime, questi infatti vedevano accadere fior di infortuni e anche decessi. D’altra parte, all’ente di stato interessava una disciplina efficace, e questo doveva essere dimostrato.
La gara di Jūdō, e anche quella di Kendō, e poi il Karate, invece, ebbero – e hanno – una lenta evoluzione verso l’eliminazione progressiva di ogni cosa che potesse recare infortuni, anche molto eventuali. E, in seguito, si aggiunse la ricerca della spettacolarità, del “visuale”.
Per cui lo scopo dell’allenamento ricerca diventa quella della tecnica-punto, non di quella spietatamente efficace, “reale”, e anche l’allenamento prevede un limite a molte cose, non più studiate e allenate perché “non utili per la gara”. Il paradosso è che questa mutilazione viene mantenuta anche nei corsi di non-agonisti o nelle discipline senza gare, probabilmente perché scarica molte responsabilità e tensioni all’insegnante e gli consente di proporre un insegnamento standardizzato e meno impegnativo come didattica.
Così, alla fine, manca sia la tecnica eseguita in modo “tagliente”, sia l’intensità psicofisica corretta nell’esecuzione. Si ottiene una mezza tecnica, incompleta, probabilmente scarsamente efficace al momento di un confronto reale. Confronto verso il quale non si ha neppure la corretta mentalità [8].
Torniamo al Pencak Silat e alle scuole di Koryū Jū Jutsu. In ambedue i sistemi c’è una precisa progressione nella quale si inserisce la leva o la proiezione. L’azione-Kiai [9] deve avere un effetto invalidante sull’avversario, che va dall’impatto-Atemi ad un profondo squilibrio in cui l’avversario Uke ha perso asse, centro ed iniziativa. La pressione continua costante e, senza più resistenza, entra la tecnica. Quest’ultima secondo le caratteristiche della disciplina, sarà Aiki/Jū o Kiai/Gō.
Così, le tecniche di leva e proiezione hanno quasi sempre luogo in questo preciso contesto, in cui si neutralizza l’attacco (secondo i tre tempi). Si colpisce l’attaccante, si effettua la tecnica con danni (controllati nell’esecuzione di allenamento, ma facilmente ottenibili nel caso) che sono contemporanei nell’azione nelle leve e immediatamente succedanei nell’azione nelle proiezioni. E colpire l’avversario a terra. È proprio un set comportamentale assolutamente diverso, rispetto a una tecnica moderna di Jūdō, Karate, Aikidō. Ci sono angoli e azioni che sono assolutamente dimenticati, opportunità che “non si vedono”, con la formazione moderna.
Non è violenza, o almeno violenza senza ragione, è l’espressione dell’arte. La sua realizzazione. La realizzazione dell’adepto sta nel “controllarla” nell’allenamento, modularla nell’ipotetico scenario reale, secondo le possibilità.
La “momentanea” conclusione è che le discipline che si indirizzano verso l’esercizio sportivo come fine o se ne fanno condizionare, o che si circoscrivono in una dimensione eubiotica e ricreativa, in definitiva riducono l’originale disciplina a una ginnastica poco equilibrata. È come un travestirsi e fingere di essere un uccello, un pesce o altro, senza averne le reali e intrinseche possibilità.
Una sterile “finzione”, non formativa, né educativa.
La ricerca si muove così per ritrovare il fuoco originario. A questo fine è utile lo studio di discipline che non sono state “maneggiate” nella loro meccanica per “ammorbidire”, “eticizzare”, “pacificare”. Si tratta, queste, di scelte di istruttori posteriori ai Padri Fondatori” che, nell’ansia di evangelizzare la massa, deformarono le discipline stesse. Ritrovare, al contrario, chi non ha mai perduto il tema originario, esserne consci, dà alla pratica il suo vero fine, a cui poi tutto si armonizza. Il vero Aiki o il vero Jū, il vero Kiai o il vero Gō.
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Note
[1] Donn F. Draeger – The Weapons and Fighting Arts of Indonesia – Tuttle ed. – 1972
[2] Pentjak Silat nel libro di Draeger
[3] Trovo che il Pencak Silat abbia elementi di grande interesse per l’Aikidō, il Jū Jutsu e il Jūdō, e anche per Karate.
[4] Viene spontaneo un forte senso d’ammirazione per lo scrittore Emilio Salgari, uno dei pilastri della mia gioventù, e la sua “magia” nel descrivere ambienti e popoli di cui poteva sapere solo attraverso i pochi libri delle biblioteche.
[5] Occorre sfatare dei miti: il periodo degli “Stati in Guerra” (quasi due secoli) non era una guerra continua, senza quartiere, del tutto contro tutti. Commerci, arte, cultura, costumi continuarono ad andare avanti, la gente circolava e si scambiava idee e tecnologie. Le campagne militari avvenivano per lo più nel breve tempo stagionale favorevole, come nell’Europa medioevale, e spesso i contendenti – tra un anno e un altro – e i fronti si alternavano, come la rotazione delle culture tra grano e sovescio.
[6] Forme di allenamento di scherma con la spada o altre armi fatte con protezioni e armi di legno e bambù. Venivano disputati tornei con premi aperti ad ogni classe sociale.
[7] F. De Gregori – Generale – 1978
[8] Non si tratta di incoraggiare la violenza, ma di comprendere il giusto atteggiamento mentale. Consapevolezza del funzionamento ed effetti della tecnica; Correttezza nel miglior modo di impiegarla; Volontà di usarla; Temperanza nel mitigarla senza snaturalizzarla.
[9] Vedere l’articolo “Kiai e Aiki” – L’Aikido e l’Indivisibile Diviso