
Esistono degli equivoci a dir poco colossali nelle arti marziali. Cose che si radicano e molti continuano a crederci, a fare errori, nonostante l’informazione disponibile…
di ADRIANO AMARI
Le Arti Marziali giapponesi sono state progressivamente disponibili in Europa da circa un secolo.
L’Oriente misterioso, diverso, era arrivato in carne ed ossa, paesi favolosi come Cina e Giappone che i più confondevano (e confondono ancora oggi) mostravano delle loro singolarità a chi aveva negli occhi le “cineserie”, Turandot e Madama Butterfly, le stampe Ukyo-e, il The. E non è strano che le prime cose che si sono diffuse sono proprio le Arti Marziali.
Una traduzione ambigua, in parte evocativa, ma generatrice di equivoci.
In questo rapporto Oriente-Occidente sin dall’inizio c’è stata la difficoltà di traduzione dei nomi, dei sostantivi, dei verbi sostantivizzati, di accedere ai significati che portavano con se. La lingua originaria con la sua forma ideogrammatica non si rapporta in modo piano e fluente con i sistemi fonetici. Soprattutto in quei primi tempi in cui le comunicazioni, i viaggi erano avventura e tempi lunghissimi, gli stessi maestri giapponesi si accontentavano della traduzione alla meno peggio che i loro allievi occidentali proponevano alle loro parole. Nella loro mente era la pratica severa dell’allievo, nell’esempio dell’istruttore, che importava.
Le parole rappresentano “concetti” nel sistema a ideogrammi, le lingue fonetiche europee cercavano una trasposizione immediata, un’ancora di salvezza. Questo ha generato questi molti equivoci che, comprensibili allora, perdurano ottusamente a distanza di decenni dall’errore originario con tutte le nuove informazioni, le fonti adesso accessibili, gli studi disponibili.
Le neo-traduzioni sono state adoperate come etichette catalogatrici, senza investigarne i vari strati di significati e le conseguenze che questi apporterebbero, generando una pratica più profonda e qualitativa, completa. Spesso queste traduzioni sono veramente rozze, spesso con un significato frainteso e che genera altre immagini sbagliate.
Da qualche tempo faccio degli articoli in cui cerco di informare e indirizzare su una corretta interpretazione e di come questa condizioni la pratica, più formativa, realizzativa, efficace.
Oggi parliamo di due basilari: Jūtsu e Dō. La loro scorretta interpretazione è la causa del fallimento di maestri (veri e presunti), di corsi sia condotti in maniera corretta, sia sventati ed approssimativi, sia di allievi, ancora agli inizi o dopo una lunga, apparentemente buona, ma fondamentalmente scorretta, pratica.
Sono tarli che si muovono all’interno delle azioni, creando insoddisfazioni e senso di incompletezza.
Quello che dico non è completamente una novità per gli addetti ai lavori, ma a molti di loro fa comodo così, perché è meno impegnativo.
Jūtsu [術] viene tradotto generalmente come “arte”. Per cui abbiamo “Jū Jutsu o “Arte della Flessibilità”, Kenjutsu o “Arte della Spada”, Bujutsu o “Arte della Guerra”. La traduzione da sostantivo-concetto giapponese a sostantivo-comunicazione europeo in sé non è sbagliata.
Ecco, questo è spesso uno dei problemi: la traduzione può sembrare esatta, ma invece è approssimativa, confonde e spreca energie.
Il Jutsu ideogramma giapponese indica l’abilità-padronanza tecnica (corpo più principi) di una disciplina, padronanza che deve tendere ad essere completa, realizzando una fusione alchemica tra l’essenza di questa disciplina e quella dell’uomo che la pratica.
NON indica la “ricerca del bello” o della sensibilità emotiva dell’individuo e l’espressione di emozioni condivise.
Se un’azione di “Arti Marziali” ha una sua bellezza, questa è dovuta al fatto che l’efficacia, il gesto essenziale, che sembra esistere in un tempo e in uno spazio diverso, è comunque estetico, ma questo non è necessariamente voluto né ricercato. Si attua dall’efficienza.
Il ghepardo non “esprime una forma artistica” quando scatta, né l’aquila pescatrice cerca una giuria che valuti i suoi tuffi. Fa, semplicemente il gesto perfetto. E, in quanto tale, accidentalmente è anche bello.
Il leone sventra una preda. Fa impressione, allontana l’empatia, ma è perfetto. La tecnica è applicata in modo esemplare. Forse non è bello vedere sangue e intestini, ma non ci sono differenze con gli esempi precedenti.
Di conseguenza la definizione conseguente all’interpretazione di “Arte Marziale” come “ricerca del bello”, vale a dire “artista marziale”, è un’impostura o un decadimento ulteriore dell’errata interpretazione del principio originario, una ricerca che devia dal motivo originario per dedicarsi solo ad una espressione egotica, che si allontana dalla essenza e finalità del Bu [武] che invece esprime il sacrificio nel mantenimento dell’Equilibrio.
Comprendere il Jutsu di una scuola vuol dire comprenderne i principi e arrivare alla comprensione della loro universalità. Le tecniche visive sono solo l’apparenza e, di principio, mostrano e nascondono allo stesso tempo.
Il dovere del maestro è impartire la completezza del Jutsu nel suo insegnamento mentre lui stesso cerca di approfondire e perfezionarsi. Dovere del praticante è impegnarsi in questo modo di praticare. La spada tagli e trafigga, il pugno colpisca, il lancio sbatta a terra, la leva porti l’articolazione al limite e tutto il resto.
Arrivati a questa presa di coscienza, affrontiamo il Dō [道 – in cinese Tao]. L’ideogramma viene correntemente tradotto come “Cammino” o “Via” intendendo un percorso ideale di azioni ed esperienze che conduce, come meta, al miglioramento dell’individuo. In linea di massima come traduzione va un po’ meglio.
Però…
(C’è sempre un però!)
Il “corpo” del cammino come esperienza e modalità d’azione, al di là della immagine, non è chiaro, perché c’è un salto di ambiente culturale.
È corretta l’idea di considerare l’Arte Marziale come un viaggio nel cui interno maturo esperienze e miglioro-modifico la mia conoscenza, acquisendo più “potere” e capacità di interrelazione empatica.
Ma il “Dō” è un concetto che soprattutto appartiene al Taoismo, che va oltre l’idea che noi occidentali attribuiamo esprimendolo come “Via”, un concetto culturalmente legato all’idea del pellegrinaggio, del “Ver Sacrum” e del “Grand Tour”.
Chiariamo, non è necessario essere taoisti. Però occorre sapere cos’è il Taoismo e capirne i punti principali. D’altra parte, tutte le Arti Marziali orientali ruotano sul taoismo e per la cultura sino-giapponese è importante anche l’interpretazione che ne fa il confucianesimo.
Questo studio è assolutamente basilare per gli istruttori, specie quelli che hanno responsabilità di formarne altri. Poi devono riuscire a far passare le idee e come vivere e attuare la disciplina all’allievo secondo questi principi, generando, possibilmente, in lui l’interesse ad approfondire.
La dottrina taoista è semplice, logica, e inquadra le cose con una serie di concetti progressivi che sono percepibili in quanto ci circonda. E’ necessario comprendere da parte dell’istruttore come esistono e si attuano questi principi, altrimenti si perde molto del complesso meccanismo delle discipline, i veri significati e i più ampi benefici.
Il “Dō/Tao” è ineffabile, non può essere capito in modo intellettuale o attraverso istruzioni orali. Occorre FARE!
Per questo l’Arte Marziale giapponese agisce attraverso l’azione (e la “non-azione”, c’è sempre un opposto complementare, pena l’incompletezza), azione che impegna i tre-stati-in-uno” dell’essere: corpo, mente e spirito. L’Arte Marziale, incarnando il concetto di combattere per conservare ed equilibrare, agisce, se ben fatta, su tutto. Per cui attraverso il Jutsu della sua Arte Marziale l’individuo percepisce gradualmente il Tao nella sua essenza non spiegabile e da questa esperienza migliora. Per cui è necessario coltivare e raffinare il Jutsu, arrivare alla sua completezza. Ma nel tempo che opera, riceverà comunque dei benefici e miglioramenti.
Oggi spesso il Dō viene interpretato secondo una scadente visione New Age, una specie di pacifismo idealista contrapposto al Jutsu-violenza. Si straparla di “Dō” come una morale, un senso pacifista, un buonismo con le alucce, e così si inganna se stessi e gli altri, si uccide la propria pratica e ci si allontana dal Tao e dagli effetti di progresso in esso contenuti. Così si crea solo squilibrio mentre il taoismo ne è una ricerca. Altri credono che il Dō sia la pratica sportiva, creando una alterazione di senso opposto e altrettanto grave.
La mancanza di attenzione al Jutsu provoca una grave mutilazione della disciplina, che diventa una specie di mera espressione estetica o atletica. È un grave errore credere che il Jutsu sia un concetto arretrato e violento mentre il Dō sia il progresso. Insisto, è una complementarità.
Lo stesso errore fanno quelli che credono che il Jūdō sia solo “Jū” o cedevolezza: c’è anche, ed è parimenti importante, il “Gō”, la Forza. Così come l’Aikidō non è solo “Aiki”, ma deve comprendere “Kiai”.
Lo stato di violenza o Guerra e lo stato di armonia o Pace (la vera pace è un armonizzarsi paritario degli opposti) vivono nella stessa sfera e non possono esistere in mancanza l’uno dell’altro.
Non contrapposizione, ma complementarità.
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Ellis Amdur: A Duello con O-sensei
Alle Prese con il Mito del Guerriero Saggio
Aikido Italia Network Publishing – I Classici del Budo #1
Se esistesse un “libro di arti marziali normale”, questo ne sarebbe il gemello malvagio. Spietatamente onesto, e scritto dalla prospettiva unica di insider trasformato in outsider, in questo libro Ellis esplora gli aspetti del budō, le sue filosofie e i suoi dilemmi attraverso la lente dell’aikidō , un’arte marziale moderna il cui fondatore è discusso con toni reverenziali e avvolto in una mistica quasi religiosa. Guardando all’idea del budō come modo di vivere e come percorso verso la perfezione personale, Ellis affronta le complessità e le contraddizioni del mondo reale dietro questi stereotipi semplificati, rivelando intuizioni che hanno valore per qualsiasi artista marziale o anche per un non artista marziale con un interesse per gli aspetti più oscuri della natura umana.
— Dave Lowry, autore di Persimmon Wind
Se sei un artista marziale di vecchia data, probabilmente sei stato il destinatario, la vittima – o entrambi – del fenomeno del “Vecchio Maestro Saggio”, fenomeno per cui i praticanti di budō circondano i loro insegnanti con una reverenza che li trasforma in colossi marziali, morali e mistici senza pecche. Se questo è il caso, questo libro ti farà digrignare i denti e ridere a squarciagola.
Iconoclasta, ribelle, eppure tenacemente attaccato ad alcuni dei valori più tradizionali della cultura marziale giapponese, Amdur ha portato qualcosa di nuovo alla scrittura di arti marziali: un’onestà sorprendente sui difetti, non solo all’interno della cultura delle arti marziali, ma anche tra i praticanti di budō, spesso usando se stesso come un esempio di quanto sopra.
Pubblicato originariamente nel 2000, e ora completamente rivisto, con otto nuovi capitoli, nuovi artwork e fotografie, A Duello con O-sensei in versione italiana costituirà un’aggiunta inestimabile alla biblioteca degli amanti dell’Aikidō e delle arti marziali.
Ellis Amdur ha vissuto in Giappone per tredici anni e durante quel periodo ha ricevuto licenze di insegnamento in due tradizioni marziali giapponesi classiche. Una volta tornato negli Stati Uniti, ha sviluppato una serie di servizi di formazione e consultazione, nonché un particolare stile di accertamento e psicoterapia, basato su una combinazione di psicologia fenomenologica e sulle premesse filosofiche e tattiche fondamentali delle tradizioni marziali giapponesi classiche.
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[…] [6] Vedere l’articolo su Aikido Italia Network: https://simonechierchini.com/2022/09/22/gli-equivoci-colossali-nelle-arti-marziali/ […]