
La figura del gladiatore, del cavaliere, del soldato, del samurai, dell’uchideshi di ieri non è sovrapponibile a nessuna figura di oggi. Il concetto attuale di efficacia è diventato completamente diverso, forse è diventato più sottile, più stratificato. Credo che nel nostro tempo non ci sia la necessità di un combattimento fisico, o per lo meno non sia la necessità più impellente. Oggi, e questo è nella radice stessa della parola aikido, c’è bisogno di ‘armonia’, di resilienza, di tolleranza, di gentilezza e di comprensione reciproca. Tratto da Il Dōjō, il libro realizzato da Marco Aliprandini con la visione multifocale di 23 colleghi insegnanti, quello di Marco sensei è il testo definitivo sul significato del nostro luogo di pratica
di MARCO ALIPRANDINI
“Detto così sembra una cosa da niente. Ma, lavorando da anni con gli adolescenti, con la loro forza propulsiva, con la loro terra fertile e morbida mi accorgo sempre di più che sono proprio le qualità che ti dicevo ad essere rilevanti, direi molto rilevanti nella loro e nella nostra vita.
“A partire dalle Scholae Gladiatoriae dell’antichità, per passare ai Ryu giapponesi medievali e alle scuole classiche d’armi europee, sin da quando esistono forme socialmente organizzate si trovano gruppi di individui che studiano le arti armate e disarmate sotto la guida di esperti. In che modo il dojo di aikido fa parte di questa lunghissima tradizione e come se ne distacca?” [Simone Chierchini]
“Non so perché, forse per la prima neve rimasta sugli alberi, come vedi, del mio giardino, la tua domanda mi ha spinto a guardare fuori, a guardare il presente, o se vuoi, so che ti farà sorridere, il ‘qui e ora’. Spesso guardo gli alberi che circondano, quasi proteggono la mia casa, pensa che li ha piantati il padre di Barbara quando ha comprato questo appezzamento di terra per costruire la sua casa di famiglia. Questi tre alberi sulla tua sinistra hanno quindi quasi 70 anni.
“Il nonno, l’Opa (nonno in tedesco) come lo chiamavamo tutti noi, subito dopo la nascita di Zeno, mio figlio minore, è recentemente scomparso all’età di 100 anni, in febbraio ne avrebbe compiuti 101. Guardando questi cedri, alle volte mi è venuto da pensare che generalmente si guardano gli alberi nella loro altezza. Li si guarda in una prospettiva che va dal basso verso l’alto ma che loro sono anche ciò che non si vede, sono anche le loro radici. Immagina che reticolo di radici hanno questi enormi cedri. Chissà fino a dove si spingono le loro diramazioni. Forse si sono intrecciate alla rete di tubi che sotterraneamente danno luce, calore, acqua a questa casa. Forse sono arrivate, queste radici, laggiù fino alla strada.
“Nello stesso modo in questo anno in cui abbiamo raccolto i vari contributi sul dojo, ho avvertito la profondità delle radici presenti in questa parola. Profondità che tu stesso indichi nella tua domanda. Che rapporto ci sia tra l’albero di adesso e le sue radici più antiche, quelle che gli hanno permesso di germogliare e di crescere è difficile da visualizzare. Dovremmo estirpare l’albero e scavare molto, forse demolire anche la casa. Il legame però c’è ed è indissolubile. I dojo, le foglie o gli aghi di oggi, sono ‘il qui e ora’ (sorridi di nuovo), sono la vita possibile, forse necessaria di ‘adesso’. Per spiegarmi meglio, sempre concedimi riferimenti scolastici (è il mio lavoro). Giotto di Bondone oggi probabilmente non sarebbe andato nella bottega del Cimabue, ma avrebbe frequentato, forse, un liceo artistico. Andrea Palladio probabilmente non avrebbe incontrato Giangiorgio Trissino, ma sarebbe andato (forse) a studiare architettura alla ‘Ca Foscari di Venezia. Probabilmente oggi avrebbe poco senso un’Accademia dei Pugni e Cesare Beccaria avrebbe cercato nell’ambito universitario milanese le discussioni animate, i confronti accesi poi confluiti nel suo “Dei delitti e delle pene”. Potrei continuare ma mi fermo, dai tuoi occhi capisco che sto diventando didascalico.
“Le differenze a cui ti accennavo si possono trasferire, secondo me, anche nell’ambito delle arti marziali. La figura del gladiatore, del cavaliere, del soldato, del samurai, dell’uchideshi di ieri non è sovrapponibile a nessuna figura di oggi. Il concetto attuale di efficacia è diventato completamente diverso, forse è diventato più sottile, più stratificato. Credo che nel nostro tempo non ci sia la necessità di un combattimento fisico, o per lo meno non sia la necessità più impellente. Oggi, e questo è nella radice stessa della parola aikido, c’è bisogno di ‘armonia’, di resilienza, di tolleranza, di gentilezza e di comprensione reciproca.
“Detto così sembra una cosa da niente. Ma, lavorando da anni con gli adolescenti, con la loro forza propulsiva, con la loro terra fertile e morbida mi accorgo sempre di più che sono proprio le qualità che ti dicevo ad essere rilevanti, direi molto rilevanti nella loro e nella nostra vita. Entrare in un dojo di oggi le presuppone e le insegna. Prima di tutti gli atletismi, un po’ sbandierati di qua e di là, prima di tutte le più acrobatiche e mirabolanti tecniche, anzi proprio alla base di tutto ciò, si entra in contatto con la capacità di ascolto, con il rispetto dei propri limiti, del proprio corpo. Il rispetto nei confronti del compagno di allenamento. Questa capacità di assottigliare i conflitti, non entrare in competizione, dare spazio all’altro, di essere corretto, centrato, affidabile è la vera sfida, la vera difficoltà della pratica di un’arte marziale. Di certo, come accennavi tu, le radici iniziali affondavano in un altro terreno ma proprio perché le arti marziali tradizionali tra cui l’aikido, sono un albero vivo, trova strade nuove dove estendere la sua chioma, dove dare luce alle sue foglie.

“Torno a pensare all’Opa, il suo nome era Hugo, negli ultimi anni della sua vita veniva sempre alle 16 a bere un caffè al piano di sotto, casa nostra. La sua mente di centenario vedeva altre cose, aveva altri percorsi ma la cosa che mi stupiva era il suo grande senso della bellezza. L’Opa entrava in casa e subito, quasi giornalmente, diceva ‘che bella questa libreria’ (era sempre la stessa), andava verso la porta della terrazza e diceva ‘che bel sole c’è oggi’. Avrei molti altri esempi ma quello che mi toccava e ancora mi tocca era questo sguardo meravigliato, sempre pronto a sottolineare la bellezza. Penso che sia questo sguardo che nel dojo, in ogni dojo, vada esercitato ancora e ancora. Non uno sguardo di contrapposizione, di conflitto, di rimpianto o di rumore ma un efficacie silenzio, un ascolto vivo, un senso di fertile meraviglia che spinge alla gratitudine e alla bellezza, con tutto ciò che viene e tutto ciò che va.”
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Marco Aliprandini: Il Dojo
The Ran Network – I Dialoghi Aiki #15
Il dōjō, il luogo dove si pratica la via, assume in questo volume appena pubblicato da The Ran Network un’intima centralità. Diventa maestro sopra ogni personalismo, contenitore significativo della ricerca profonda di ogni praticante di arti marziali.
Il curatore, Marco Aliprandini, coadiuvato dall’editore, Simone Chierchini, accompagnano il lettore in un viaggio attraverso alcuni significativi dōjō di aikido italiani ed esteri. Un viaggio che parte da Merano e prosegue verso Bolzano, Verona, Peschiera del Garda, Padova, Venezia, Milano, per poi toccare varie realtà significative come quelle di Bologna, Roma, Latina, Pesaro, La Spezia, Bari, e arrivare fino ai dojo di Lauria e di Cagliari. I vari testi e le numerose fotografie raccolte, anche da realtà francesi, svizzere, germaniche, americane e giapponesi danno un’idea, certamente non esaustiva – come specifica il Presidente dell’Aikikai d’Italia nella sua introduzione – ma rivelatrice di cosa significa questa parola-casa che accomuna e sostiene la via di ogni artista marziale.
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