Le Soggettività nell’Aikido


Molti “Maestri” occidentali nutrono l’errata convinzione che i principi etici e filosofici del Budo, fra cui è insito l’Aikido, possano mutarsi, così come le tecniche, in base alla propria soggettività. Il problema della soggettivizzazione, è strettamente legato al carattere “individualista” della società occidentale, oggi sempre più marcatamente, ma la visione cosmologica e Shinto-buddhista del popolo nipponico è invece attualmente palese nelle sue implicazioni antropo-socio-culturali. Non è una questione di “interpretazione” ma la preponderante esigenza di non confondere l’apparenza con l’essenza

di GIANCLAUDIO MARIA VIANZONE

Come spiegava Renè Guenon, grande studioso ed orientalista circa un secolo addietro, occorre essere pienamente assorbiti in una cultura orientale anche come visione e sensibilità, per poter fare valutazioni qualificate oggettivamente su argomenti propri di tale cultura. 

Premesso  che il Budo è indiscutibilmente un percorso di pratica che ha un’etica e una propria filosofia e che sono innegabili le proprie radici genetiche nel Bushido, altrettanto indubbia è la sua identità nipponica. Il riferimento non è solo alla collocazione geografica, ma alla peculiare caratteristica socio-culturale di quel popolo. 

Ciò che appare mutare la consistenza di tale essenza, è il condizionamento determinato dalla inconsapevole inosservanza di noi occidentali, fra cui molti “Maestri” – più o meno giovani quanto più o meno blasonati – dell’assenza di tale consapevolezza, e ancor più, l’errata convinzione che i principi etici e filosofici del Budo, fra cui è insito l’Aikido, possano mutarsi, così come le tecniche, in base alla propria soggettività.

Dalle parole, sempre più veicolate anche attraverso i social, spesso emerge una visione che dimostra come alcuni solo in parte hanno colto ciò che c’è nella loro pratica di tali principi; quella loro più congeniale e spesso quella più conforme ad una visione occidentale.

Ciò causa le mie perplessità quando leggo certi “Maestri” che paiono voler mettere in luce la propria visione più che non quella di Ō Sensei Ueshiba.

Il Kanji Do è eloquente quanto i principi Kaizen. Ma quanti insegnanti di Aikido conoscono tali termini e quanti ne fanno una consapevole disamina e la tramutano in ciò che veramente è il senso datogli dai giapponesi? Quanti hanno interiorizzato i principi di alternanza e circolarità che riflettono i ritmi e gli equilibri della natura come spontanea sintesi nel vivere quotidiano?

Il rischio poi, nella razional-intellettualistica valutazione che può essere fatta con i parametri occidentali, è che anche coloro che vogliono fare chiarezza causino ancora più confusione e facciano poi il gioco di quella onda neo-liberista globalizzata che accompagna la società “fluida”, sminuendo i valori etici. Così come su alcune questioni più concrete come l’uso del Ki, alcuni affermano che non esiste perché non lo hanno colto nella reale sfumatura nipponica e non risultano meno miopi di coloro che lo mitizzano.

Emblematico dello stacco che c’è fra l’origine  e alcuni “Maestri” di Aikido occidentali che insegnano, è il fatto che parlino di Kokyu ma non spieghino il coordinamento respiro-azione nelle waza; così come l’aiki Taiso e le sue strette correlazioni con i riti esoterico-spirituali legati alle influenze culturali e spirituali permeate in Giappone dall’India, attraverso Cina e Korea, che non sono mere “pratiche” ma richiedono una sintesi di respiro, corpo ed espressione neuro-culturale. 

Lo stesso principio di Fudoshin, mente imperturbabile, che permea il Budo quanto il Bushido, diventa un principio astratto, quando viene ritenuta ininfluente la pratica del Mokuso e così rimossa o relegata ad un attimo di “adempimento” di un rito che si svuota dei suoi contenuti psico-fisiologici e nel loro nesso con differenti stati di consapevolezza.

Il problema della soggettivizzazione, è strettamente legato al carattere “individualista” della società occidentale, oggi sempre più marcatamente, ma la visione cosmologica e Shinto-buddhista del popolo nipponico è invece attualmente palese nelle sue implicazioni antropo-socio-culturali.

Non è una questione di “interpretazione” ma la preponderante esigenza di non confondere l’apparenza con l’essenza.

Altro esempio significativo riferibile a  quanto accennato in ordine al Kanji Do. 

Ove 1 è il  percorso di pratica, 2 il praticante (su cui spicca la testa, significando che deve essere consapevole) e 3 che indica il Maestro capo-scuola (rappresentato dalla stilizzazione del vecchio copricapo utilizzato dai Maestri). 

E’ indubbio che l’aver evidenziato il termine AI () da parte di Ueshiba, che non ha mai eluso la matrice jutsu dalla propria visione, implica che tale visione del termine “Armonia” non è banalmente attribuibile ad un sentimento che invece si privi della radice marziale, ma che si sviluppi quale consapevolezza nella sua totalità; ciò è quanto la parte del Kanji Do impone a chi segue qualsiasi pratica, nella parte dell’ideogramma che pone in evidenza la figura del Maestro, quale emblema delle sue scelte pratiche ed ideologiche.

Alcuni giustificano il proprio allontanarsi dall’origine, richiamando il termine Shuhari () per la propria parte “evoluzionistica”.

Ma tale termine è composto da n°3 Kanji che rappresentano tre fasi distinte nel percorso maturativo che si compie nella pratica. Considerare prevalentemente il Kanji RI e quanto rappresenta, senza considerare analogamente importanti né SHU né HA, è come coloro che nel Jazz pensano di improvvisare senza avere cognizione di quali sono le strutture armoniche del brano che eseguono. Così la loro giustificazione trasforma tale termine in una banale speculazione egoica.

 La consapevolezza che:

  • La rotazione dei ruoli Sensei, Senpai e Kohai è parte di quella visione del ciclo naturale (quello che sei io ero, quello che sono tu sarai) 
  • Le forme, Kata, per i giapponesi sono un criterio di trasmissione di sapere;
  • Quel sapere richiede pratica, ma altresì conoscenza globale di ciò che si fa;
  • La conoscenza arriva da chi è più avanti nel percorso di pratica (Sensei/Senpai) ed in tal senso che abbia acquisito la giusta capacità e non si basi solo sul gesto tecnico. In merito è emblematica l’affermazione di Itsua Tsuda Sensei “Ci sono persone che sono dei veri e propri repertori viventi di tecnica. Eseguono gesti come se fossero programmati da un computer. Ma si sente, guardandole, che manca qualcosa. Non c’è calore umano. Sono bambole meccaniche.” [1];
  • La conoscenza si trasforma nel tempo in consapevolezza, solo se guidata sul piano totale di essa stessa, nel trasformarla in esperienza oltre la sua esteriorità;
  • Solo il piegare il proprio Ego alla totalità di quanto indicato del Maestro (che campeggia nel Kanji Do) porta a comprenderne il significato;
  • Più si progredisce sulla Via, più si comprende che non si è mai “giunti”, è un percorso che dura tutta la vita (come per i Samurai indicato nell’Hagakure);
  • Non si è mai Maestri per titolo, ma lo si è quando si realizza lo stato di coscienza in armonia con “il Maestro”, cioè il fondatore del percorso intrapreso;
  • Più si pratica e più è la Via (il Do) che si segue che ti trasforma; ma ti trasforma se sacrifichi il tuo ego sulla dedizione alla pratica come originariamente intesa, cioè pregna di una dimensione percettiva e intersoggettiva che avvicina a quella nipponica;

dovrebbe essere propria almeno di chi insegna.

Ma gli stessi principi di MAAI o di KUZUSHI vengono interpretati comunemente quali “distanza” e “squilibrio”. Senza la dovuta consapevolezza, è facile che non si colga come tali termini contengono invece un Universo di principi. La connessione di MA e di KUZUSHI con MU, così come l’OMOTE e l’URA possono essere colti nella loro più piena essenza solo ove si superi la concezione razionale fisica e si entri in quella metafisica ove il “vuoto” dà il senso di un differente “pieno” e ciò non è proprio della nostra cultura. Tanto quanto il REISHIKI, molto nominato ma spesso altrettanto rimosso. Difficile per noi occidentali comprendere che è più di un’etichetta formale, che nei suoi stessi Kanji anche tale termine indica una dimensione spirituale pragmaticamente sintetica. Anche la forma è sostanza, se si coglie la sua dimensione meno evidente, ma più rilevante. E’ significativo che un Maestro giapponese abbia spiegato come anche solo il corretto coordinamento respiratorio nel gesto dell’inchino durante il REI, muti l’efficacia delle tecniche eseguite successivamente per una diversa canalizzazione del KI. 

Per i giapponesi, nati e cresciuti in una realtà permeata di tali concetti etici già dalla prima Costituzione di Shotoku (604 d.c.) che all’art. 1 cita WA – armonia – e che nella sintesi Shinto-buddhista hanno colto la dimensione cosmogonica del vivere, la prospettiva alla luce di quei principi è spontanea.       

Come dico ai miei allievi dell’Università popolare di Torino, ove tengo le lezioni di cultura nippo-samuraica (Yamato damashii), così come a quelli che seguono le mie lezioni di Iaido e Aikido, spesso noi occidentali vogliamo interpretare con la nostra visione soggettiva eurocentrica e ultimamente ancora più euro-atlantica, le cose giapponesi. 

In tale contesto si evidenzia quindi come anche ciò che viene considerato confronto dialettico, di fatto si porti su piani competitivi (più affini all’ego) e si scordi pure  che tale principio viene equivocato anche nel mondo marziale.

Senza entrare nella disamina fra Gendai Budo e Shin Budo (non come moderno, ma come spirituale), in ordine alla quale significative sono state le parole di Taisen Deshimaru nel libro “Zen e arti marziali”.

L’equivoco perviene dalla categorizzazione che è propria della nostra cultura e che ci porta, ad esempio, a non comprendere quando un Sensei ci dice “tenere delicatamente con forza”. E non consideriamo neanche quale è per noi la differenza tra forza ed energia e quanto ciò sia altresì condizionato dalla traslitterazione linguistica. Ma tale limite di comprensione porta quindi a confondere anche quale è la differenza fra lo spirito competitivo mosso dal nostro ego e quanto invece sia la sintesi dei valori etici come l’onore e la dignità che anche nel Budo portano a voler “vincere”, ma con orgogliosa umiltà.

Un problema che sussiste anche nell’Aikido, pur non contemplando la dimensione “agonistica”. Ma l’agonismo dell’ego è sempre presente ed è l’Uke più temibile.

Ecco allora che il cedere ulteriormente terreno di una correzione del percorso di pratica ad una più contemporanea opportunità commerciale, anche attraverso le vetrine virtuali ed i social, rischia solo di allontanare chi lo fa dal sentiero tracciato e che nel Kanji Do è ben indicato.   Il voler evidenziare da parte di alcuni una revisione delle parole di Ō Sensei Ueshiba, o l’esclusione di pratiche da lui indicate o ancora esaltare la parte “jutsu” dell’Aiki o cercare di imbrigliare il Budo nelle egoiche speculazioni intellettuali, danneggia solo il grande patrimonio umano che il Budo rappresenta. 

Tornare all’origine, recuperando quanto più è vicino all’incipit segnato da Ō Sensei, anche con la consapevolezza che Guenon indicava,   è a mio parere il miglior modo per dare una visione più oggettiva del valore che riveste l’Aikido almeno da parte di chi insegna o si fregia del titolo di Maestro.

[1]  I. Tsuda “la Via della Spoliazione” Trad, It. 2016 Yume Editions

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 André Cognard: Vivere Senza Nemico
The Ran Network – I Classici del Budo #3

In questo saggio filosofico incentrato sulla pratica corporea, il maestro di Aikido André Cognard discute delle arti marziali tradizionali orientali esplorando la propria storia, le proprie percezioni ed emozioni. Cognard si sofferma in particolare sulle aree che riguardano il rapporto con gli altri e sui conflitti che inevitabilmente sorgono con essi. In modo diretto ed efficace, l’autore non ci presenta “l’oggetto di una rivelazione improvvisa, ma piuttosto il frutto di un lento processo evolutivo dovuto a una pratica laboriosa, umile, costellata di tentativi falliti e ripetuti con un accanimento che a volte sfida la ragione”.

André Cognard ci dice che “Vivere senza nemico” è possibile e che il modo per raggiungere questo stato attraverso le arti marziali è la consapevolezza che esse si sono evolute e continuano a farlo.

André Cognard analizza il conflitto, la violenza presente e passata, il nemico interiore, l’identità corporea, gli amici, i nemici e l’odio. Descrivendo le parole chiave delle arti marziali, ci offre un decalogo per imparare a servire ed essere liberi, a rispettare, riconoscere, accettare, ringraziare e amare.

L’autore spiega quanto sia essenziale il concetto di trasformazione delle energie dentro di sé: rabbia, ansia, paura possono infatti essere pienamente padroneggiate e portare a situazioni nuove e potenzialmente arricchenti. È quindi necessario saper lavorare su se stessi: questo libro mostra efficacemente come gestire le nostre paure dell’ignoto. Perché il nostro primo nemico è dentro di noi!