
Mi è capitato tra le mani uno stralcio molto interessante di una intervista che Minoru Mochiziki sensei rilasciò a una rivista francese di Arti Marziali tempo fa. Il testo riportato è molto utile per mostrare delle dinamiche dell’Aikidō del dopoguerra e le varie impostazioni che ricevette secondo le varie correnti
di ADRIANO AMARI
Minoru Mochizuki, inviato in Occidente nel 1951 come membro di una missione culturale giapponese, per una serie di fatti fu costretto a fermarsi in Europa, specificatamente in Francia, per quasi tre anni. In questa occasione insegnò agli Occidentali oltre il Jūdō, l’Aikidō (che allora non si chiamava ancora così), e fu il primo a farlo. Inoltre diede lezioni di Kendō e di varie sezioni del programma del Katori Shintō Ryū e dello Shindō Musō Ryū, anche qui assoluto pioniere.
Nel suo soggiorno si confrontò positivamente con diversi esponenti europei di alto livello di Boxe, Boxe e Canna francese, Lotta.
Il Confronto con gli Europei
Nell’insegnare queste Arti Marziali, che per gli europei erano novità, Mochizuki sensei si rese conto della diversità di approccio di questi suoi nuovi allievi rispetto gli orientali, giapponesi o cinesi. Anche i curiosi che si avvicinavano a lui per discutere del suo operato esprimevano un’attenzione diversa. Questo era meno evidente nel caso del Jūdō, già accettato come forma esotica di lotta, già diffuso da prima della guerra, con il suo aspetto competitivo, per cui qui non vi erano troppi problemi. Invece l’Aikidō e la sua forma di tecnica con le leve sembrava creare dei dubbi nei suoi interlocutori, che non pensavano che questo tipo di azione fosse risolutivo. Illustrando questa Arte Marziale, nuova per gli europei, Minoru Mochizuki sensei diede loro una esemplare spiegazione: “Mentre pratichi puoi imparare il modo corretto di muovere il tuo corpo, come usare razionalmente la forza. Attraverso l’Aiki diventi capace di rispondere immediatamente nello stesso momento in cui il tuo nemico si avvicina silenziosamente per attaccare. Pertanto, puoi confrontarti con chiunque”. Lo spirito di adattamento del Maestro, una delle abilità raggiunte con la sua pratica, può essere verificata da uno scambio di battute tra lui e un suo studente di allora in seguito alla precedente affermazione. Lo studente chiese: “Posso portare una pistola allora? Se uso una pistola, Sensei, cosa farai?”. Una classica e ricorrente domanda. Mochizuki sensei rispose: “Porterò un fucile!”
Al di là di quelle che possono sembrare battute scontate, delle domande inutili come quella fatta dallo studente, le risposte come quella del Maestro non sono semplici battute di spirito, occorre esaminarle.
La domanda dello studente è molto pragmatica ed è una reazione inconscia al fatto che lui si sente in svantaggio rispetto al Maestro, per cui trova opportuno risolvere la questione in modo tecnologico, mettendo sul piatto l’arma-simbolo della difesa personale: la pistola. Il Maestro ribatte ponendosi sullo stesso piano, facendo capire che la mentalità del conflitto può essere impugnata anche da lui e, secondo quanto ha già detto, le virtù imparate con la pratica delle sue discipline gli suggeriscono un’arma più efficiente come risposta. E’ un chiaro esempio di come il combattimento non sia un avvenimento sconnesso o ritualizzato, altrimenti sarebbe un duello o un incontro sportivo, ma bensì un fatto in cui occorre vincere considerando quello che può essere il “campo di battaglia” e i contendenti.
L’Arte “Marziale” ragiona sul conflitto e, qualunque siano le modalità scelte per risolverlo, con la realtà del conflitto stesso deve misurarsi, senza astrazioni né parzializzazioni.

Ritorno in Giappone, incontro con Ō Sensei
Tornato in Giappone nel 1953, Minoru Mochizuki andò a far visita a Ueshiba Morihei sensei, in quel di Iwama. Vi era andato prima della partenza, anni prima, e aveva ricevuto l’approvazione e la soddisfazione di Ō Sensei che lui fosse il suo primo ambasciatore in Europa. Lì fece rapporto del suo viaggio.
“Sono andato all’estero per diffondere l’Aikidō e ho avuto incontri con molte persone diverse durante il mio soggiorno. Da questa esperienza ho capito che con le sole tecniche di Aikido era molto difficile vincere.” dice Mochizuki sensei, e continua: “In questi casi, sono passato istintivamente alle tecniche di Jūdō o di Kendō e solo così sono riuscito a cavarmela. Non importa come ci riflettessi sopra, non potevo evitare la conclusione che le tecniche di Daitō Ryū Jūjutsu non erano sufficienti per risolvere lo scontro. I lottatori e altri atleti con quel tipo di esperienza non erano scoraggiati dall’essere abbattuti e rotolare. Si rialzavano e chiudevano la distanza per il grappling. Inoltre la disciplina della Boxe Francese è molto al di sopra delle tecniche di mani e piedi del Karate. Comunque sono sicuro che l’Aikidō diventerà sempre più internazionale e globale in futuro”.
Minoru Mochizuki sensei con queste parole perorava l’idea di un adeguamento dell’Aikidō alla realtà della diversa mentalità tecnica presente nei vari paesi del mondo e il diverso modo di valutarla. Questa riflessione anticipa le difficoltà che oggi le Arti Marziali giapponesi hanno nei confronti delle discipline da combattimento occidentali, dovute in parte dal progressivo e radicale abbassamento del livello tecnico e di capacità prestazione della media degli istruttori – e conseguentemente degli allievi – ma anche dal depauperamento del bagaglio delle discipline per adattarle ai fini sportivi.
L’idea di Mochizuki sensei su come ovviare a questa situazione, allora già presente, era quella di effettuare un potenziamento di idee e tecniche, partendo però dalla disciplina stessa e da ciò in essa contenuto ma dimenticato. Rivitalizzare principi e tecniche non più abbastanza trattate né usate come possibili soluzioni. Di questo suo pensiero sarà possibile rendercene conto più avanti nell’articolo.
Ō Sensei ascoltò tutto il rapporto, alla fine disse: “Tutto ciò di cui parli è vincere e perdere.”
Minoru Mochizuki sensei ribadì il suo punto: “Occorre che chi pratica sia forte e deve essere in grado di vincere. Ora l’Aikidō si sta diffondendo in tutto il mondo, è necessario che sia teoricamente e tecnicamente in grado di superare qualsiasi sfida”.
Ueshiba sensei non era d’accordo e riprese il suo allievo: “Questi tuoi pensieri sono sbagliati. Certo, non va bene essere deboli, ma non è tutto. Non ti rendi conto che questa non è più l’età in cui puoi persino parlare di vincere o perdere? Adesso è l’era dell’amore, non lo vedi?”
Mochizuki sensei ricorda che il Maestro espresse il suo parere con una forte intensità emotiva e ammette che allora gli lasciò dei dubbi. Solo con il tempo riuscì a comprenderne i significati più profondi. Le sue parole che commentano la sua valutazione, riportate nell’intervista, sono chiare: “Dal profondo del mio cuore e sinceramente credo che questo sia il Budō che voglio diffondere nel mondo. Sento in modo molto forte che si devono trovare le parole in grado di trasmettere le idee e i pensieri di Ueshiba sensei ai contemporanei”. E continuò dicendo: “Allo stesso tempo è anche necessario disporre di tecniche che possano insegnare queste cose. È fondamentale poterlo sia esprimere a parole sia realizzarlo con i fatti”. Queste parole confermano l’intuizione e l’esperienza fatta da Minoru Mochizuki sensei in Europa. Per entrare nel mondo occidentale e riuscire a introdurre una disciplina non basta l’aspetto utopico, perché non può essere capito in pieno: o verrà disprezzato come estetica inutile o, al contrario, verrà snaturato in una teoria pseudo-religiosa che non ha nessun contatto con la realtà. Mancando la “realtà” tutto quello che si fa è una menzogna senza alcun costrutto, né fisico, né mentale/spirituale. Concreto ed Astratto, Jutsu e Dō, Fisico e Sensazioni, sono un’unica unità, non scindibile senza danneggiare in modo irrimediabile la complessa costruzione che rappresentano.
Basta guardarsi intorno per vedere la situazione, oggi, e i problemi, le mancanze che guastano la pratica dell’Aikidō e, parallelamente, di molte altre Arti Marziali, incanalate verso un futuro sterile.
Le parole di Ueshiba sensei sono quelle di un uomo che ha subito la guerra e ciò che ne è venuto, che anelano in un futuro di armonia. Ma lui era un uomo che comprendeva il conflitto, altrimenti non avrebbe potuto superarlo. Sapeva che occorreva una certa quantità di “forza” per manifestare la tecnica e, attraverso questa, realizzare le possibilità della risoluzione “non sanguinosa” del conflitto.
Ma occorre fare un’altra riflessione: Ueshiba sensei non conosceva la mentalità degli europei. Quelli che verranno a trovarlo in seguito saranno già “disposti” a ricevere l’insegnamento nelle forme proposte, diversamente abbiamo l’episodio del documentario “Rendez-vous with Adventure” che dimostra cosa potesse succedere in casi non collaborativi.
Mochizuki sensei, invece, grazie anche alla formazione con Kanō sensei e il suo soggiorno in Mongolia, aveva più elementi per prevedere le difficoltà e gli sviluppi, e come contrastarli.
Dobbiamo ora tornare indietro nel tempo, prima del viaggio in Europa.
Prima della sua partenza per la Francia nel 1951, Minoru Mochizuki sensei era andato a trovare Ō Sensei a Iwama, sia per annunciargli il viaggio, sia per rivederlo dopo il suo ritorno dalla sua lunga permanenza in Mongolia da prima della guerra. In questa occasione avvenne un altro episodio, che può chiarire meglio il pensiero di Mochizuki sensei. Si tratta del suo incontro con Tadashi Abe.
Abe, il duro
Tadashi Abe (1926 – 23 novembre 1984) durante la seconda guerra mondiale si era offerto come volontario nel corpo dei kamikaze, doveva pilotare un Kaiten della marina imperiale giapponese (una specie di barchino esplosivo come i nostri della X Mas) contro le navi della flotta americana. Scampò al suo probabile destino per la sopravvenuta fine della guerra. Nel 1942 aveva iniziato la pratica dell’Aikidō a Ōsaka, dove periodicamente teneva corsi Morihei Ueshiba sensei.
A parte la parentesi dell’arruolamento Abe si addestrava a Iwama come uchi deshi presso la fattoria di Ō Sensei, e, finita la guerra, frequentò la prestigiosa università di Waseda laureandosi in Legge nel 1952.
Tornato Mochizuki sensei dalla Francia, Abe fu lì inviato dall’Aikikai con il grado di sesto dan per diffondere l’Aikidō. Nel frattempo prese un’altra laurea alla Sorbona. L’Aikidō di Abe sensei è un Aikidō duro, rissoso, che accetta la sfida. Lo stesso maestro Abe più volte si cimentò in confronti e anche in risse. E’ stato il primo Aikidōka a trasferirsi stabilmente in Europa e fu l’apripista per altri che seguiranno. Rimase in Europa fino al 1959 e insegnò anche in Italia e in Inghilterra.
In tempi più recenti si era diffusa l’erronea idea che l’Aikikai avesse inviato Abe in Europa per tamponare l’opera del Maestro Mochizuki, nel timore che prendesse più piede la forma Yōseikan dell’Aikidō. Questa è un’illazione non basata sui fatti.
Minoru Mochizuki sensei si staccò dall’Aikikai solo dopo la morte del fondatore nel 1969. Fino ad allora era il rappresentante dell’Aikikai per Shizuoka e il suo territorio.
Allo stesso Minoru Mochizuki in quegli anni era stata offerta la direzione dell’Honbu Dōjō Aikikai a Shinjuku. Proposta da lui rifiutata per la consapevolezza che sarebbero poi sorte delle questioni con Dōshu.
L’Aikidō di Abe sensei era più duro di quello di Mochizuki sensei, perché non aveva le possibilità di quest’ultimo di incorporare nell’azione Aiki una tecnica diversa. Tornato in Giappone Abe sensei valutò la nuova pratica portata avanti da Kisshomaru Ueshiba sensei come troppo morbida e “non-marziale”, venendo in contrasto con i nuovi vertici e rifiutando i nuovi gradi a lui offerti. Questo fatto è un parallelo con l’osservazione che Mochizuki sensei fece proprio in quei giorni a Tamura sensei e ad altri graduati all’Honbu Dōjō: “Quello che fate voi, ragazzi, non è Aikidō!”
Il fatto
In quella visita del 1951 a Ō Sensei, Minoru Mochizuki sensei dopo il colloquio si fermò per la notte presso la fattoria del Maestro, non potendo ritornare a Shizuoka nella stessa giornata. A sera Abe venne a trovarlo nella sua stanza. Si presentò e gli fece una domanda diretta, brusca, chiedendogli se lui stesse studiando con vera determinazione l’Aiki Jūjutsu. Occorre aver ben presente che, a quel tempo, non era ancora stato coniato il nome Aikidō e la disciplina veniva chiamata Aikibudō, Aiki Jūjutsu o Daitō Ryū.
Abe sensei continuò dicendo che riteneva Mochizuki sensei un praticante esperto anche di combattimento reale e che gli sembrava strano che si accontentasse di una disciplina debole come l’Aiki Jūjutsu. Infervorandosi nella discussione disse che lui si era sì trasferito a Iwama per fare l’uchi-deshi, ma nel suo soggiorno aveva maturato la convinzione di essere più forte nel combattimento rispetto a Saitō sensei e anche di Ō Sensei. Dichiarò che lo avrebbe battuto in poco tempo, pochissimi minuti, appena avesse piazzato il primo colpo.
Mochizuki sensei non era nuovo a queste forme di intemperanza giovanile. Gli rispose: “Sei abbastanza presuntuoso! Ti senti abbastanza sicuro per sconfiggere Ueshiba Sensei?”
Abe insistette: “Anche se ho osservato Ueshiba Sensei per molto tempo, non ho più voglia di praticare un’arte come l’Aiki Jūjutsu. Sono fiducioso di poterlo battere con un pugno. Ti ho sentito enfatizzare il vero combattimento. È vero?”
Mochizuki sensei ribatté: “Ho partecipato a molti combattimenti di strada, ma non li includo nella categoria dei combattimenti. Ho anche combattuto con la Katana e preso d’assalto l’accampamento nemico”.
Abe pressò e insistette ancora chiedendo se lui ritenesse l’Aiki Jūjutsu utile in combattimento.
Minoru Mochizuki confermò la sua convinzione e la rinforzò affermando che l’arte era utile non solo nel combattimento occasionale, ma anche per la guerra.
Ma Abe non era convinto, scuoteva la testa e riteneva queste parole una risposta diplomatica per l’occasione.
Mochizuki sensei non perse altro tempo: “Attaccami!”
Abe lo guardò e lo invitò a prendere la posizione di guardia adatta per il combattimento, per essere pronto a difendersi.
“Non parlare a vanvera!” lo rimbeccò Mochizuki sensei, “Come si può sconfiggere il nemico se questo gli dice cosa fare? Attaccami! Attaccami come vuoi!”
Abe non era convinto: “Posso colpirti? Non hai guardia, sei pieno di aperture!” Ma prese la posizione e attaccò con una tecnica diretta. Mochizuki sensei schivò agevolmente uscendo dalla linea e lo colpì col suo potente Mae Geri.
Abe sensei cadde al suolo lamentandosi e contorcendosi. Dato che il suo antagonista era anche un abile fisiochinesiterapista, si accostò a lui, lo rianimò e disperse il dolore attraverso un massaggio.
Dopodiché, Mochizuki sensei rimproverò il suo superficiale avversario: “Come può una persona come te, che sviene quando riceve un semplice calcio, vantarsi di poter battere Ō Sensei?”
Abe sensei era molto scosso, e cercò di rispondere: “Sensei, ma nell’Aikido non ci sono tecniche di calci!?”
Mochizuki sensei continuò la sua rampogna: “Cosa intendi con una domanda del genere? Noi usiamo tecniche di calci o qualsiasi altra cosa! Io ho persino usato l’artiglieria! Le Arti Marziali, le armi da fuoco e l’artiglieria sono tutte Aikidō! Cosa pensi? Pensi che si tratti solo di torcere le mani? È un’arte di guerra… L’Aikidō è un combattimento con spade vere. Usiamo la parola Aiki perché attraverso di essa possiamo sentire lo spirito del nemico che attacca e siamo quindi in grado di rispondere immediatamente”.
E ancora: “Guarda il Sumō. Una volta dato il comando di inizio, si alzano e si lanciano l’uno sull’altro in un lampo. È lo stesso dell’Aiki. Quando una persona affronta improvvisamente il suo nemico in uno stato mentale libero da ogni idea e pensiero, è immediatamente in grado di affrontarlo, cosa che chiamiamo Aiki. Anticamente si chiamava Aiki Jutsu. Pertanto, l’artiglieria o qualsiasi altra cosa diventa Aiki”.
Abe sensei accettò la lezione: “Beh… penso di aver capito.”
Il Maestro lo congedò con le ultime parole: “Se hai altre domande, non esitare a venire a parlarmi”.
Ma, racconta Mochizuki sensei, dopo questo fatto Abe aveva paura di lui e lo salutava sempre da lontano.
Quando Minoru Mochizuki sensei terminò il suo periodo in Europa, prima di tornare in Giappone nel 1953 scrisse una lettera all’Honbu Dōjō Aikikai suggerendo di inviare un buon insegnante, che continuasse il suo lavoro. Anche questo fatto dimostra che non c’erano contrasti tra il Maestro e l’Ente. Si pensa che proprio Mochizuki sensei abbia suggerito Abe come suo sostituto, per l’occasione, ritenendone lo spirito combattivo adatto al nuovo ambiente occidentale.
Considerazioni finali
Questa breve cronaca merita un approfondimento. Sembrerebbe mostrare una divergenza di opinioni tra Minoru Mochizuki sensei e Ō Sensei. Ma, a ben esaminare, non è così.
Ueshiba sensei nelle sue parole fece presente la sua valutazione e speranza, che finito il Secondo Conflitto, non fosse più tempo di guerra. Purtroppo sappiamo che non ci fu la pace e non c’è. Proprio negli anni del soggiorno di Mochizuki sensei in Europa, e ancora al suo ritorno in patria, infuriava la guerra in Corea, vicino al Giappone. E conosciamo bene il rosario degli altri conflitti che poi furono, fino ad oggi.
La “forza” non poteva e non può essere tralasciata dal praticante d’Aikidō, Ō Sensei lo sapeva, piuttosto era l’ossessione del confronto e della vittoria che doveva essere abbandonato. Ma il conflitto necessitava sempre e comunque una risoluzione, e l’idea era di farlo cercando di non apportare danno. Ma, per ottenere questo, occorre la chiara affermazione sull’avversario, senza che questo subisca troppe ferite fisiche e morali, così di avere un’opzione che possa condurre verso l’equilibrio. Se non si era in grado di mostrare il modo efficace, l’avversario non si sarebbe convinto, né avrebbe desistito.
E questo era chiaro a Mochizuki sensei, esaminando la “zuffa” con Abe possiamo soppesare le sue parole e l’azione contro il kohai attaccabrighe: sono una chiarissima lezione. L’Aikidō imbelle non ha valore al di là di un circolo di utopisti autoreferenziali. E, come aveva compreso Kanō sensei con l’istituzione del Kobudō Kenkyukai, l’adepto deve essere universale e in grado di “usare” qualsiasi cosa secondo il principio del “miglior uso dell’energia” e della prosperità sociale. Nel caso dell’Aikidō, il principio Aiki va oltre le tecniche di lancio e controllo, le armi stesse suggeriscono come si possa adattare ad ogni cosa, al di là degli schemi tecnici.
Dopotutto, sono i vecchi e mai tramontati principi del Satsujintō (La Spada che Uccide), Katsujinken (La Spada che Salva), e del “Heihō wa Heiho nari” (L’Arte della Guerra è l’Arte della Pace).
Questi sono gli insegnamenti ancestrali del Bugei di cui l’Aiki è parte.
Copyright Adriano Amari ©2022
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Marco Aliprandini, nato a Bolzano nel 1962, è laureato in lettere presso l’università di Venezia e insegna in una scuola superiore in lingua tedesca di Merano, dove risiede. Istruttore di Mindfulness, pratica aikidō da quarant’anni. Attualmente ha il grado di 6. Dan riconosciuto dall’Aikikai Italia e dall’Aikikai di Tōkyō. È responsabile tecnico dell’ Aikikai Merano, la scuola di aikido della sua città.