
Fortunatamente nell’Aikido il demone della competizione non getta la sua ombra in modo organizzato, pur tuttavia è presente, non illudiamoci che non lo sia. Fino a quando non lo congediamo, il demone è lì appollaiato sul kamiza, pronto ad impossessarsi di noi alla prima occasione: lui si che legge bene il nostro cuore!
di MASSIMILIANO GANDOSSI
Neuchatel settembre 2009: grande stage celebrativo dell’Aikikai svizzero con i seminari dei Maestri Tada, Fujimoto, Asai e Tissier.
Partiamo direttamente dal dojo alla fine del keiko serale, siamo in 6 in un camper preso a noleggio, dopo svariate ore di viaggio nei meandri dei paesini svizzeri (probabilmente abbiamo sbagliato strada perché di autostrada abbiamo fatto solo un piccolo tratto, poi abbiamo attraversato i villaggi tipo Asterix per quasi 6 ore), arriviamo a destinazione. L’indomani mattina tutto ha inizio, a mio parere veramente ben organizzato; lo stage è diviso in gruppi a seconda del livello, per permettere programmi differenziati.
Durante la lezione del Maestro Fujimoto mi trovo a praticare con il Maestro Fritz Heuscher. Tecnica dopo tecnica mi lascio assorbire dal piacere della pratica e inizio a concentrarmi su alcuni dettagli del taisabaki e altri particolari specifici del movimento che stiamo facendo.
Ad un certo punto mentre sto facendo Uke, cambio un piccolo movimento del piede che mi fa fermare più o meno a metà esecuzione (era se la memoria non mi inganna un sotokaiten da ryotedori): a quel punto sento che le braccia di Fritz sono morbide e percepisco una sensazione simile a quella di una “cascata che si spegne” e ritorna ad essere acqua ferma, mi giro con lo sguardo verso di lui e lo vedo sorridente e tranquillo. Pacato come sempre mi dice: “Se non attacchi non ho bisogno di fare aikido”.
Semplice, apparentemente banale, ma quella frase mi ha folgorato e continua a folgorarmi ogni volta che la riascolto nella mia mente. Dopo 24 anni di aikido, mi ritrovai in quel momento ad essere veramente un principiante che inizia lo studio di una nuova, entusiasmante disciplina. Ho riflettuto parecchio su quel momento e ho trovato numerose affinità tra il concetto così semplicemente e chiaramente espresso da Fritz e i grandi capisaldi della mia filosofia di vita e di lavoro in ambito terapeutico.
Dove finisce l’ascolto dell’altro? solitamente nel proprio bisogno di intervenire. Ascoltiamo una persona che ci racconta un suo problema o una sua visione dei fatti della vita e quasi immediatamente iniziamo a formulare mentalmente uno schema reattivo sotto forma di risposta. Questo nell’aikido equivale a decidere come fare una tecnica prima ancora di aver letto l’attacco di uke, di averne percepito intensità, direzione e velocità.
Perché succede questo? Credo prevalentemente per paura. Quando abbiamo a che fare con qualcuno che ci racconta la sua sofferenza, abbiamo paura di ascoltare, paura di non essere in grado di reggere il contatto con quel dolore, paura di non essere in grado di aiutare, e iniziamo a reagire cercando forsennatamente una soluzione, per tenere la cosa lontana dal nostro cuore, dalla nostra anima morbida.
Abbiamo “bisogno” di intervenire, di impacchettare e chiudere la cosa in modo da potercela dimenticare prima possibile per evitare che ci ferisca. Si’, in fondo credo (prendendo in prestito Desjardins) che la più grossa paura nel vivere sia quella di essere esposti alla sofferenza e quindi la reazione di risposta sia un modo per evitare questa sofferenza. Così succede che durante il keiko, ci si concentri molto sulla propria tecnica, isolandosi, dando espressione ai propri bisogni, “ESPRIMENDO” la propria personalità, mentre FARE aikido significa prima di tutto “IMPRIMERE” nella propria personalità il concetto di armonia attraverso l’ascolto dell’altro.
Tutto sommato anche nel Judo di Jigoro Kano era così, l’ascolto dell’altro era il punto cardine attorno al quale ruotava la lettura di un’opportunità e lo sviluppo dell’ippon, del miglior sfruttamento possibile dell’energia in un movimento di insieme. Chiaramente oggi è difficile vedere questo concetto applicato, perché nel judo sportivo contano i muscoli e l’allenamento smisurato nella tecnica preferita, il che porta il praticante ad essere sempre più impositivo, sempre più controllante e sempre meno capace di ascolto.
Fortunatamente nell’aikido il demone della competizione non getta la sua ombra in modo organizzato, pur tuttavia è presente, non illudiamoci che non lo sia. Fino a quando non lo congediamo, il demone è lì appollaiato sul kamiza, pronto ad impossessarsi di noi alla prima occasione: lui si che legge bene il nostro cuore! Il foglio di via per il demone si scrive ascoltando l’altro e moderando, ascoltando anche se stessi durante la pratica, il bisogno di fare la tecnica, il bisogno di controllare e di sopraffare.
Dal trattenersi e creare uno spazio di ascolto sempre più profondo deriva una grande forza, una forza che non ci appartiene, ma che ci attraversa e ci nutre, una forza che connette il cielo con la terra, trasformandoci in un ponte tra queste due dimensioni. Questo vale anche fuori dal tatami: quando qualcuno ci parla dei propri problemi, prima di fare Ikkyo spingendolo contro il muro o per terra, possiamo prenderci il lusso di ascoltare, ascoltare le parole e le emozioni di chi ci parla e ascoltare le nostre mentre vibrano per effetto di quelle parole e sentire che effetto ci fa. Anche in questo caso dal trattenersi dall’intervento proviene una grande forza, una forza che tutto muove, insieme.
Copyright Massimiliano Gandossi ©2011
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Mi è piaciuto molto quanto scrivi Massimiliano…Mi rallegra e conferma la giusta scelta di avere intuito nello shin shin toitsu aikido la giusta via.
Giuseppe Golin
Grazie Giuseppe, non conosco se non per letture e sentito dire la tua scuola ma mi è capitato di praticare con persone che ne provenivano e mi sono effettivamente sembrate inclini alla percezione e all’ascolto, grazie per il commento e buona pratica a te e compagni. Max