La Pratica, i Dan e il Valore del Sé


Quando si manifesta il cambiamento? La crescita ? E come? Come è possibile valutare la propria crescita nell’ambito di una disciplina, di un cammino? Nella nostra disciplina abbiamo i dan, tanto blasonati quanto criticati, origine di desiderio, di ammirazione, di invidia, di rispetto, di autostima e della sua mancanza, i dan…

di MASSIMILIANO GANDOSSI

Chiaramente il troppo riflettere porta ad avere il mal di testa, ma credo che qualche volta valga la pena di correre il rischio.

Gli indicatori del nostro valore, nella societá in cui viviamo, sono la fama, la quantitá di denaro che abbiamo, l’auto che guidiamo etc…
Sarebbe a dir poco arrogante da parte nostra sentirci realmente e completamente scevri da questi parametri, magari possiamo con buona pazienza ritenerci interessati a liberarcene o a vivere con equanimitá il rapporto con il successo e il fallimento nelle questioni materiali e quotidiane, e dedicarci al sacro fuoco della pratica con dedizione ed impegno disinteressati.

Questo rapporto però è un grande punto di arrivo, una meta spirituale di per sé, nello yoga si chiamano abhyasa ( dedizione) e vairagya ( consapevolezza della natura infinita di ognuno, non turbata dalla polaritá di riuscita o fallimento, gioia e dolore) . Spesso si parla di percorso spirituale connotandolo come un cammino iniziatico alle segrete facoltá oscure della mente, che liberano superpoteri , mentre io davvero amo parlare del cammino che percorro, quello fatto di una misurazione propria, consapevole di quanto sono vicino alla mia vera natura e all’integritá in quello che faccio oppure a quanto vado vicino alla dissolutezza che genera dal rincorrere la soddisfazione continua dei bisogni del corpo e della mente e l’alimentarli di continuo attraverso il pensiero.

Questa è per me la via spirituale di liberazione per l’essere umano, non certo un film pieno di effetti speciali e di inseguimenti mozzafiato, piuttosto un lungo primo piano su un’immagine che porta a stare con le emozioni che questa evoca.

Quindi come potremmo definire la validitá della pratica? Nella qualitá fisica del nostro movimento o nel suo vigore? per certi versi questi parametri possono realmente cambiare indipendentemente dalla nostra volontá, incidenti, invecchiamento, cambiamenti di vita possono minare seriamente la qualitá del nostro corpo e delle sue performances, ci definiremmo allora praticanti dilettanti? Ex praticanti?

Magari allora potremmo valutarci in base alle comprensioni profonde che raggiungiamo, ai livelli di respiro, energia vitale, e armonia con i cicli dell’universo, che raggiungiamo, allora misureremo la nostra riuscita in base al numero di ritiri che facciamo col dato maestro, o alle ore di meditazione che riusciamo a reggere, anche se poi si crea un divario sempre più evidente tra quello che facciamo e quello con cui misuriamo la pratica.

I metri di valutazione cambiano nel tempo

Oppure, insidia delle insidie, ci misureremo in un’ottica devozionale, e allora attenderemo il plauso del maestro e misureremo la nostra riuscita in base all’affezione che il maestro prova per noi o , se siamo noi stessi maestri in base al numero di allievi che frequentano le nostre lezioni. In ognuno di questi casi qual’è il grado dan che pensiamo di meritare? E qual’è il parametro seguito dalla persona in carico di valutarlo? Siamo in attesa come il mio gatto quando mi fissa e mi segue alla sera al mio ritorno perchè si aspetta che gli dia il suo adorato pranzetto? A chi abbiamo riconosciuto il potere di valutarci ? È una persona che sentiamo realmente come un Maestro? O è una persona che ha questo potere all’interno di un’organizzazione? Ma soprattutto questi parametri valutano realmente la qualitá della nostra pratica?

Questi metri di valutazione ci rendono sempre vulnerabili al ciclo dei cambiamenti, e rendono praticamente ( non teoricamente ma praticamente si) impossibile l’instaurarsi di un solido rapporto con se stessi, e l’affermarsi del principio di equanimità sopracitato, che, per esempio nello yoga , è un prerequisito per camminare sulla via.

La minaccia del fallimento e della non affermazione sociale continueranno così a spaventarci e renderci insicuri ( così riverseremo l’insicurezza in proiezioni di ricerca di sicurezza tipo l’efficacia marziale e altre boiate del genere) .
Einstein affermava che non sempre ciò che è misurabile conta qualcosa, e ciò che conta non sempre è misurabile.

Nella pratica cerchiamo tra i cespugli del pensiero e delle forme mentali qualcosa che c’è dentro di noi, col quale allacciare una relazione durevole. Per poter misurare questa relazione possiamo solo chiederci ” in che genere di persona mi sto trasformando con questa pratica? La mia relazione armoniosa con me stesso, la mia vita e gli altri regge quanto sono sotto pressione o va in briciole al primo sconosciuto che mi taglia la strada? È solida o si sgretola quando le nostra aspettative non vengono appagate?”

Nella Bhagavad Gita Krishna dice ad Arjuna ” quando si rinuncia a tutti i desideri che turbano il cuore e la mente quando si è appagati in se stessi e da se stessi, ecco quel che si dice essere consolidato in saggezza” e ancora Gandhi ” Quello che fai può sembrarti insignificante ma è importantissimo che tu lo faccia” .

E allora come saremo distaccati dai risultati ed equanimi se dobbiamo dedicare tanta parte di noi , della nostra energia e del nostro tempo ad una pratica? Sará forse paradossale ma è proprio la forza della dedizione ad un progetto, finanche ad una meta che aiuta a conoscere il significato di imparzialità, perché l’intensità della propria volontà dona una dimensione gioiosa all’esperienza, favorendo il distacco dal risultato stesso.

Ma chi e come può misurare questo livello di realizzazione del praticante in termini di dan? Certamente non può che essere una persona che almeno mi conosce bene, ma poi ne sento realmente il bisogno?
Arriverò a dire, parafrasando Fantozzi nella scena della corazzata Potemkin che i dan sono una cagata pazzesca? O mi terrò il dubbio che possano avere o no valore senza esprimere giudizi arroganti e in cuor mio coltiverò sempre più il distacco da essi?

Un paragone che potranno capire tutti coloro che amano usare la bicicletta per i propri spostamenti quotidiani, perché col tempo, diventa sempre meno importante il luogo da raggiungere rispetto al piacere di compiere il percorso.

Copyright Massimiliano Gandossi © 2012 
Ogni riproduzione non espressamente autorizzata dall’autore e’ proibita
Pubblicato per la prima volta il  02/11/2012 su
http://gorinbushidokai.blogspot.it/2012/11/la-pratica-i-dan-e-il-valore-del-se.html

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Un pensiero riguardo “La Pratica, i Dan e il Valore del Sé”

  1. C’è ben poco da commentare ad un articolo del genere; non solo le argomentazioni sono ben poste, ma il ritmo dell’esposizione denota una vera confidenza con certi livelli dell’esistenza.
    E’ tutto vero Max! Invece di parlare tanto e polemicamente dai blogs, dovremmo procurarci occasioni di awase. Allora faremmo Aikido.
    Tornando dal Giappone, due diversi vecchietti molto realizzati, non in contatto tra di loro hanno usato lo stesso vocabolario, senza trincerarsi troppo nella misteriosofia semantica.
    Anno sensei del dojo di Shingu, dal quale sono stato benevolmente ricevuto assieme a due miei allievi, mi ha detto alla fine del keiko, che lo spirito di Mu significa che accogliamo non solo gli amici, ma anche i nemici. Per dare un peso a queste parole occorreva aver condiviso lo spirito dell’incontro e la faccia accogliente del maestro, che non nascondeva però quanto impegno e patimento porti con se questa realizzazione.
    Anche Hirosawa sensei mi ha parlato dello spirito di Mu, per mettere (e mettersi) in congiunzione con gli “opposti”. Questo parlare era condito da un agire, qui ed ora, molto coerente, in un contesto di avvenimenti (e trascorsi) anche dolenti e significativi.
    Quei livelli contraddittori (società e interiorità, maschera ed anima…) esistono comunque, e ad ognuno di noi è richiesto di congiungerli in modo individuale e irripetibile. Questo comporta un pathos, altro che camminate trionfali al ritmo della disciplina che rende invincibili e delle sue “ricette”, come qualcuno ritiene di parlare a proposito dell’Aikido. Così è stato anche per il Maestro Fondatore.
    Carl Jung, del quale tu utilizzi il linguaggio, nella società psicoanalitica era praticamente l’erede già designato di Freud. Non doveva far altro che rispettare i parametri di quel contesto e attendere…
    Nel 1912 la sua interiorità gli chiese completamente altro. Rinunciò al suo ruolo designato nella società psicoanalitica, all’insegnamento universitario, e intraprese la sua discesa nel profondo, senza paracadute!
    Da psichiatra assaggiò cosa significa impazzire, solo con le sue immagini interiori e con i suoi sogni, praticamente senza gradi dan…
    Una cosa però manteneva: il rapporto esterno con il lavoro e la famiglia, non potendo confidare a nessuno quel che gli accadeva.
    Il diario di tutto questo è il famoso “Libro rosso” pubblicato a 50 anni dalla sua morte nel 2011. Se lo avesse pubblicato prima, Jung sarebbe stato archiviato come un pazzo (e lui lo sapeva benissimo).
    Il collettivo è un livello, di cui facciamo storicamente parte e al quale dobbiamo qualcosa, ma è la nostra interiorità, personificata nell’Anima, a metterci in congiunzione con quel Sé di cui tu parli, e che se ne impipa delle convenienze sociali.
    Quando il nostro obbiettivo, come dici tu, è il successo a tutti i costi, quel Sé in cui ritrovarsi si farà attendere e attendere e attendere…Non avremo fatto quello che ci ha proposto il Fondatore.
    Capisco che sia poco facilmente condivisibile, come pure lo spirito del tuo articolo, ma anche per me le cose stanno esattamente così.
    Se Gesù Cristo il risorto, si facesse vedere oggi a Piazza San Pietro, Lui proprio Lui, con quell’aspetto anche iconograficamente riconoscibile, le autorità di quel posto lo rimetterebbero subito sulla croce…
    Osensei, che sul letto di morte aveva promesso di ritornare, probabilmente non troverebbe festosa accoglienza nella collettività attuale dell’Aikido.
    Forse non c’è proprio niente di strano, bisogna solo capirlo, non meravigliandosi più di tanto.
    Va bene così, altrimenti quali opposti dovremmo mai armonizzare? A cosa mai dovrebbe servirci l’Aikido?
    Con vera cordialità,
    Angelo -baka- Armano

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