Abbiamo il piacere di ospitare un interessante e ben formulato commento di Valentino Traversa ad un recente articolo di Carlo Caprino, apparso su Aikido Italia Network e concernente alcune delle tematiche fondamentali della nostra pratica, nella speranza di alimentare il dibattito e lo scambio di opinioni in proposito
di VALENTINO TRAVERSA
Ciao Carlo,
grazie per il tuo articolo, denso di significati.
Questo mio contributo è perché a mio avviso, il cruciale passaggio da Kihon a Takemusu Aikido nasconde delle insidie, che possono far sì che lo sforzo sincero di un praticante finisca per portarlo dall’altra parte, se non se ne è ben coscienti.
“- Maestro, quanto mi occorrerà per padroneggiare l’arte della spada?
– Dieci anni.
– Ma, se mi allenassi indefessamente, più ore al giorno?
– Allora vent’anni.
– Ma se mi allenassi giorno e notte, senza pensare a null’altro che non ai vostri insegnamenti?
– Forse per te serviranno trent’anni.”
Credo la citazione risalga al maestro del maestro Kunii Zen’ya, naturalmente potrei sbagliarmi, cito a memoria come sempre…
Quando ero ragazzo scrissi due brevi testi; il primo l’ho perso tempo fa ed era sul Kyudo; ricordo solo le parole iniziali e quello che volevo esprimere:
Tendendo il grande arco
sente il profumo della primavera
Il secondo fu invece pubblicato per cui ce l’ho ancora:
Gli uomini saggi
non sono distaccati dalla realtà.
Un Maestro sa vedere il cielo,
riflesso in una pozzanghera.
E in questo modo evita di finirci dentro.
Adesso prediamo in esame alcune citazioni dal tuo articolo:

“A questo punto, avanzando nell’addestramento, l’esecuzione del kata permetterà al praticante di comprendere i principi che rendono una tecnica efficace e non solo un’insieme predefinito di movimenti; conoscerà insomma la “forma” interiore. Continuando nell’addestramento, ogni budoka si “libererà” della forma, ovvero l’avrà così compresa dentro di sé da essere un tutt’uno con questa, in maniera diversa per ciascun praticante, perché intimamente legata al proprio modo di essere.”
Come si fa, ripetendo la forma, a liberarsi dalla forma?
Consumandola!
Ma che succede se ogni volta che la faccio la rafforzo con la mia volontà?
”Ed un altro che evidenzia come senza un chiaro atto di volontà non si possa raggiungere il traguardo ambito:
Se non vorrai
allacciare te stesso
al Vero Nulla
mai potrai comprendere
il sentiero dell’Aiki.”
Come si fa ad allacciarsi al Vero Nulla se sto cercando di realizzare qualcosa?
Forse, bisogna fare senza voler fare, ascoltando l’eco di ciò che accade.
In Tibet vi sono alcune Scuole che spiegano in maniera particolare questo punto:
“se qualcuno porta un ago verso l’alto per infilarci il filo, sembrerà guardare il cielo, eppure non lo vedrà; pure la gallina, nel suo cercare i chicchi d’orzo, pare guardare la terra, eppure non la vede.”
E se i waza dell’Aikido fossero proprio questo, qualcosa attraverso cui guardare, per riuscire a vedere?
” Il musicista che in concerto si concede virtuosistiche improvvisazioni e trascinanti “a solo” ha quasi certamente eseguito migliaia di scale e solfeggi, che non sono ancora “suonare” ma che sono la base fondamentale di ogni capacità di esecuzione musicale.”

Riesce a fare virtuosistiche improvvisazioni perché ha fatto le scale e i solfeggi guardando attraverso le scale e i solfeggi, lasciando che questi “accadano” alle sue dita e giungano dalle orecchie fin nel suo animo, mentre la sua consapevolezza registra tutto ciò che è in quel momento: anche un passero, che si posi sul davanzale, entra nelle sue scale.
Eppure tanti di più sono coloro che facendo scale e solfeggi… riescono a fare solo scale e solfeggi, come se gli esercizi divenissero un peso in più, piuttosto che servire a liberarli da un peso.
“Una delle cose più difficili da raggiungere sembra essere la spontaneità. Dopo un primo periodo da apprendista, nel quale deve studiare la tecnica per non avere alcuna remora nell’espressione della sua Arte, L’allievo deve ritrovare la naturalezza di una volta. Solo così potrà prestare attenzione ai vari messaggi ed alle emozioni che gli trasmette il mondo esterno di cui lui é ,secondo gli Orientali, solo un raccoglitore ed un trasmettitore.”
Nel caso del pittore di sumi-e, a mio avviso, non si è trattato di allenarsi progressivamente a disegnare un anatra, ma di liberarsi progressivamente di tutte le sue passate idee sull’anatra, attraverso molteplici disegni, un operazione di pulizia, piuttosto che di aggiunta: “impara e dimentica, impara e dimentica”
Ed in particolare, nel racconto, il punto rivelatore è quando, nel lasciar nascere l’anatra dalla carta, dal suo pennello e da lui stesso, continua a chiaccherare, da cui il senso che egli è, in quel momento, consapevole ed aperto, sta integrando l’intera percezione del momento nei suoi gesti, piuttosto che concentrarsi nell’applicare un atto di volontà, nel cercare di fare una riproduzione quanto più possibile precisa di qualcosa già nella sua mente, tale che la occuperebbe tutta, senza lasciar spazio al mondo intorno a sé.

Dunque, non raggiungeremo mai la “perfezione”; certo, si capisce, la perfezione non si può certo raggiungere, piuttosto si può lasciare che accada attraverso noi, se lasciamo andare la volontà, legata all’io, che si attribuisce merito o demerito di un’azione.
”Il suo percorso non inizia infatti in maniera teorica; ha origine in una esperienza di vita, fonte di stupore ed insieme di emozione. Solo in un secondo tempo l’intelletto cercherà di capire ciò che è stato vissuto al fine di dargli un senso.”
Osserviamo questa frase, cosa vuol dire?
A mio avviso, che un Maestro può dire, ad esempio, vai lì e fai questo; nel farlo tuttavia si scopre altro, qualcosa che, evidentemente, non poteva essere comunicato a parole e che non è quello che hai fatto o il luogo dove sei andato.
Ma se l’allievo ha uno spirito avido, se vuole “conquistare” la bravura, la tecnica, per diventare egli stesso maestro, non riuscirà ad avere quello sguardo rilassato, aperto di chi sa di non sapere, di colui che con umiltà, aperto alla Grazia, lascia che Essa venga a lui, piuttosto che cercare con avidità di inseguirla e conquistarla.
Quante volte, a tutti noi, è capitato ad un certo punto, di percorrere una strada fatta tante altre volte e di renderci conto di qualcosa mai notato prima, che pure era sempre stato là?
Cos’era cambiato, allora, nel nostro modo di percorrere quella strada?
Il vero avanzamento è così, è qualcosa che non ci aspettiamo: se riuscissimo ad immaginarlo prima, non sarebbe un vero salto iniziatico, ma solo un radicamento dell’ego in sé stesso, nella ricerca continua di “possedere” la bravura ammirata nel Maestro.
Attenzione però, occorrono, per questo, tre elementi:
1) percorrere la strada: se resto fermo, cosa mai potrò vedere se non quello che già conosco?
2) percorrere la strada indicata: se vado per un’altra strada, non troverò mai quello che il Maestro vuole mostrarmi

3) percorrere la strada indicata tenendo gli occhi aperti e mantenendo la sensazione di “non sapere”: diversamente, potrei fare la stessa strada migliaia e migliaia di volte, sempre con lo stesso sguardo torvo e diretto a terra, ogni volta cercando di farla più velocemente di prima, o pestando i piedi più forte, o meglio controllando il mio corpo, o portando un carico sempre più pesante, pensando ogni volta di riuscirla a percorrere sempre meglio, di diventare un po’ più bravo, ma perdendo e continuando a perdere la cosa essenziale, quella che il Maestro voleva trovassi, quella che sarebbe stato impossibile e sacrilego cercare di esprimere a parole, perché…
”Presa la decisione, occorre allora una guida che indichi la giusta direzione, qualcuno che ci apra gli occhi e ci mostri la strada, qualcuno che ci sappia insegnare a leggere le mappe di pietra e carta lasciate nei secoli per guidare i posteri. ”
Questo è un punto molto importante: cosa succederebbe se l’allievo confondesse la mappa con la strada?
Se si mettesse a fare mappe sempre più perfette, invece di percorrere la strada con occhi ed animo aperto, godendo di ogni sfumatura incontrata, sempre come fosse la prima volta o, addirittura, se si mettesse a riprodurre mappe prima di averla mai percorsa, quella strada che le mappe indicano?
E poi, d’accordo sul mostrare la strada, ma chi mai potrebbe riuscire a farci tenere gli occhi ed animo aperti, e lasciare che si posino ora qui, ora là, se non noi stessi…
Siamo noi che fischiettando con le tasche vuote, mentre percorriamo la strada, potremo imbatterci nel tesoro inaspettato, quello di cui non conosciamo né forma, né dimensione, né aspetto, né luogo, ma solo che è lì, proprio dove meno ce lo saremmo aspettato.
“Lasciate perdere. I Maestri danno solo ciò che devono dare, e quello che devono dare è soltanto ciò che serve. Questo non è un regalo e non è una ricompensa; è uno strumento, un indizio, una traccia.”
Una traccia serve a mostrare qualcosa, ma se ci attacchiamo alla traccia stessa, cosa mai potremo trovare?
Insomma, in definitiva, la strada è sempre quella, diverso è il modo di camminare: il passaggio dal Kihon al Takemusu Aiki può avvenire soltanto in coloro che, nella pratica del Kihon, non si sono attaccati ad esso, ma lo hanno usato per liberarsi, il ché può avvenire solo se si lascia il Kihon accadere, vivere attraverso noi stessi, piuttosto che concentrarsi nel cercare di ripeterlo in modo sempre più “perfetto”.
E poi, in fondo, di questa storia, nel avevo già scritto altrove, con uno dei miei pseudonimi [johnmuir] nel forum del monastero Zen di Scaramuccia, un bel pò di tempo fa… per chi voglia perdere un altro po’ di tempo…
Copyright by Valentino Traversa ©2013
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Caro Valentino,
grazie della tua risposta, che non posso che condividere.
In effetti la questione è molto più semplice di quanto appaia a prima vista, perquanto ci sia sempre chi – per troppi motivi – affermi il ontrario.ù
Come afferma la gabbianella di Sepulveda: “Vola solo chi osa farlo”
Dopo un opportuno addestramento, mi permetto sommessamente di aggiungere io… 😉
Sono d’accordo!
Grazie, Il tuo articolo mi ha ancor di più chiarito il significato di via.