There are no ‘styles’ of Aikido.
It is like cheese cake.
You can cut it in wedges or squares
or just dig in with your fork
but it is still cheese cake!
di CARLO CAPRINO
Premessa
Se c’è una cosa che un’Arte ci insegna, è che si cresce non solo grazie alla pratica individuale, ma anche (soprattutto?) confrontandoci con gli altri. Nulla di nuovo sotto il sole, il mio saggio nonno mi ammoniva spesso a frequentare quelli migliori di me ed a “pagargli le spese”, (traduco letteralmente dal dialetto) . Ecco quindi che l’idea di aggiungere i miei proverbiali due centesimi al confronto “filosofico” che vede come partecipanti Angelo Armano sensei (1) e Simone Chierchini sensei (2) mi si è palesata non tanto come un atto di arrogante hybris, quanto come una ottima occasione per pulire il mio specchio (3) e riflettere sugli stimolanti suggerimenti forniti da due insegnanti e praticanti così esperti ed aperti al dialogo.
L’Aiki? Che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa
Sulla “vexata quaestio” di cosa sia o non sia “davvero” Aikido, si sono scritte e si scriveranno ancora migliaia di parole. In omaggio alla provenienza orientale dell’Arte sarebbe stato forse più opportuno citare l’aneddoto del Buddha, dei ciechi e dell’elefante, ma siamo occidentali, ed un titolo ispirato ad un nostro poeta in fondo poi tanto male non fa, anche perché – a ben vedere – tra lo stracitato “Facimm’ammuina!” della Marina Borbonica e lo stratagemma cinese del “Fare clamore a Oriente per attaccare a Occidente” ci sono più similitudini che differenze.
Orbene, la citazione all’inizio paragona l’Aikido ad una torta al formaggio: tanto il morbido pezzo scavato al centro che il più duro bordo perimetrale sempre torta sono… per i più amanti delle citazioni colte, valga invece quanto affermava il Fondatore Ueshiba Morihei: “Ogni volta che mi muovo, questo è Aikido”. (4)
Tutto è Aikido, niente è Aikido? In effetti, il rischio c’è e il principio dell’enantiodromia – tanto caro ai taoisti ed agli junghiani (e non solo…) – ci ammonisce che un evento giunto al suo massimo si trasforma inevitabilmente nel suo contrario. Quindi, come se ne esce? Cosa è “tradizionale”? (e diamo per ammesso e non concesso che siamo d’accordo su cosa poi significhi davvero tradizionale…), dove finiscono le similitudini e cominciano le differenze? Dove si può parlare di Do e dove di Jutsu? Domande affascinanti ma che temo non abbiano “una” risposta, ma ne abbiano tante quante sono coloro che si provano ad affrontare la questione.

Circoscriviamo il campo d’analisi, riprendendo uno degli spunti di discussione affrontati dai Maestri Armano e Chierchini e rigirando la frittata in maniera provocatoria: Le “forme” servono? La pratica rigidamente didattica è utile? Quando (e se) il praticante può (o deve…) affrontare un percorso di pratica individuale?
Anche qui, facile fare domande, più difficile fornire risposte sia pure mediamente condivise; non avendo chi scrive ne’ l’esperienza ne’ la capacità comunicativa dei due Maestri citati, l’unica cosa fattibile è fornire una opinione che è – etimologicamente e logicamente – opinabile e valida tanto quanto una opposta.
Nella mia idea (più o meno Platonica…) di didattica, una “forma” condivisa è utile e opportuna, almeno all’inizio. Ho cominciato ad imparare a scrivere riempiendo pagine e pagine di quaderni di palline, cerchietti ed asticine, cercando di riprodurre al meglio la forma delle lettere presenti nel mio abbecedario. Avrei scoperto anni dopo che ciascuno, partendo da quelle forme condivise, avrebbe poi sviluppato una sua grafia, a volte al limite dell’incomprensibile, ma così tanto personale da poter essere impiegata perfino per indagare le caratteristiche della personalità.
Oggi pare che questo studio non sia più in voga, che si preferisca lasciar esprimere da subito i piccoli studenti senza imporre loro forme precostituite, non so se sia effettivamente così e – se si – su quali basi sia maturata questa scelta; quel che so è che nella mia piccola esperienza personale e lavorativa partire da una base condivisa aiuta a stabilire almeno un “minimo comune” su cui poi costruire e sviluppare percorsi individuali. Certo, il rischio “Torre di Babele” è sempre in agguato, per quanto l’adagio di Albinoni ed un riff di hard rock siano entrambi “musica”.
Stringiamo ancor più il campo di analisi, poiché ciò che può valere per un ambito non è detto valga anche per altri; i nostri padri latini di fronte ad una situazione da indagare si chiedevano ”Cui prodest?”, ovvero “A chi conviene?”, applichiamo questo quesito e chiediamoci, in sovrappiù, “perché” conviene.
Anche sulle motivazioni che portano un uomo del ventunesimo secolo ad affrontare pratiche distanti centinaia di anni e migliaia di chilometri dalla sua storia culturale (5) tanto si è scritto; diamo per assodato che costui lo fa e usiamo il rasoio di Occam (6) per eliminare le ipotesi – sia pure realistiche – che non servono a quanto scritto. l’Aikido – si è detto – affonda le sue radici nelle tradizioni storiche e spirituali del Giappone ma è anche Arte razionale e “scientifica”, e allora credo che anche all’Aikido possa adattarsi ciò che un acuto studioso scrive:
[…] quale sia l’intento della Scienza e quale l’intento della Tradizione. Se ne individuano due: in un caso conoscere l’universo per trasformarlo ed adattarlo alle esigenze dell’uomo, nell’altro conoscere l’universo, e l’uomo come parte del cosmo, per trasformare l’uomo. (7)
Sempre nello stesso testo, ancora si legge:
Le teorie scientifiche non devono mai diventare “congegni” o feticci da adorare e da utilizzare indiscriminatamente per interpretare la realtà, hanno un loro dominio di applicabilità.
Non so voi, ma a me il pensiero è corso alle “tecniche” codificate che qualcuno crede “universali” ed in grado di “funzionare sempre e comunque”, alle leve, alle proiezioni, ai bloccaggi ed alle percosse considerate come “fini” da raggiungere e non come “mezzi” da utilizzare per com-prendere il principio che le anima. E’ ovviamente innegabile che la didattica debba avere come obbiettivo anche il miglioramento tecnico e l’efficacia del gesto compiuto, ma questi non dovrebbero essere gli unici l’obbiettivi da perseguire, almeno non dopo un po’ di tempo dall’inizio della pratica.

Che fare allora delle “tecniche”? A che scopo utilizzarle? Ritorniamo al “cui prodest?” di cui sopra, che è sempre utile… a che scopo un body builder solleva ripetutamente chili e chili di peso su manubri o bilancieri? Solo per sperimentare la forza di gravità? Il gesto evidente è solo un “mezzo” per raggiungere un “fine” altro. Così, ancora Alessandro Orlandi ci ricorda che:
Ogni Tradizione prevede delle modalità particolari per trasformare l’uomo e la sua realtà (interna o esterna non importa).
Assodato questo, sfatiamo un altro mito che deluderà non poco i “teorici della pratica” (ci si perdoni l’apparente ossimoro) sempre alla ricerca della ennesima variazione, della ulteriore spigolatura, dell’adattamento aggiuntivo; quelli che la mia compagna definisce come “coloro che ne vogliono sapere una più del libro”, quelli che insomma accumulano ore e ore di filmati, pagine e pagine di manuali, centinaia e centinaia di fotografie e disegni:
La conoscenza e la sapienza non sono allora sinonimi dell’accumulare nozioni e leggi generali per controllare la Natura ed assoggettarla ai propri desideri. Conosce, invece, chi sa trasformare se stesso fino a rendere le leggi che regolano il suo microcosmo interiore identiche a quelle che regolano il macrocosmo. (8)
Il dito, la luna e lo strabismo di Marte
La didattica e le indicazioni degli insegnanti sono la rotta ma non sono la Via, sono utili a non “perderci per strada” ma il cammino tocca percorrerlo a noi. Nella forma, kata, kihon o comunque si vogliano chiamare questi esercizi propedeutici è compresa l’essenza della tecnica, ma questi non sono ancora la tecnica, potremmo definirli come il guscio che protegge il frutto della noce, che può assaporare solo chi quel guscio sia disposto – prima o poi – a romperlo.
Sembra facile? Forse meno di quanto appare, o forse siamo noi razionalisti occidentali che ci complichiamo la vita… Gli orientali usano paragoni più affascinanti per spiegare questi concetti:
“La forma non è distinta dal vuoto, il vuoto non è distinto dalla forma; la forma è proprio tale vuoto, il vuoto è proprio tale forma; se questa è la forma tale è il vuoto, se questo è il vuoto tale è la forma” (9)
E ancor più esplicito è il saggio cinese, quando ci ricorda – come Antoine de Saint Exupery nel suo “Il Piccolo Principe” – che non di rado “l’essenziale è invisibile agli occhi”:
“Trenta raggi convergono sul mozzo, ma è il foro centrale che rende utile la ruota… Plasmiamo la creta per formare un recipiente, ma è il vuoto centrale che rende utile un recipiente… Ritagliamo porte e finestre nella pareti di una stanza: sono queste aperture che rendono utile una stanza… Perciò il pieno ha una sua funzione, ma l’utilità essenziale appartiene al vuoto…” (10)
La “forma” è insomma una sorta di contenitore, utilissimo, spesso indispensabile, ma che tale è in funzione di ciò che contiene. Una forma “vuota” serve a poco, così come un liquido preziosissimo è destinato a perdersi se la “forma” che lo contiene non ha caratteristiche adatte allo scopo.
Nell’ambito marziale, le “tecniche” sono – per certi aspetti “simboli” (11) e la didattica che le utilizza un “rito”. Se il rito è “una successione spazio-temporale e dinamica di simboli e azioni simboliche” (12) bisogna porre la giusta attenzione che il rito che dovrebbe vederci attivi protagonisti non si trasformi in vuota cerimonia, di cui siamo passivi spettatori. Il simbolo vale nulla, se non c’è chi lo ri-conosce (ancora Platone…) e non a caso sempre A. Orlandi evidenzia come: “ Il mito consiste invece in un insieme di simboli i quali possono avere differenti gradi di influenza sull’iniziando, a seconda di come vengono ordinati ed interpretati”.

Se così è, allora, ben vengano i Maestri e gli istruttori più esperti che ci indicano la strada, ben vengano coloro che ci ammoniscono a fidarci dell’ortodossia ma ancor più dell’ortoprassi (13), ben vengano coloro che – come Sepulveda – ci ricordano che “Vola solo chi osa farlo” e che un recinto può essere tanto una prigione che ci rinchiude quanto un ostacolo che ci permette di metterci alla prova.
Se l’Arte in genere e l’Aikido in particolare ci apre all’Universo e nel contempo a noi stessi (14), in un percorso tanto “verticale” quanto “orizzontale”, allora forse la conclusione più adatta a queste note è una citazione di Giordano Bruno, che afferma:
Colui che vede in se stesso tutte le cose è al tempo stesso tutte le cose.
Conclusioni
Ennesimo ringraziamento va ad Angelo Armano sensei e Simone Chierchini sensei per avermi maieuticamente aiutato a buttar giù queste righe.
Ulteriore e sentitissimo ringraziamento a Alessandro Orlandi per aver condiviso col sottoscritto la sua ampia e viva sapienza ed avermi fatto dono di due sue illuminanti opere, a cui sono debitore di molti più insegnamenti rispetto a quelli qui citati.
Ultimo ma altrettanto doveroso ringraziamento ai lettori, per la nuova prova di pazienza a cui si sono sottoposti leggendo questo scritto.
NOTE
(1) http://aikidoitalia.com/2013/04/08/a-proposito-delle-idee-di-platone/
(2) http://aikidoitalia.com/2013/03/02/le-idee-di-platone-e-il-taisabaki-del-gambero/
(3) Gli scritti dei Maestri citati richiamano spesso Platone, filosofo greco il cui nome pare significhi “dalle spalle larghe”, spalle che spero siano tanto robuste da sopportare anche questo ulteriore fardello.
(4) Citato in http://www.aikidofaq.com/introduction.html
(5) Sempre considerando che – come detto all’inizio di queste righe – spesso vi sono più analogie che differenze tra culture anche apparentemente agli antipodi
(6) Il “Rasoio di Occam” è un principio, ritenuto alla base del pensiero scientifico moderno, che suggerisce l’inutilità di formulare più ipotesi di quelle che siano strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno, quando quelle iniziali siano sufficienti.
(7) In “L’Oro di Saturno – Saggi sulla Tradizione Ermetica” di Alessandro Orlandi, Edizioni Mimesis
(8)In “L’Oro di Saturno – Saggi sulla Tradizione Ermetica”, op. cit.
(9) Il “Sutra del cuore della perfezione della saggezza” o “Sutra del cuore” è un sutra Mahayana del gruppo della Prajñaparamita, molto conosciuto e diffuso nei paesi di tradizione mahayana per la sua brevità e densità di significato. Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Sutra_del_Cuore
(10) Lao Tzu, “Tao Te Ching”, cap. 11
(11) Ed è interessante, al proposito, l’analisi etimologica della parola “simbolo”
(12) In “L’Oro di Saturno – Saggi sulla Tradizione Ermetica”, op. cit.
(13) Parafrasando saggi ammonimenti, si può dire che: “Molti sentieri di montagna portano alla vetta, ma sulla vetta della montagna non c’è più nessun sentiero”
(14) Scrive ancora A. Orlandi nella sua opera sopra citata: “La Tradizione, invece, si pone come obbiettivo la non-separazione tra il mondo e chi lo osserva, vuole trasformare l’osservatore armonizzandolo con la realtà a lui circostante.”
Copyright Carlo Caprino ©2013
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Finalmente, Carlo, finalmente!
Solo che allo “strabismo di Marte” preferisco il più classicamente consolidato strabismo di “Venere”.
E’ qui (santo Iddio) e solo qui, che “le forme” mi intrigano.
Angelo Armano