Come di sovente è accaduto negli ultimi anni, Angelo Armano corre una sorta di cibernetica staffetta con Simone Chierchini, con il quale si scambia la penna qui su Aikido Italia Network, alternando commenti e consigli che assai raramente non vedono il traguardo…
di ANGELO ARMANO
Allora Simone,
ho letto e riletto il tuo editoriale (1) e non ho trovato (forse per mia costituzionale inabilità web) la possibilità di commentarlo (2); mi pare fosse possibile dire: “mi piace” e in una forma prefissata erga omnes.
Ebbene voglio dirti a modo mio, l’unico che conosca e che intenda praticare, che il tuo editoriale mi piace, mi piace proprio e non poco, e non perché mi sento tuo amico. Mi piace per il metodo, per l’ansia di rigore logico, di coerenza, per la voglia di assumere posizioni in prima persona, senza coperture collettive e senza schivare la conseguente responsabilità di questo.
Ricordo molto bene circa due anni fa, tornando insieme da uno stage, che già lucidamente ti ponevi lo stesso problema (ruolo e senso di tori e uke) e cortesemente chiedevi la mia opinione. Non ricordo di avertela data, e constato con piacere che hai lavorato e distillato.
Allora…
in quell’aiki al quale ci ispiriamo, quello che scrivo non è replica, né contrappunto: ho voglia solo di aiki!
Qualche tempo fa, da un comune e ragguardevole amico ricevetti come augurio una splendida foto di Osensei, col sorriso inerme e fanciullesco; uno sguardo ai limiti della follia, rispetto alla seriosità omologata di certi suoi allievi diretti, e una didascalia sulla foto diceva grosso modo così:
“Là dove la goccia cade sulla pianta e nutre la cellula: quello è il tuo posto. E’ lì dove devi stare”.
Io la frase la do per buona, platonicamente buona perché mi piace, e perciò autentica.
Visto come sono arbitrario?
Uno storico come Franco Cardini, o qualche aikidoista col vezzo di fare il portavoce di qualche grossa associazione, mi farebbe a pezzi. Ci vogliono prove, documenti…
Come te mi assumo la responsabilità della mia posizione e nomino mio avvocato difensore Giovanbattista Vico, il quale replicando ad un suo famoso contemporaneo, tale sig. Des-cartes (il trattino è arbitrario come me, essendo il sig. Delle carte –nomen omen– nientemeno che il filosofo razionalista Renato Cartesio) con accento tipicamente napoletano diceva:

“Ma quale verità e verità. L’uomo può tutt’al più rapportarsi col verosimile”.
Io non mi dimentico mai di Vico, soprattutto quando capisco che nascosta dietro una domanda tecnica, c’è molta, molta ansia. La Tekné (ovunque ce ne sia inflazione, quindi anche nelle arti marziali) è un paravento, un esorcismo di qualcos’altro, mani avanti contro l’oscuro, l’ignoto.
La goccia cade dove cade; e se ha fortuna nutre! In realtà ha sempre fortuna perché prima o poi nutre qualcosa, dà vita, essendone componente essenziale.
Umanamente parlando, una cellula staccata dal suo tessuto non vive, muore presto.
Pensa alle centinaia e centinaia di ovuli mestruati, ai milioni, miliardi di spermatozoi “dispersi”, e questo per ogni singolo individuo. Tutti alla ricerca disperata di un incontro, con l’opposto, che guarda caso è la Vita, il suo articolarsi nel tempo, il suo manifestarsi, l’ostensione della sua bellezza. Se si incontrano, se si relazionano, la bellezza si manifesta, viene alla luce.
Abbiamo costretto Amaterasu fuori dalla grotta!
Allora c’è scandalo se sottolineiamo l’aspetto relazionale dell’Aikido?
Anche la contesa, il conflitto, ha bisogno dell’altro. Le cellule hanno bisogno delle altre cellule per vivere, e meglio se in armonia tra loro, altrimenti prima o poi quella singola forma accelera la sua fine.
Pure l’ingiustizia postula un paragone, in negativo. Se poi qualche volta, per sbaglio vince la giustizia: che bello!
Ma non accade tanto spesso, fidati; e non ti servirà l’Aikido per spazzare le ingiustizie.
L’Aikido serve per vivere, per manifestare la bellezza di esserci, in ogni caso e comunque, nella vicenda buona e in quella cattiva.
Nemmeno a tutti i costi.
Per esserne consapevoli, godere l’intensità dei diversi livelli di coscienza. Il marziale che aiuta a questo, invitandoci a non nasconderci, a stare in campo… a vivere.
La vita però non è questione di quantità e nemmeno di virtù. Anche Priebke ha vissuto fino a cent’anni, in apparenti buone condizioni, a dispetto di maledizioni o scrupoli, se mai ci sono stati.
Non ha avuto bisogno di respirazioni di lunga vita o di digiuni; è probabile che da buon tedesco mangiasse crauti e salsicce. Chissà, forse modi di fare stereotipati, urli da caserma, un certo superomismo e indifferenza per gli altri, aiutano.
Non è la mia strada! E ringrazio chi mi ha aiutato a capirlo.
Da quando ho adempiuto a quello l’islam prescrive ad un uomo completo (costruire una casa, piantare un albero, fare un figlio), ma non solo per quello, a dispetto della crisi e di tutti i fatti umani troppo umani, non mi sono mai sentito così felice di vivere.
Il resto: tutto grasso che cola. Sarà quel che sarà.
Diceva il grande Eduardo De Filippo: “La vita è un anno. Tutto il resto è avidità”.
A me piace Osensei quando dice, espressamente, che Ai è anche amore, scrivendolo persino col kanji competente, non quello comunemente risaputo.
L’espressione è tanto sana, quanto veramente conforme al marziale. Se sono nevrotico, paranoide, e tendo a vedere gli altri come nemici, il riflesso condizionato marziale li vorrebbe tutti morti: camere a gas, pulizia etnica, bombardamento atomico… La demonizzazione che viene dalla paura del diavolo, e come tali ci fa comportare.
Ebbene, il mio aiki deve contemplare -ahimè- anche quelli che la pensano così, altrimenti farei e sarei come loro, e non ci sarebbe più aiki. Giudicatemi un fesso, un perdente, non cambio idea.
A me piace l’incontro perché è vita, anche se sofferto, paradossale, non conforme all’ideale di giustizia, per il quale comunque non smetto di lottare, con l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, insieme.
Perché insieme è vita, manifestata!
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