
30 anni di insegnamento, tanti compagni di strada, Torino, Christian Tissier e il ProgettoAiki sempre a portata di mano. Nino Dellisanti si è conquistato nel tempo un ruolo di rispetto nell’Aikido italiano e lo ha fatto nell’unico modo che funziona: senza protagonismi e con un indefesso e costante lavoro sul tatami e attorno al tatami
di SIMONE CHIERCHINI
Nota Biografica
Nino Dellisanti inizia la pratica dell’Aikido nel 1980 sotto la guida del M° Gerbi. Sostiene l’esame da Shodan (1985) e Nidan (1987) in FILPJ, organizzazione che, in quel periodo, poteva contare della guida, nell’indirizzo tecnico, del M° Tomita già allievo del M° Saito.
Nel 1987, partecipando ad uno stage intensivo di Aikido a Parigi organizzato e condotto dal M° Tissier, Nino viene a contatto, per la prima volta, con questo Maestro. Questo incontro rappresenta il punto cardine nella definizione di quello che costituirà un personale percorso di ricerca e crescita tecnica.
Nel 1989 gli viene offerta l’occasione di guidare il corso di Aikido nella Palestra Kanku Dai di Torino, è il secondo punto di svolta del suo percorso di praticante. Nell’aprile 1992 insieme a Patrizia Corgiat fonda l’associazione Shisei e viene inaugurato il Dojo di via Legnano 16: la realizzazione di un sogno, una vera scommessa. Sempre nel corso del 1992 supera l’esame da Sandan.
Nel 1996 il M° Tissier, su invito della LAM Uisp, esprime un’opinione tecnica in seguito ad una prova di esame sulla cui base la LAM UISP certifica l’avvenuto passaggio di Nino Dellisanti a Yondan. Nel febbraio 2001 l’Ado UISP gli attribuisce il Godan e nel 2013 il ProgettoAiki gli conferisce il Rokudan. Il Maestro Tissier gli conferisce il V Dan Aikikai nel 2007 e il VI Dan Aikikai nel 2013. Nel 2020, dall’Aikikai di Tokyo, gli viene attribuito il titolo di Shihan.
Nino Dellisanti ha rivestito il ruolo di coordinatore della formazione insegnanti per il settore Aikido della Area Discipline Orientali UISP fino al giugno 2004 ed è stato membro della Commissione Tecnica Nazionale Aikido ADO UISP. È tra i fondatori del ProgettoAiki.
Insegna a Torino, Racconigi, La Loggia, Ceresole d’Alba in vari corsi; nella pausa pranzo, pomeridiani e serali ad adulti e ragazzi delle scuole medie ed elementari.
In questo percorso occupa uno spazio significativo la sua pratica tuttora attiva dello Iaido all’interno della CIK. Grazie alla guida tecnica di Danielle Borra ha acquisito il grado di Godan.
Similarmente, si dedica al Jodo, ricevendo il supporto di Gilberto Vecchi, Gigi Rigolio e Antonio Ghigini e seguendo l‘insegnamento di René Van Armesfoort, Kyoshi 8° Dan. In questa disciplina il suo grado è Rokudan.

CHIERCHINI
Torniamo indietro fino al 1980, al giovane Nino che inizia Aikido. Cosa andava cercando quel particolare principiante?
DELLISANTI
In realtà quel particolare praticante non sapeva che stava cercando qualcosa… Le cosiddette arti marziali mi affascinavano ma ero diffidente nei confronti dell’ambiente. Erano anni difficili, le diverse ideologie occupavano territori del fare quotidiano e molti erano i pregiudizi sulle discipline marziali… ciò detto ero affascinato e fu grazie ad un amico che entrai in un Dojo. Lì mi sono “scontrato” con l’Aikido. Cosa cercavo? Sul momento vi era, di certo, l’esigenza di esprimermi fisicamente. Ero un ragazzo timido, con il bisogno di misurarsi in una situazione dove lo scontro fosse possibile. Possibile e controllato, utile per poter evolvere nelle sue relazioni. Ovviamente non ne ero pienamente consapevole e ritenevo che l’Aikido fosse una scelta, per così dire, estetica, fare attività fisica calibrando i movimenti in modo elegante. Col senno di poi posso dire che “l’esperienza estetica” quella che coinvolge pienamente la nostra attenzione, capace di suscitare emozioni, riflessioni, stati d’animo – e infine trova il modo di esprimersi – è stata centrale. Desideravo un linguaggio, anche aspro, fatto di fatica e sudore, ma capace di comunicare.
CHIERCHINI
Cosa ti ha lasciato la tua esperienza di giovane dell’Aikido torinese alla scoperta di sé stesso e del proprio Aikido?
DELLISANTI
Il senso della comunità. Sembra scontato dirlo ma credo che questo sia un valore che un po’ si è perso. Credo che per i praticanti di quei tempi fosse importante il “con chi fare le cose” piuttosto che unicamente il “cosa fare”. I ritmi di vita consentivano che il “sopra” il tatami e il “fuori” dal tatami trovassero una sintesi nel vivere con i compagni di pratica, non solo di Dojo, momenti di condivisione. Questo mi pare che si sia perso, oppure sono io che non riesco a coglierlo. Poi c’è il piacere personale del faticare, ricercare la difficoltà per superarla, che questa fosse rappresentata da un compagno particolarmente ostico o da una tecnica complessa da realizzare. Ho sempre inteso che il mio piacere sarebbe passato attraverso la difficoltà… prima si cade e poi si cammina. La cosa divertente è che sono tendenzialmente pigro, ma il tatami mi trascina, dove vedo il problema vado! E se non vado è perché le mie paure sono più forti della forza magnetica della sfida… Ma ora lo so, sono capace di comprenderlo e ci lavoro!
CHIERCHINI
Nel 1987 hai incontrato per la prima volta Christian Tissier Sensei, primo passo di un lungo cammino assieme. In che modo il patrocinio spirituale di un grande maestro ha influenzato la tua pratica e il tuo modo di approcciare la vita?
DELLISANTI
Diciamo che mi sono scontrato (uso nuovamente questo termine) con il Maestro Tissier. O meglio, con l’ambiente dei praticanti che animava i suoi seminari. Non lo sapevo ma, durante lo stage, chi arrivava a lavorare con me non era mai uno qualsiasi. Solo gli allievi più prossimi del Maestro. Non conoscevo nessuno e, ovviamente, non ero così veloce nel propormi come partner di pratica a qualcuno e invariabilmente ero scelto… e come dicevo, non era un praticante qualsiasi ma qualcuno che veniva a testarmi e a mettermi in difficoltà, “presentando” il biglietto da visita della scuola.

Forse si può immaginare il mio sconforto… ero una fresca cintura nera e tutto ciò che credevo di sapere non serviva a nulla… Ma quella difficoltà mi fu da sprone, intravidi qualcosa e mi ci buttai… con dolore emotivo, ma mi ci buttai.
Ma vengo al patrocinio spirituale. Il Maestro difficilmente approccia spiegazione sugli aspetti definibili come spirituali. Non certamente trent’anni fa. A quei tempi solo ed esclusivamente pratica, pesante pratica, estenuante pratica. Ma, come spesso accade, non parlare di qualcosa ne testimonia la presenza profonda. Il problema è coglierla, se lo si vuole. Con la continuità del rapporto ci si rende conto del rigore di un percorso personale del Maestro e del fatto che ogni proposta contiene dei principi che non sono tecnici, ma che possono essere letti, in essenza, come morali, cioè che riguardano il valore dell’azione dell’uomo! Il Maestro Tissier, da molti, viene visto come una macchina, macchina che cinicamente procede su una linea iper tecnicistica. Questa lettura è diffusa, oserei direi confusa, anche tra coloro che lo seguono ma che sono, semplicemente, giovani e ancora non hanno avuto modo di riflettere sulla propria pratica. Questo dà luogo a fenomeni che forse hanno reso statico un lavoro, troppo centrato sull’esecuzione e meno sulla relazione. Responsabilità del Maestro? Forse, ma sinceramente non credo. Il Maestro Tissier nel suo non esplicitare la dimensione morale (spirituale) mostra, dal mio punto di vista, una grande attenzione al rispetto del libero pensiero di ogni praticante che segue un suo corso, seminario. Non c’è proposta specifica perché la si deve scoprire e non è il maestro a metterla in vetrina. La ricerca del gesto puro è di per sé una scelta di vita, lo spirito di ricerca che dimostra è autentica e travalica la forma dell’esecuzione… non è un seguire il mercato, è un’offerta. Questo per limitarmi ad un paio di considerazioni, ma è evidente che anche nel suo dimostrarsi “fragile” nell’attuale condizione fisica è presente un pensiero critico verso qualcosa che ci appassiona, ma che ci trasforma e non necessariamente in meglio…
Come mi ha influenzato? Credo di averlo detto. Ho avuto modo di decidere se il modello era alla mia portata, se mi interessava e, prendendo consapevolezza dei miei limiti mi ci sono potuto ispirare in modo personale, originale. Oggi so fare i conti con il mio immenso ego, la mia immodestia, la mia visione assolutistica… il che non significa che sono migliore, solo consapevole. Ci provo a trasmettere questa consapevolezza nella mia pratica… non sempre ci riesco.

CHIERCHINI
Hai iniziato a insegnare nel 1989, e le attività con i bambini ti hanno da subito visto in prima linea. Puoi raccontarci come si è evoluto il tuo sistema didattico in relazione all’insegnamento dell’Aikido per i più giovani?
DELLISANTI
Nel nostro paese la pratica dell’Aikido verso i bambini ha visto differenti fasi. In passato i praticanti più piccoli sono stati guardati con sufficienza. Attività da lasciare alle donne o a giovani inesperti in didattica, per farsi le ossa e per alimentare le casse dell’associazione… (qui si potrebbe aprire una parentesi sul machismo dell’Aikido ma sarebbe troppo lungo). Piano piano le cose sono cambiate e a questo proposito molti sono stati i pionieri di un cambiamento. A Torino mi vengono in mente Mimmo Zucco e Piero Villaverde, attori fondamentali di questo percorso specifico dedicato ai giovani praticanti. Sono certo che ve ne siano altri, a Torino e nel resto d’Italia, solo per mia ignoranza non ne ho conoscenza approfondita. Mi scuso con loro.
Il mio primo approccio con l’insegnamento è stato con i bambini… per le ragioni di cui sopra… Ero un giovane che aveva tempo e interesse. Insegnare ai più giovani è difficile, molto difficile, e passai attraverso errori e fraintendimenti del ruolo dell’insegnante. Anche in questo caso, ad un certo punto, ho avuto un incontro illuminante. La Francia è ricca di esperienze che affrontano la formazione all’insegnamento e, ancora una volta, mi misi a macinare chilometri (sudore e chilometri erano la precondizione… oggi non è più così… per fortuna! O per sfortuna?) arrivando a conoscere Jean Michel Merit: un grande insegnante per bambini (non solo ovviamente). Grazie a lui ho capito che tutto ciò che non riuscivo a far fare ai miei giovani era dovuto alla mia impreparazione. Non si trattava di addossare una incapacità ai miei praticanti, ma piuttosto di ricercare una formazione che mi avvicinasse a loro. Un giovane praticante può arrivare a fare tutto ciò che hai progettato di fare… devi solo (?) trovare il linguaggio giusto, adatto, la relazione corretta e un obiettivo da perseguire. Per me l’obiettivo è diventato la restituzione. È un obiettivo che prevede un agire del corpo ma anche, se non soprattutto, un agire civico. Viviamo nella parte fortunata del mondo. Anzi, viviamo nella parte fortunata della parte fortunata del mondo. I nostri giovani devono arrivare a comprenderlo attraverso una azione che è necessariamente educativa, sui valori, sulle regole. Se interroghi un bambino su cosa sia il rispetto di una regola lui risponderà che è finalizzata all’essere educato, un bravo bambino… se gli fai notare che invece una regola è finalizzata alla sua sicurezza si apre un mondo dove il rispetto delle regole è cura di sé e cura degli altri! Un patrimonio di consapevolezza, per i giovani e per l’insegnante. Tutto ciò attraverso una pratica fisica interpretando le azioni della nostra disciplina… Credo che O Sensei sarebbe d’accordo.
Sono passato, quindi, da uno stadio in cui la lezione con i bambini mi creava ansia di prestazione ad uno in cui la lezione è diventata semplice, un divertimento, un divenire.
Oggi questa consapevolezza, del valore del dedicarsi ai più giovani, ritengo sia diffusa. Penso che i casi in cui l’Aikido per bambini sia utilizzato per riempire uno spazio di un dojo siano, oggi, pochissimi. In virtù di questa crescita collettiva l’Aikido è più conosciuto anche tra gli adulti. genitori, parenti, insegnanti delle scuole e… psicologi dell’età evolutiva.
La considerazione di questo aspetto della pratica tra gli insegnanti di Aikido nel loro complesso ritengo sia cresciuta di molto e però vero che molto si può ancora fare.

CHIERCHINI
Dopo oltre 30 anni di insegnamento, quando ti fai la barba al mattino vedi un maestro o un insegnante?
DELLISANTI
Vedo una persona.
Il termine Maestro mi piace solo se chi lo usa per definirti tale lo fa con un pizzico di ironia. Faccio un esempio. Sono stato fotografo professionista in ambito pubblicitario. Se hai l’occasione di lavorare in uno studio a noleggio, ad esempio per una campagna pubblicitaria di automobili, ci saranno cinque o sei assistenti dello studio a noleggio che ti daranno una mano a sistemare luci, pannelli e quant’altro. Ecco, ognuno di questi ti chiamerà maestro ogni volta che si rivolgerà a te… ecco se capisci che ti sta prendendo per i fondelli, che lui ne sa quanto te e ti può precedere in ogni scelta che farai, se lo capisci e ne sorridi riuscirai a trovare il modo di esprimerti in modo personale e creativamente tuo. Se chi ti chiama Maestro ha questa ironia nel pronunciare la parola, ironia che mi stimola, che non mi fa prendere troppo sul serio, ecco che lo accetto. Ovviamente ironia non è mancanza di rispetto… ma deve essere rispetto per un percorso e non per la definizione.
Insegnante è un termine nel quale mi riconosco molto. Ho un dovere, la trasmissione di una disciplina. Oggi devo coniugare l’insegnante con l’essere Shihan, titolo che rappresenta uno stadio altro dal semplice insegnante. Per certi versi, essere Shihan è anche divenire consapevoli che si è di nuovo immersi nella pratica come praticante, ci si può, finalmente tornare a concentrare su di sé senza togliere nulla a chi condivide con noi il tatami, il dojo. Shihan è colui che ha una storia e gli è stato detto di raccontarla.
CHIERCHINI
Torino e il suo hinterland vantano una presenza in termini di dojo di Aikido quasi capillare. Quali sono i pregi e i difetti di operare in un’area in cui la cultura dell’Aikido sembrerebbe essere molto più sviluppata rispetto alla media nazionale?
DELLISANTI
In maggior misura vedo i pregi. Credo che nella quantità si sviluppi la qualità. Questo non vuole togliere nulla a situazioni geografiche con meno Dojo, intendo solo sottolineare come sia importante che chi sceglie il proprio luogo di pratica, il proprio insegnante, abbia modo di trovare la risposta soggettiva adatta al suo modo d’essere, a quella che costituisce la sua ricerca più o meno consapevole. Questo, anche se sembra strano, dà libertà all’insegnante, gli permette di seguire le proprie inclinazioni senza scendere a compromessi. Certo ci deve essere la consapevolezza che ognuno di noi è complementare e non esaustivo… a volte questo senso di insieme manca, ma è la situazione che ti mette di fronte a questo dato. Sta al singolo insegnante comprenderlo, oppure vivrà con fastidio quella che considera una concorrenza. Non credo che esista una vera concorrenza… Ognuno seleziona, più o meno consapevolmente, gli allievi. I propri. Chi viene da me, vuole me. Se cambia vuol dire che cerca altro e va bene così. Per quanto tu possa esserti affezionato ad una persona bisogna che costui sia libero di venire, andare ed eventualmente tornare. Le porte non sono mai chiuse. Per i progetti che svolgo nel mondo della scuola mi capita quasi sempre di operare lontano da dove opero con un dojo. Quando trovo qualcuno che vorrebbe andar oltre all’esperienza che la scuola gli ha offerto tramite mio, lo indirizzo ai dojo vicino e non certo al mio che il più delle volte è situato ad una distanza che si misura sempre in svariati chilometri. Spero che si trovi bene dove approderà… e anche questo è un criterio di selezione. Se è realmente interessato alla disciplina troverà il suo posto… altrimenti farà altro.
Il difetto in questa situazione dove vi sono molti dojo è che a volte questo può essere un alibi per ciò che non funziona. È così facile dare la colpa a concorrenti sleali etc etc… un po’ come la situazione del calendario degli stage di Aikido che è ormai sempre più affollato… una fortuna secondo me, una disgrazia secondo altri. Io non ho dubbi, chi non viene da me ha, come motivo, una mancanza di interessne per il sottoscritto e di certo la responsabilità non è sua. Non credo neppure di essere un concorrente per altri. Credo in praticanti come individui dotati di sufficiente consapevolezza da poter scegliere in serenità ciò che interessa e ciò che non interessa. Mi piace pensare che chi viene da me lo fa perchè interessato e non perché non aveva altra scelta… si potrebbe obiettare che se non si è particolarmente conosciuti difficilmente possiamo essere avvicinati dai praticanti. Bene, ognuno è libero di promuoversi come preferisce. Oggi è innegabile che i social permettono di raggiungere un pubblico molto ampio. Io li uso al minimo, intervengo alle discussioni raramente, non pubblico video, non richiedo a sconosciuti di darmi “l’amicizia” su facebook… non sono io che devo cercare praticanti. La locandina di un seminario è sufficiente… se non basta me ne farò una ragione. L’autostima non mi manca.
Il problema, vero problema, è che ci si concentra troppo su coloro che già praticano e si ignorano tutti quelli che potrebbero scontrarsi con l’Aikido e che nemmeno sanno che sarebbe la disciplina l’ideale per loro… esiste un pubblico per la nostra disciplina, quello che manca è una strategia collettiva per raggiungerli.

CHIERCHINI
Hai avuto e continui a coltivare una forte presenza nel mondo delle discipline armate tradizionali. Ti ci vedi sul tatami di Aikido, oggi, allo stesso livello che hai conseguito, senza gli input ricevuti dallo studio dello Iaido e del Jodo?
DELLISANTI
Domanda giustissima e acuta! No sono certo di no. Intendiamoci nulla di ciò che ha costituito le mie scelte formative è indispensabile. Parlo a titolo personale ed è a questo titolo che dico che ciò che ho ricevuto da Iaido e Jodo è veramente molto.
Il più delle volte si è trattato di ascoltare la spiegazione di principi che erano perfettamente sovrapponibili tra loro. Questo conferma di essere, o meno, interni ad un percorso che ha in principi comuni le sue fondamenta. Le azioni tecniche possono essere, e sono, molto diverse ma si tratta di riconoscerne il terreno comune senza incorrere in quello che per me sarebbe un errore: la contaminazione nella sua accezione peggiore. Studiare diverse discipline non può essere la risposta ad una insoddisfazione per una di queste. Proporre di mescolare i contesti è pericoloso, è mancanza di fantasia, mancanza di ricerca. Se in una lezione di Aikido parlo di spada è per sottolineare un principio, una analogia o una differenza, far comprendere che il fine ultimo delle diverse attività rimane la comunicazione. Ma il francese è francese, l’inglese è l’inglese, e così via… mescolare le lingue può essere funzionale a crearne una nuova ma in quel caso bisognerebbe avere l’onestà di dirlo. Ma come il fatto di studiare il latino, o il greco, può fornirci strumenti per comprendere meglio il linguaggio moderno, così discipline affini possono arricchirci. Ho iniziato Iaido per esplorare l’oggetto nascosto (?) nell’immaginario dell’Aikido, la spada. Ho trovato risposte, le mie! Perché queste risposte siano trasmissibili bisogna avere le domande e capita di rado di sentirsele porre. Iniziare Iaido significava mettersi nei panni del principiante e questo mi piaceva. Poi con lo Iaido ho avuto modo di confrontarmi con il tabù delle competizioni… Inizialmente rifiutate e poi, una volta compreso che in realtà ne avevo paura, affrontate! Ora mi è più facile spiegare l’assenza di competizioni in Aikido.
Ho raggiunto, per esami, perché questi non mancano mai, il V Dan. Ho provato il sesto è ho fallito. Il sapore è amaro ma ho anche capito che non era ora…. Poiché lo Iaido lo interpreto come “il lavoro per entrare in relazione con il proprio profondo” verrà il momento di riprovarci, ma non ora, non sono ancora maturo!
Jodo: Qui le motivazioni sono legate alla possibilità di esplorare altre “Icone” dell’Aikido, Jo e Ken. Di nuovo la necessaria precisazione… nessun tentativo di mescolare linguaggi differenti. Anche qui la possibilità di trovare la similitudine dei principi, uno su tutti la ricerca dell’AIKI. E anche qui il tabù, affrontato, del mettersi in gioco nella competizione. Perché di questo si tratta: accettare di essere sconfitti senza alibi. E poiché pur essendo stato vicecampione europeo tre volte la realtà è che sono stato sconfitto. Ora non ho più necessità delle competizioni (la realtà e che non sono previste per i sesti Dan) e posso, anche in questo caso, preoccuparmi della restituzione!
L’Aikido le sue armi le coltiva da sé. Ed è originale anche in questo perché lo studio delle armi in Aikido non ha (o non dovrebbe avere) la pretesa di essere fine a se stesso ma piuttosto correlato al tai jutsu… e così mi piace praticarle.

CHIERCHINI
Come marzialista, ti consideri un conservatore o un innovatore? Dove ti posizioni nell’eterna diatriba tra tradizionalisti e sperimentatori?
DELLISANTI
Cos’è la tradizione? Tradizionale nel sistema giapponese (ma non solo) è che l’allievo superi il maestro… ma come fa a superarlo se non innova? Altrimenti sarebbe al massimo questione di abilità raggiunta che poco a vedere con tradizione e innovazione. Per me il discorso si esaurisce qui. Credo che la responsabilità di un alto grado sia quella di accollarsi la responsabilità di agire per rispondere alle domande dei tempi. Questo significa che qualunque scelta sia legittima? Non lo penso. Credo che ci sia bisogno di punti fermi. In questo senso la famiglia Ueshiba, nel suo ruolo, è il punto fermo che li vincola e che ci vincola. Credo che gli interventi del Dojo Cho durante la quarantena del covid siano stati magistrali! Due minuti in cui non accadeva nulla e per questo motivo ci si poteva rendere conto che accadeva tutto. Hai notato che nella litigiosa comunità dell’Aikido nessuno ha criticato questi interventi del Dojo Cho?
Voglio essere ottimista e pensare che tutti abbiano compreso che abbiamo visto l’essenza. Da lì si può partire, lì bisogna tornare! Tradizione e innovazione sono tutti interni a ciò che ci è stato regalato! Forse il messaggio di O Sensei tornerà ad essere attuale!
Quando lavoro nel mondo della scuola lo faccio all’interno di un progetto che coinvolge altre figure oltre la mia. Il progetto si sviluppa attorno alla mediazione dei conflitti. Coloro che lavorano con me sono Mediatori professionisti. Insieme abbiamo creato una sinergia accattivante di azione nel sociale… questo è il mio terreno di sperimentazione. Pensare e lavorare in team. È accaduto che persone inaspettate e in modo inaspettato hanno incontrato l’Aikido e ne sono rimaste colpite. Tanto basta per ora.

CHIERCHINI
Molti, troppi insegnanti di Aikido fanno solo Budo. A volte ci si chiede cosa davvero capiscano della realtà non marziale cui dovrebbero portare il marziale. Quali sono i tuoi interessi al di fuori del Budo? Come rimani attaccato al mondo che ti circonda senza lo schermo e la protezione di dojo, allievi e maestri?
DELLISANTI
Altra domanda molto stimolante. Non saprei dire se esiste o meno una dicotomia tra vita al di fuori del Budo e il tatami. Certo il dubbio del doversi porre la questione ci può essere. La sensazione, a volte, è che ci si sia fatti prendere la mano dalla messa in scena. Non do a questi termini (messa in scena) una connotazione negativa, anzi! La forza della nostra disciplina è la possibilità, se non necessità, di creare una messa in scena. Tutto ciò che accade sul tatami è il frutto della volontà di perseguire una relazione. Al di fuori di questo si va dalla lotta libera alla libera rissa. A volte sembra che la messa in scena prenda la mano e si sprecano parole su mondi (aikidoistici) fantastici.
O Sensei ha creato un sistema di difesa personale? O piuttosto ha tracciato un percorso che attraverso il sudore, le lacrime e aggiungiamoci il sangue, porti ad affrontare i conflitti? Non intendo il termine conflitto come negativo, ma come incontro. Lucrezio nel “De rerum natura” usa il termine “Conflixit” per indicare l’unione carnale di un uomo e una donna nel suo essere creativo! Unire, incontrare. Forma di intimità da cui non si esce né vinti né vincitori ma coglie l’ambivalenza della relazione.
Opto per la seconda interpretazione… o almeno per me è questa la scelta più naturale. Più che ai gesti di O Sensei guardo ad una possibile interpretazione del suo messaggio. Se questo ha un senso ecco che il pensare al quotidiano implica un agire. Non sono un esempio di virtù, per fortuna, ma torno al mio lavoro nel mondo della scuola e con i giovani. Di fronte ad una società che pare avvitata sul problema della sicurezza e del doversi difendere preferisco agire in modo anticiclico. Ai giovani parlo, parliamo, di come agire all’interno del conflitto: con il tenkan, l’irimitenkan, etc etc non per dissuadere ma piuttosto per prendere tempo, trovare un Ma Ai adatto, sentire il ritmo della relazione e andare verso questa! Certo esiste una inclinazione personale che indirizza i miei sforzi in questa direzione. Tutto questo è presente nei miei corsi adulti… senza forzature… ho, per l’appunto di fronte, persone adulte e consapevoli in grado di ascoltare e prendere ciò che serve. La cosa che mi fa un po’ sorridere è che tutto questo passa facilmente per una pratica all’acqua di rose dove mancherebbe il “RIAI”. Pazienza. Uno dei problemi della comunicazione interpersonale è il fatto che si giudica sulla base di poche e incomplete informazioni… da un dettaglio si pretenderebbe di ricostruire il generale da ciò che si dice o scrive dimenticando l’esperienza dell’incontro… e si viene giudicati senza appello. Ma il mio ego, enorme, non ne è particolarmente turbato. Altri ambiti dove porto me stesso sono stati a lungo coltivati. La fotografia è stata la mia professione ed è ancora capace di catturare la mia attenzione, la scienza e la storia sono da sempre luoghi dei miei interessi anche se non mi posso definire un profondo conoscitore dell’una e dell’altra. Lo sport attivo… pattinare, lo sci di fondo sono le cose che ancora oggi mi posso concedere senza correre rischi. Ultimi ma non realmente tali gli amici, selezionati, e la famiglia. Devo dire che il dojo, gli allievi, l’insegnare ho cercato, riuscendoci, di tenerli confinati a tempi e spazi precisi. Sono decisamente orso e tengo alla mia privacy.

CHIERCHINI
Il tuo cammino a livello organizzativo è stato alquanto tortuoso. Quanto ti ha aiutato l’aver sperimentato la partecipazione a diversi enti sportivi nel momento di concepire il ProgettoAiki?
DELLISANTI
Non so se lo definirei tortuoso. Inizio il mio cammino in federazione e solo dopo l’incontro con il Maestro Tissier, e dal momento che viene invitato in Italia per dare una continuità alla sua proposta didattica, aderisco a quella che si chiamava Lam Uisp e poi ADO Uisp. Fui coinvolto nella dirigenza del settore e ne fui per, discreto tempo, responsabile della formazione insegnanti. Tutto questo aveva il sapore e la sostanza di un pionierismo che si nutriva di “vero” entusiasmo. La storia del mondo Aikidoistico al di fuori dell’Aikikai d’Italia è complessa e meriterebbe un volume intero. Cercando di stringere diciamo che in Uisp forze relativamente giovani avevano avuto modo di fare esperienza nella gestione di un gruppo se non grande almeno molto significativo a livello nazionale. L’ADO Uisp, nella figura del suo presidente, in questo ha mostrato coraggio, concedendo fiducia a persone normali e si deve dire che anche l’accoglienza del corpo insegnante fu estremamente favorevole. La scuola quadri è stato il punto di forza di quegli anni capace di raccogliere interesse sulla base del rapporto sempre più solido con il Maestro Tissier. Tutto bene? Quasi. La formazione insegnanti perse di slancio e visto che ne ero il responsabile probabilmente devo darmi delle colpe. Chi ne fruiva cominciò a manifestare qualche insofferenza in primo luogo legata all’obbligatorietà della stessa e alle inevitabili difficoltà relazionali. A causa di questo clima diedi le mie dimissioni in quanto ritenevo conclusa quella specifica esperienza. A questo punto penso che ognuno degli attori abbia le sue convinzioni per come la cosa si è poi sviluppata, ma il succo è che nel 2008 ci si divise e decidemmo di fondare ProgettoAiki. Punto fermo di questa organizzazione e che il legante doveva essere il piacere di praticare senza particolari obblighi, se non quelli di una organizzazione che applicasse lo statuto e il regolamento. Una assemblea nazionale annuale che legittimasse l’azione tecnica ma nessuna commissione tecnica o peggio che mai un direttore tecnico. Una rivoluzione. Che l’idea non fosse peregrina lo dimostrano gli attuali numeri e il fatto che si proceda ancora compatti e, in linea di massima, conservando i valori degli esordi. Un paio di difetti ProgettoAiki li aveva e li ha ancora. Primo fra tutti e che i tempi non erano maturi… eravamo troppo avanti. Dall’esterno nessuno credeva che potesse esistere una realtà che non vedesse a suo capo un direttore tecnico quindi nessuno, per lungo tempo, vi si è avvicinato temendo di ritrovarselo appiccicato addosso. Secondo difetto quello dell’identità troppo generica che ci ha fatto percepire come una organizzazione ombrello privo di un progetto comune di formazione tecnica. Ad oggi siamo sempre senza un direttore tecnico ma con tanti tecnici validissimi e sempre con il problema di dover giustificare la mancanza di un progetto comune di formazione tecnica. Di fatto siamo la cosa che assomiglia di più all’Hombu Dojo dove la pluralità del fare coesiste. Noi siamo così!
Credo che ci vengano fatte anche altre accuse. Tipo quella di aver consentito l’abbassamento del livello generale della qualità dei praticanti italiani! Troppo onore e troppa importanza. Può darsi che costoro non siano mai usciti dal nostro paese poiché è sufficiente frequentare qualche tatami nel mondo per vedere che, a meno che non si sia stati capaci di influenzare l’intero pianeta, il livello tecnico è omogeneo ovunque, con vette e pianure (non dico volutamente profondità).
L’aver avuto il riconoscimento da parte dell’Aikikai di Tokyo è l’attuale condizione… e da lì altre azioni ci aspettano.

CHIERCHINI
L’Aikido oggi sembra star man mano finendo fuori moda. Dojo poco frequentati dai giovani, livello fisico-sportivo in netto calo, tecnica qua e là traballante. Cosa sta succedendo? Perché sta succedendo? E soprattutto: esiste un modo per uscirne?
DELLISANTI
Che sia fuori moda è indubbio. Una parte di responsabilità dobbiamo assumercela come movimento nazionale (anche se la crisi è mondiale). Il problema principale, a mio parere, è che siamo invischiati nell’ideologia delle crociate. Una disciplina dal sapore e genesi politeista viene vissuta in occidente come indispensabilmente monoteista. Dunque, invece di parlare di differenze che all’Hombu Dojo sono palesate ad ogni ora del giorno, si preferisce, appunto, la guerra di religione. Non mi dilungo… non è necessario.
Poi come detto precedentemente siamo fuori dalla evoluzione storica della società. Tutti (sarà vero?) cercano l’efficacia per difendersi in una società sporca e cattiva. Noi abbiamo un prodotto (mi si perdoni la blasfemia) che si vergogna di avere dei valori che ho definito anticiclici! I giovani o li intercetti nella scuola o se arrivano all’Aikido a trent’anni hanno una condizione fisica che modifica la pratica. Per intercettare giovani nel mondo della scuola servono professionisti… altra blasfemia. Il livello fisico-sportivo è conseguenza dell’innalzarsi dell’età media. La disciplina si modifica con il modificarsi dello stato di salute dei suoi praticanti.
Non sono certo che si possa parlare della tecnica come “traballante”… credo piuttosto che i numeri dei praticanti di qualità medio alta siano costanti da sempre… Quando si dice che l’Aikido non è per tutti si dice, a mio vedere, una cosa giusta e una cosa sbagliata. La cosa giusta e che esisterà sempre una élite di praticanti che per impegno e risultati personali si distinguerà. La cosa sbagliata è che non è sufficiente abbassare i numeri per avere più qualità. A parte l’aleatorietà del termine qualità, è solo allargando il bacino di possibili utenti che verranno intercettati pretendenti all’élite.
Come se ne esce? Beh intanto bisognerebbe cominciare a fare lobbying e smetterla di coltivare un sogno monoteista dove ci sono più nemici che amici. Chi osserva dall’esterno la nostra disciplina vede video dove tutti fanno la stessa cosa (perché bisogna essere consapevoli che è così che viene percepita) e poi discussioni dove la pretesa di armonia si frantuma in diatribe senza limiti e che possono arrivare all’insulto gratuito.
Poi bisognerebbe smettere di pensare che il bacino dei possibili praticanti sia quello dell’esistente e che, dunque, si tratta di “catturare” i praticanti dei “cattivi insegnanti” illuminando, i poveri tapini, sulla strada di Damasco dell’unico, vero, Aikido.
Ritengo, piuttosto, che Il bacino dei possibili praticanti del futuro più o meno prossimo è formato da persone che sono oggi ben lontane dall’immaginare che esiste una attività che potrebbe essere loro congeniale per valori, proposte, profondità e sacrifici richiesti. Possono essere giovani che rifiutano i valori del competere a tutti i costi, genitori che desiderano un linguaggio nuovo per confrontarsi con i propri figli, adulti che credono esistano modi differenti per contribuire positivamente nella società. Tantissime le donne che anche a livello fisico vedano prevalere competenze e capacità piuttosto che la forza… insomma, tanto lavoro. Se si preferisce galleggiare si finisce per annegare. Per questo motivo servirebbe una mentalità che crei attenzione verso gli aspetti più profondi della disciplina. Ma scommetto che alcuni penseranno che questa è filosofia di serie b e che di chiacchere ce ne sono già fin troppe…. Li aspetto sul tatami, c’è sufficiente spazio per cadere.
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