
Il numero 3 ha una notevole valenza simbolica e la sua presenza è ricorrente in diversi aspetti dell’Aikido, tanto in quelli pratici e didattici che in quelli più “sottili”. Proviamo a fermarci su alcuni di questi, e non possiamo non ricordare che per il Fondatore le tecniche ed i principi dell’Aikido potevano essere rappresentate da quelle che lui definiva come “tre forme sacre”, ovvero il cerchio, il quadrato ed il triangolo
di CARLO CAPRINO
“Il fatto di non avere conflitti quando ci si trova con gli amici, dal principio alla fine, dipende dal saper vedere i princìpi di una relazione, ed anche questa è un’arte marziale della mente. […]
Saper disporre gli oggetti nella tua casa dipende dal saper mettere ogni cosa al posto giusto, ed anche questo è collegato al saper osservare i princìpi di tali posti. Tutto ciò non è dissimile dall’essenza delle arti marziali. Davvero si può cambiare l’arena ma il principio rimane lo stesso, e lo si può addirittura applicare agli affari nazionali senza commettere errori. Sbaglieresti obbiettivo se pensassi che l’arte marziale consiste solamente nell’abbattere un uomo”. [1]
Premessa
Come è noto anche a chi si sia interessato anche solo superficialmente all’Aikido, questa Arte marziale ha radici spirituali tanto profonde quanto lo sono quelle che la legano alle antiche Scuole guerriere del Giappone feudale. La straordinaria intuizione di Ueshiba Morihei fu quella di immaginare prima e realizzare poi una disciplina che unisse la tradizione del passato con un progetto per il futuro, una Arte marziale efficace con un percorso spirituale che consentisse al praticante di affrontare e vincere l’avversario più subdolo e pericoloso: sé stesso.
Su questo aspetto dell’Arte molto è stato scritto e detto, e sarebbe davvero presuntuoso credere di poter aggiungere qualcosa di nuovo o originale su un argomento peraltro così vasto e particolare. A suscitare però le riflessioni che hanno originato poi le righe che seguono sono state alcune indicazioni fornite da Paolo Corallini Shihan nel corso di un seminario diretto a Ostia nello scorso febbraio, indicazioni (apparentemente) semplici e non nuove, ma che – come già accaduto altre volte in passato – sono evidentemente arrivate nel modo e nel momento più opportuno.
Come già evidenziato per altri scritti precedenti, è opportuno precisare che quanto segue è esclusivamente il frutto di una riflessione personale e non riveste quindi alcun carattere di “universalità”, né tantomeno è da considerarsi la posizione ufficiale o la “interpretazione autentica” di qualsivoglia didattica.

Aikido, uno e trino
Il numero 3 ha una notevole valenza simbolica e la sua presenza è ricorrente in diversi aspetti dell’Aikido [2], tanto in quelli pratici e didattici che in quelli più “sottili”. Proviamo a fermarci su alcuni di questi, e non possiamo non ricordare che per il Fondatore le tecniche ed i principi dell’Aikido potevano essere rappresentate da quelle che lui definiva come “tre forme sacre”, ovvero il cerchio, il quadrato ed il triangolo. Ancora, possiamo notare come il tre ricorra in almeno due dei più noti kuden (insegnamento orale) di Ueshiba Morihei, entrambi – sia pure sotto diversi aspetti – illuminanti in merito alla progressione didattica e tecnica (ma non solo…) dell’Aikidoka, ovvero: “Ki no nagare wa sandan kara” (letteralmente: “Il ki no nagare inizia dopo il terzo dan”) e “Ikkyo issho iriminage san nen” (letteralmente: “Ikkyo una vita, iriminage tre anni”). [3]
Il Takemusu Aikido diffuso ed insegnato da Saito Morihiro Shihan – che del Fondatore dell’Aikido fu fedele allievo per oltre vent’anni vissuti ogni giorno al suo fianco – basa la sua didattica su tecniche a mani nude (Tai jutsu) e tecniche armate (Buki waza), eseguite con l’impiego di un bastone (jo) o il simulacro di una spada (bokken), particolarità espressa nel motto “Tai jutsu jo ken onaji desu” (“Le tecniche a mani nude e quelle con il bastone e la spada sono la stessa cosa”) che evidenzia che alla base di tecniche espresse in maniera differente vi sono gli stessi principi, tanto che nei Dojo di Takemusu Aikido si ricorda che “Ken (spada) Tai (corpo) Jo (bastone) no Riai (Ri: principio assoluto, Ai: unione, armonia)”, intendendo con questa frase che tutte le tecniche con la spada il bastone ed a mani nude devono basarsi su un unico principio, in base al quale spesso si ammoniscono i praticanti a “praticare a mani nude come se impugnassero un’arma e praticare con le armi come se fossero a mani nude”.
Troviamo un ennesimo triplice aspetto dell’Aikido in una altra nota affermazione: “Shin Gi Tai Ichi” (letteralmente “cuore/mente/spirito [4], tecnica e corpo devono essere una cosa sola”). Così come nel caso di una didattica basata su tecniche a mani nude, spada e bastone, anche in questo caso abbiamo parti diverse, nessuna delle quali può essere esclusa senza andare a scapito delle altre. Solo una armonica e sufficiente presenza delle tre componenti può dare vita ad una pratica degna dell’Arte di cui utilizza il nome.

Una classificazione abbastanza nota indica la progressione del Takemusu Aikido secondo quattro livelli, che partono dal “Go-tai” (corpo rigido) e passano poi attraverso il “Ju-tai” (corpo flessibile), “Ryu-tai” (corpo fluido) e “Ki-tai” (corpo spirituale) [5], meno noto è forse il progresso che secondo il Fondatore dell’Aikido doveva compiere spontaneamente il praticante, che dovrebbe passare in maniera spontanea dal “Bujutsu” (tecniche marziali) al “Budo” (Via marziale) sino al “Bushin” (sacramento marziale della divina trasformazione), come evidenzia John Stevens nel volume “L’Essenza dell’Aikido – Gli insegnamenti spirituali del Maestro” da lui curato. Anche in questo caso tre livelli, tre stadi di evoluzione, tre condizioni di stato.
Una triplicità che ricorre spesso quindi, tanto spesso che è quasi d’obbligo chiedersi se tra queste terne vi possa essere un qualche collegamento [6], una “curiosità” rinfocolata da una osservazione di Paolo Corallini Shihan durante la pratica dello Aiki-ken nel seminario diretto a Ostia, durante il quale ha ricordato come Saito Morihiro Shihan si riferisse spesso al “kokoro no tachi” evidenziando che la sezione del bokken utilizzato in Aikido assomiglia a quella di un cuore e che le parate effettuate durante la pratica del Kumi-tachi vanno effettuate – a seconda dei casi – con il lato destro o con il lato sinistro del cuore della spada.
La Spada come un Cuore, quindi… e il bastone, ed il corpo fisico? Proviamo a sviluppare qualche riflessione in proposito.
La Spada del Cuore, il Cuore della Spada
Partiamo da qui, e non solo per il suggerimento prima raccontato, ma perché il rapporto tra Spada e Cuore è quello forse più evidente e sfruttato. Nel parlare di Cuore, in questo caso, partiamo da una analogia di forma con il muscolo cardiaco ma ci riferiamo alle qualità che al Cuore si associano: coraggio, pietà, empatia; in altri termini, il complesso delle emozioni che l’Uomo può provare nella sua quotidianità. Sono tante le leggende che raccontano di Spade capaci di assumere le qualità di chi le avesse forgiate o utilizzate, e valga per tutti l’esempio di Senzo Muramasa, uno spadaio giapponese – vissuto nella prima metà del 1300 – con un carattere irascibile ed al limite della follia che si diceva trasmetteva alle lame da lui forgiate, tanto che le sue spade erano ritenute “assetate di sangue” e con la capacità di indurre chi le maneggiasse all’omicidio o al suicidio.

Per rimanere più vicini ai nostri luoghi, possiamo invece ricordare i “coltelli d’amore”, lame spesso riccamente intarsiate che un paio di secoli fa costituivano veri e propri pegni di fidanzamento, spesso arricchiti di frasi evocative per esaltare le doti virili se la lama era destinata all’uomo, tra cui la più nota è “Non ti fidar di me, se il cuor ti manca”. La Spada quindi come espressione delle caratteristiche emotive dell’uomo, di quelle qualità che portate ad un estremo o all’altro, all’eccesso o alla insufficienza diventano difetti, le “armi” che l’Uomo può usare per vincere o da cui può essere sconfitto dal suo peggior nemico: Sé stesso.
“Adesso pregheremo. Pregheremo per l’unica cosa che sconfigge un pellegrino quando trova la propria spada: i Vizi Personali. Per quanto egli apprenda dai Grandi Maestri a maneggiare la lama, il suo peggior nemico sarà sempre una delle sue mani. Pregheremo perché, qualora tu riesca a trovare la tua spada, la impugni sempre con la mano che non ti tradisce.”
(Paulo Coelho, “Il Cammino di Santiago”)
La Spada – nelle sue varie forme e nei diversi materiali (dal preistorico bronzo all’acciaio più moderno) in cui è realizzata – è da sempre il simbolo stesso del Guerriero, prova ne sia che anche se l’arma da fuoco è da secoli padrona incontrastata dei campi di battaglia, al fianco della divisa di gala degli ufficiali quest’arma ancora oggi non manca mai. Per la sua caratteristica di oggetto in grado di dare la morte, questa arma ha sempre avuto un simbolismo particolare; è con un colpo di spada che l’ordinazione di un Cavaliere veniva sancita, è con la spada in mano che viene rappresentata la Giustizia [7]. Quasi per proprietà transitiva, chi volesse impugnare un simile oggetto non può non incarnarne in sé le sue peculiari qualità: a colui che voglia armare la sua mano è richiesto di essere retto come la sua lama, freddo come il suo acciaio, resistente a tutto come la sua tempra, come testimonia questo estratto da un codice cavalleresco del XI° secolo:
“Un Cavaliere è devoto al valore, il suo cuore conosce solo la virtù.
La sua spada difende i bisognosi, la sua forza sostiene i deboli.
Le sue parole dicono solo verità, la sua ira si abbatte sui malvagi.”

La Spada è fedele compagna dell’Eroe che compie imprese sovraumane, assurgendo quasi ad un piano divino: accade in Scandinavia a Sigfrido, che con la sua Gramr (oppure Balmung) uccide il drago Fafnir e conquista l’immortalità; accade in Giappone ad Haya Susanoo, figlio degli Dei creatori del Giappone, che dopo aver ucciso un drago che terrorizzava la regione di Izumo dove era stato esiliato, scoprì all’interno della coda del mostro la grande spada Tsumugari (lett. “la ben affilata”) che divenne uno dei tre simboli del potere imperiale nipponico. La stessa spada sarà usata secoli dopo dal principe Yamato Takeru per falciare le erbe della prateria a cui i suoi nemici avevano dato fuoco dopo averlo attirato in trappola (altre versioni raccontano che la spada agì magicamente da sola) creandosi rapidamente un varco che lo portò in salvo, episodio che fece rinominare la spada come Kusanagi no Tsurugi (traducibile come: “La Spada falciatrice d’erba”). [8]
Quale complemento e compagna del Guerriero e del Re la spada divenne simbolo della Giustizia a cui questi dovevano ispirarsi nelle proprie azioni e nel vivere le proprie emozioni senza farsi dominare da queste; ad esempio, la Spada doveva essere sguainata solo per un valido motivo mostrando il coraggio delle proprie azioni; diversamente vi sarebbe stata codardia (un difetto di coraggio) o imprudenza (un eccesso di coraggio), un “giusto mezzo” che ritroviamo ancora oggi in molte statue ed immagini in cui è con la Spada in una mano e con la Bilancia nell’altra che la Giustizia viene rappresentata. Una Giustizia che separa il retto dall’errato, che divide il giusto dallo sbagliato [9], ed ecco che assume un senso l’etimologia del verbo “decidere”, che nella sua radice latina significa proprio “tagliar via”, come esemplarmente rappresentato dall’episodio di Alessandro Magno, che con un secco colpo di spada recise l’intricato nodo di Gordio [10].
Tornando all’Aikido, la Spada – nel suo più profondo significato simbolico – è presente in diversi doka con cui Ueshiba Morihei con cui trasmetteva i suoi insegnamenti [11], alcuni dei quali riportiamo di seguito.
Non ha bisogno
chi ha trovato la luce
in ogni cosa
di sguainare la spada
incauto e senza causa.
Salda e veloce
ha animato il cosmo
d’Aiki la Spada.
Sapienza e Budo l’arma
Del Progetto Divino.
Veglia il Cammino
degli Dèi e dei Buddha
in questo mondo:
le tecniche dell’Aiki
leggi di Kusanagi [12].
Lo Spirito del Bastone
Spada e Bastone hanno valenza, scopi e modalità di impiego diverse, e sebbene abbiano – nell’Aikido – diversi punti in comune, sarebbe a dir poco inopportuno considerarli intercambiabili. Nel lavoro citato in una nota precedente definivo il Bastone come proprio del Sacerdote e la Spada come propria del Guerriero; questa “divisione di ruoli” (pur con tutti – è bene ribadirlo – gli innegabili punti di contatto tra le due armi) è chiaramente espressa da O’Sensei Ueshiba Morihei, che usava quasi sempre il jo durante le pratiche di purificazione con dei movimenti spiraliformi su un asse verticale che possiamo immaginare come una rappresentazione di una comunicazione (bidirezionale?) tra il terreno ed il Divino [14], una immagine che si rifà all’evidente constatazione che in numerosissime società di tutti i tempi il Bastone – nelle sue varie fogge – era il simbolo e l’attributo del Sacerdote, ovvero di chi aveva il potere di “entrare in contatto” con l’Anima degli uomini e quella del Mondo creato. Rimanendo ancora sul carattere “spirituale” (le virgolette sono d’obbligo…) del Bastone, possiamo ancora ricordare come questo – essendo in legno, richiama gli “alberi sacri” presenti in molte religioni, da quelli dell’Eden cristiano al frassino Yggdrasill, le cui radici – secondo la mitologia norrena – sprofondano sin nel regno infero mentre i suoi rami sostengono l’intera volta celeste, albero a cui a cui il dio nordico Odino rimase appeso per nove giorni per apprendere l’arte delle Rune e della divinazione. [15]
Ancora, due delle guardie più comuni impiegate nella pratica dello Aiki-jo, ovvero la jodan no kamae e la tsuki no kamae vedono il bastone rispettivamente verticale ed orizzontale, sostanzialmente sovrapposto ai due assi di equilibrio del praticante che lo impugna. Sovrapponendo l’immagine di queste due guardie e prolungando le linee tracciate dal jo nelle due posizioni otterremo una croce, il cui significato simbolico riteniamo non necessiti di molte parole per essere evidenziato, poiché già molto è stato detto, anche al di fuori di un ottica strettamente cattolica [16].
In conclusione, ad indicare che – per certi aspetti – la pratica con il bastone comporta un livello di consapevolezza superiore rispetto a quella della spada [17] (non fosse altro che per la capacità di usare come arma ciò che arma non è…), notiamo che nella progressione dei programmi di esame di Buki waza del Takemusu Aikido [18] le tecniche eseguite in coppia con il ken precedono quelle eseguite con il jo, quasi a significare che per poter utilizzare in maniera appropriata il Bastone bisogna prima saper usare la Spada. I primi due passaggi di grado comprendono infatti esercizi e sequenze da eseguirsi individualmente ed i primi esercizi in coppia con la spada [19]. Ancora spada in coppia per il terzo Dan, poi bastone in coppia per il quarto Dan ed infine, nel quinto ed ultimo Dan, ancora bastone in coppia e poi i tre Ken Tai Jo no Awase in cui il praticante che utilizza il bastone controlla e neutralizza l’attacco del compagno armato di spada dimostrando che – come indica il nome della serie – la spada, il corpo ed il bastone sono in armonia tra loro. [20]
Il Corpo, ovvero il Principio, i Principi, la Fine ed il Fine
In parallelo al lavoro con le armi sviluppato con le buki waza, nel Takemusu Aikido si procede con lo studio delle tecniche di Tai jutsu eseguite a mani nude. E’ bene a questo punto ribadire che lo studio delle tecniche armate nel Takemusu Aikido ha un valore eminentemente didattico; all’occhio di un esperto spadaccino o secondo il giudizio di un praticante di scherma di bastone, alcune posture, guardie, caricamenti e attacchi potrebbero sembrare inefficaci o inopportuni ma questo perché le tecniche e gli esercizi compresi nei programmi di base hanno lo scopo di sviluppare nel praticante altre qualità oltre quelle dell’utilizzo pratico del bastone o della spada: la gestione dello Spazio e del Tempo, la “armonizzazione” [21] con il partner, lo sviluppo di una capacità di percezione ampliata sono solo alcune di queste. Sono qualità che si sviluppano anche (ma non solo…) con la pratica delle tecniche armate ma si possono (anzi, si devono!) impiegare anche al di fuori della pratica in armi, una situazione esemplarmente descritta da Elèmire Zolla [22]:
“L’alunno dell’aikido picchierà un ceppo con un bastone. Quindi col bastone colpirà un ceppo immaginario, fino a farlo come se il ceppo ci fosse. Quindi egli calerà i fendenti con un bastone immaginario. Imparerà infine a sentirsi, a proiettarsi sulla punta del bastone, e del bastone immaginario. Il suo equilibrio saprà reggersi a sostegni immaginari e sempre poggerà sul baricentro del corpo”. Ebbene, come dei bastoni di legno, colui che si trova sulla via della realizzazione spirituale può fare a meno di molte categorie utilizzate nella vita d’ogni giorno, “sostituendole con la nuda fede nel significato del proprio destino ovvero nella provvidenza. Non è da tutti, come non da tutti è trascendere la comune scherma e la comune lotta per forme basate sull’arte dell’equilibrio e sul dominio della fantasia. Certamente non è cosa accessibile a colui la cui mente, invece di star ferma all’assunto, corra a domandarsi se egli debba comportarsi socialmente in uno o altro modo per meritare il plauso o un’onorevole menzione“.
Con il solo corpo si comincia e con il solo corpo si finisce, la partenza e l’arrivo coincidono come in un uroboro dove “Comune nel cerchio è il principio e la fine” [23] e potremmo chiosare citando Francesco Brunelli [24] quando ricorda che “il mago comincia il suo lavoro senza alcuno strumento e finisce l’opera senza strumenti alcuni” [25] e che questo concetto non sia solo l’effetto di un esagerato volo di fantasia lo conferma lo stesso Fondatore dell’Aikido, stando a quanto affermato nella prefazione ad una edizione dei doka di Ueshiba Morihei dove si legge:
“Chi pratica l’Aikido non deve mai dimenticare che l’insegnamento va forgiato sul proprio corpo. Tenete sempre a mente il Divino atto della creazione, dall’inizio alla fine e imparate incessantemente dagli Dèi. Fate che l’intero universo sia il vostro Dojo. Questo è il grande significato del Budo.”
Conclusioni
Come evidenziato al principio di queste riflessioni, non mi sfiora neppure l’idea di aver scritto qualcosa di particolarmente nuovo o originale e neppure di aver svelato chissà quale “segreto iniziatico”; piuttosto lo scopo è – come in precedenti occasioni – quello di condividere riflessioni personali cercando un confronto ed uno scambio con chi percorre la stessa Via.
Come sempre, anche in questo scritto di mio posso rivendicare solo errori ed imprecisioni, mentre quanto c’è di buono ed interessante è frutto degli insegnamenti e degli stimoli dei Maestri che hanno voluto fornirmi consigli e suggerimenti di studio, primo tra tutti Paolo N. Corallini shihan, a cui va, ancora una volta, il mio devoto ringraziamento.
Copyright Carlo Caprino ©2016
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Il presente articolo è stato pubblicato su Aikido Italia Network grazie alla cortese autorizzazione dell’autore
Note
[1] Yagyu Munenori, “La spada che dà la vita. Gli insegnamenti segreti della Casa dello Shogun”, traduttori: Wilson S. W., Amarillis Rossi M., Luni Editrice
[2] Questo aspetto dell’Arte è stato affrontato in “Simboli e Aikido” del febbraio – marzo 2005, a cui si rimanda per maggiori approfondimenti.
[3] Come è facile intuire, l’essenziale brevità di queste frasi non ne consente una interpretazione univoca, ma anzi suggerisce interpretazioni diverse in base alla attitudine ed alla esperienza di chi le legge. Per questo motivo ho scelto di presentarle nella loro traduzione letterale, lasciando a ciascuno la possibilità di “leggerle” senza pregiudizi.
[4] La traduzione del termine giapponese “Shin” è particolarmente impegnativa, perché con questo termine viene espresso un concetto notevolmente ampio che non ha un esatto ed univoco corrispondente nelle lingue occidentali. Se ne rende una idea citando tre (guarda caso…) termini che in qualche modo esprimono ciascuno un aspetto, ovvero “cuore” inteso come sede delle emozioni, “mente” intesa come funzione logico-razionale e “spirito”. Torneremo più in dettaglio su questo aspetto, qui basti dire con shin non si indica l’organo fisico (cervello e muscolo cardiaco) quanto piuttosto il complesso dei loro effetti, che – per certi aspetti – sono tra le caratteristiche peculiari dell’animale Uomo. In ogni atto umano “mente” e “cuore” non opereranno mai a “compartimenti stagni” ma si influenzeranno vicendevolmente, e quindi, un atto che miri a separare (fisicamente o simbolicamente) la Mente dal Cuore tende, in ultima analisi, ad eliminare l’Uomo in quanto tale. Per una analisi più approfondita di questo (come di molti altri) carattere ideogrammatico, si veda “Lo spirito delle Arti Marziali” di Dave Lowry, Oscar Mondadori.
[5] E’ appena il caso di evidenziare che questi quattro livelli non hanno tra loro divisioni nette e definite, così come non vanno intesi solo come caratteristiche di prestazione fisica, ma esprimono invece una attitudine più ampia dell’Aikidoka, anche in questo caso con significativi riferimenti simbolici. Si veda in proposito: C. Caprino, “I livelli della pratica” ottobre 2004.
[6] E’ opportuno ribadire ancora una volta che se quanto riportato sino a questo punto sono affermazioni e citazioni generalmente condivise, quanto segue è frutto di riflessioni personali dai contenuti opinabili. Chi scrive è tutt’altro che certo di avere in tasca Verità univoche ed ha invece ben chiaro il concetto che “quando si conosce la risposta è più facile fare la domanda”, esemplarmente espresso da Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault” in cui illustra alcune intriganti corrispondenze numeriche partendo dalle dimensioni di un chiosco per la vendita di biglietti della lotteria.
[7] Questa ed altre affermazioni sono state riprese da “La pratica del buki waza come strumento di riflessione”, Ottobre 2007, a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.
[8] Per maggiori particolari si può consultare, la voce “Kusanagi-no-Tsurugi” nella sezione “Mitologia Giapponese sul sito internet http://www.esonet.org alla URL www.esonet.org/Miti/Dettaglio.aspx?codice=6481&sezione=10
[9] Anche in questa specifica interpretazione, gli esempi non mancano; per limitarci a quelli rintracciabili nel Nuovo Testamento, possiamo citare San Paolo, che in qualche modo rappresenta un “ponte” tra Oriente ed Occidente: “prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio” (Ef 6,17); “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Ebr 4,12-13)
[10] “Si raccontava questo del carro (di Gordio): chi avesse sciolto il nodo del suo giogo avrebbe avuto il dominio dell’Asia. Il nodo era di corteccia di corniolo e non se ne vedeva l’inizio né la fine. Poiché Alessandro era in difficoltà nel scioglierlo […], lo recise con un colpo di spada”. Arriano, Anabasi, II, 3, 6-8, (I-II sec. d.C.)
[11] I “Doka” (Lett. “canti del cammino”) sono dei poemi dal profondo significato spirituale, composti secondo uno schema metrico proprio dei versi tradizionali giapponesi e recitati secondo un particolare ritmo, da cui la definizione di “canti”. I doka sono mezzi con cui gli insegnamenti di un Maestro vengono trasmessi agli allievi; si dice che i doka abbiano almeno dodici livelli di comprensione, in funzione del livello di conoscenza e preparazione tecnica, morale e spirituale di chi li legge, cosa che quindi ne rende particolarmente difficile sia la traduzione che, soprattutto, il commento.
[12] “Kusanagi” si riferisce al kusanagi-no-tsurugi, la già citata “Spada che fende l’erba”
[13] In occasione delle cerimonie, Ueshiba Morihei usava lo harai-gushi, un bastone sacro adorno di strisce di carta, per praticare il misogi e creare un ambiente puro, fresco, onesto e vero.
[14] A conferma di quanto Spada e Bastone siano complementari e condividano molti principi, citiamo qui uno dei più famosi kuden del Fondatore dell’Aikido, che afferma: “Ken ga ten wo sasu uchu kara ki ga ken no naka ni hairimasu ato de hikari de terasu, ovvero “il ken crea un buco nell’universo, allora il ki dell’universo pervade il ken e lo rende luminoso e veloce, rapido come un fulmine”. Si riferisce alla esecuzione di san no suburi, ovvero al terzo suburi con la spada.
[15] L’immagine del Dio nordico sospeso ad un albero richiama alla memoria la figura de “L’appeso” dei Tarocchi di Marsiglia; a qualche Aikidoka appassionato di storia potrà invece ricordare l’aneddoto che racconta di quando Ueshiba Morihei si appese per diversi giorni ad un albero con dei grossi pesi ai piedi per stirare la sua colonna vertebrale e guadagnare i centimetri necessari per raggiungere l’altezza minima per essere arruolato nell’esercito imperiale, dopo essere stato riformato alla prima visita di leva.
[16] Si veda, ad esempio, “Il simbolismo della croce” di René Guénon, Adelphi edizioni
[17] Lo ribadiamo a costo di apparire pedanti e noiosi, nella pratica del Takemusu Aikido, jo e ken hanno uguale importanza e rivestono pari importanza didattica e pertanto errata e fuorviante sarebbe qualsiasi graduatoria o classifica tra loro.
[18] Ricordiamo che nel Takemusu Aikido di Saito Morihiro Shihan, i diplomi concessi nelle tecniche con le armi erano delle “licenze di insegnamento”, ovvero attestavano che il possessore possedeva le qualifiche necessarie e sufficienti per insegnare le tecniche stesse. Non solo un grado che attestava la perizia pratica quindi, ma anche una conferma della capacità didattica (e non solo…).
[19] E’ bene qui ricordare ed evidenziare che nella pratica delle buki waza – forse ancor più che nelle tecniche a mani nude – viene eseguito quello che ad occhi profani appare come un combattimento più o meno ritualizzato che ha però soprattutto lo scopo di consentire ai praticanti di trovare il giusto awase tra loro. “Awase” – come già evidenziato riferendoci ad altre parole giapponesi, è difficilmente traducibile con un unico termine, e lo si può intendere come “armonia, sincronia, concordia, unione profonda”. In altri termini, quello che ad occhi inesperti appare uno scontro è in realtà la costruzione di un incontro. Ad ulteriore conferma che lo scopo di questi esercizi non è primeggiare sul partner, si nota che – come avviene anche in molte altre Scuole marziali tradizionali nipponiche – ad interpretare il ruolo di colui che “perde” lo scontro è quasi sempre il partner più esperto, che in realtà “guida” il compagno nella esecuzione dell’esercizio, dosando tempi, spazi ed intensità della esecuzone.
[20] Una raffigurazione grafica di questa progressione didattica, che veda incolonnate da un lato su una colonna le tecniche di jo e su un’altra le tecniche di ken ed al centro i livelli iniziale e finale che comprendono l’impiego di entrambe darebbe come risultato un poligono con una forma simile a quella dell’albero della vita, ben noto a chi si interessa di Cabala. Al punto più basso, corrispondente a Malkuth, avremmo il mudansha che non ha ancora sostenuto esami di graduazione nelle buki waza, subito sopra, al centro inferiore ci sarebbe Yesod, ovvero lo yudansha che ha conseguito lo shodan buki waza con tecniche di jo e ken. Poi le due colonne laterali, quella della Giustizia, dove potremmo disporre le tecniche di Spada, e quella della Misericordia, dove invece riportare quelle di Bastone; infine, sulla sommità dell’asse mediano, li dove le due colonne laterali convergono al centro verso Keter, le tecniche del Ken Tai Jo no Awase comprese nel programma tecnico del Godan buki waza, ultimo grado per cui è previsto un esame tecnico.
[21] Non a caso, nella nomenclatura delle serie di buki waza da eseguire in coppia, il termine “awase” ricorre spesso.
[22] In “Verità segrete esposte in evidenza” di Elèmire Zolla – Marsilio Editori 1990
[23]“Frammenti”, Eraclito
[24] “L’Iter Operativo Martinista” di Francesco Brunelli, disponibile alla URL http://www.fuocosacro.com/pagine/maestri/ ITEROPERATIVO.htm
[25] Il termine “mago” qui impiegato non si riferisce – ovviamente – ad una persona particolarmente versata nei giochi di prestigio, ma a chi – specie nel mondo antico – fosse esperto di scienze, non solo occulte. Esempio tra i più noti è quello dei tre Re Magi protagonisti dei presepi natalizi. L’etimologia del termine suggerisce tanto l’idea di “grande” che quello di “purificare”. Al mago possiamo associare il “Magister”, ovvero colui che ha raggiunto la Maestria nell’Opera.
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