Il Cervello nella Pratica Marziale


Siamo abituati a pensare che lo sport lavori sul corpo e abbia come scopo il miglioramento dello stesso, della coordinazione e di tutto quello che riguarda l’aspetto fisico. Va però ricordato che corpo-mente-cervello sono un’unica unità e se si ha un cambiamento in una parte, si avrà una ripercussione in un’altra. Tratto da Nihon Tai Jitsu Ju Jutsu – L’Eredità dei Samurai, il manuale a firma di Andrea Mazzoni recentemente pubblicato da The Ran Network, il presente articolo offre un’interessante prospettiva sulle metodologie di apprendimento

di ANDREA MAZZONI

Allenare il corpo ha ripercussioni non solo sull’aspetto mentale, ma anche e soprattutto sull’aspetto cerebrale. Ci riferiamo alla mente quando intendiamo qualcosa di non fisico, parliamo di aspetto cerebrale quando ci riferiamo proprio al cervello e ai cambiamenti fisici che ci sono. Conoscere i meccanismi cerebrali da allenare credo sia di fondamentale importanza, motivo per cui dovremo entrare un po’ nel dettaglio anatomo-funzionale del nostro cervello.

Il cervello è suddiviso in due emisferi: quello destro e quello sinistro. Tutte le strutture presenti nell’emisfero destro, sono presenti anche nell’emisfero sinistro, pertanto quando si parla di ippocampo, in realtà ne vanno identificati due, così come le amigdale – questo giusto perché si abbia chiaro che i due emisferi hanno funzioni parzialmente differenti, ma hanno le stesse strutture a livello anatomico. I due emisferi sono collegati dal corpo calloso, una struttura sottocorticale, ovvero nascosta all’interno del cervello, in cui passano tantissime connessioni che permettono il passaggio delle informazioni tra gli emisferi. Persone nate senza il corpo calloso o con disfunzioni ad esso, avranno emisferi che non comunicano, non integrano informazioni. Ognuno di questi emisferi è suddiviso a sua volta in quattro lobi principali: occipitale, temporale, parietale e frontale.

Esistono essenzialmente tre fasi per l’apprendimento motorio: acquisizione, consolidamento e memorizzazione. Nell’acquisizione partecipano tre gruppi di aree: quella frontale che è situata nel lobo frontale, la corteccia parietale posteriore e il cervelletto. La prima fornisce l’attenzione, la seconda integra le informazioni sensoriali e il cervelletto compara i comandi con quello che il corpo sta facendo e nel caso in cui non ci fosse corrispondenza, invia un segnale alle aree frontali per modificare i comandi. Andando con ordine, il lobo frontale occupa circa ⅓ del manto corticale: basti pensare che l’essere umano è tra gli animali in cui è più sviluppato, rendendoci quello che siamo nell’evoluzione della specie. Il lobo frontale, sede dell’attenzione e atto a pianificare la risoluzione dei problemi, giunge a maturazione completa verso i 25 anni, ed è il contenitore del ragionamento logico e del pensiero astratto.

Siamo abituati a pensare all’attenzione come qualcosa di univoco, invece esistono molte tipologie di attenzione ( visive o uditive):

  • allerta: lo stato fisiologico normale che ci permette di essere reattivi ad uno stimolo;
  • attenzione selettiva: la capacità di concentrarci su un solo target senza farci distrarre da altri;
  • attenzione divisa: riuscire a fare due cose contemporaneamente;
  • attenzione sostenuta: svolgere un compito senza distrarci per almeno 2 minuti;
  • attenzione endogena: l’attenzione gestita da me: io dirigo volontariamente l’attenzione verso qualcosa;
  • attenzione esogena: la mia attenzione è attirata da uno stimolo esterno, come un fischio;
  • attenzione fasica;
  • attenzione tonica.

Qualora il lobo frontale non fosse giunto a maturazione o risulti vittima di trauma, molte delle attività elencate sarebbero estremamente difficoltose da realizzare o addirittura impossibili. È una tematica interessante per chi educa/allena i bambini, in quanto ancora non completi nello sviluppo: i docenti dovranno cimentarsi nel creare una didattica votata al rendere cognitiva e stimolante la pratica, proprio perché alcuni passaggi biologicamente saranno ancora da espletare.

L’Apprendimento

Esiste una gerarchia dell’apprendimento, ovvero ci sono cose che riusciamo ad apprendere in modo più semplice fino a renderle automatiche ed altre che anche se assimilate non lo diventeranno mai.
Quali sono questi movimenti semplici? Flettere un dito, per esempio, è un gesto che diventa automatico al pari dell’andare in bicicletta (indubbiamente più complesso, ma una volta automatizzato per il corpo umano diventerà un gesto facilmente ripetibile). La differenza con gli apprendimenti “faticosi”, come suonare il pianoforte o riprodurre movimenti tipici delle arti marziali, risiede nel riprodurre costantemente l’automatismo innaturale per costruire una memoria temporanea del corpo – parlo di temporaneo perché se non più stimolati saranno movimenti che andremo a disimparare.

Cosa succede se va in tilt il sistema?

Cosa succede se inneschiamo i processi di controllo quando non dobbiamo?
La premessa è legata alla parola “emozioni”: l’ansia, lo stress possono far inceppare questo sistema. Vediamone degli esempi:

ESEMPIO ADATTIVO 1:
Stiamo camminando su un ponte sospeso. Di norma il camminare è un processo automatizzato, ma la condizione oggettiva della struttura sviluppa invece una forte attivazione da parte dei sistemi di controllo fino a rendere il gesto da facile a complesso.

ESEMPIO ADATTIVO 2:
Un musicista sta suonando su un palco. All’inizio l’emotività gli impedisce di essere fluido (troppi i passaggi da controllare). Canalizzando le emozioni e portando “il sistema di sorveglianza” ad un livello più basso, si troverà a suo agio e i movimenti, la performance risulteranno fluidi.

ESEMPIO DISADATTIVO 1:
Uno sportivo professionista, per paura di sbagliare (un calcio di rigore, per esempio) attua un eccessivo controllo sul gesto, tanto da perdere tutte le prerogative allenate in precedenza e sbagliarlo.

ESEMPIO DISADATTIVO 2:
Durante un’interrogazione, a causa dell’ansia, vengono meno i processi di controllo. Sarà plausibile che la persona interrogata possa integrare in malo modo le informazioni in suo possesso o, peggio, probabilmente non risponderà o riuscirà a ripetere i contenuti studiati, senza avere la capacità di interagire in modo proattivo.
Se l’atleta, o il candidato, non hanno raggiunto un buon grado di automatismo, qualsiasi interferenza (il pubblico, la condizione di stress emotivo) può agire in due modi:

  • scollegando i sistemi di controllo ancora necessari: quindi o non ricorda bene cosa fare (va in tilt);
  • oppure i sistemi di controllo sono attivi, ma comunque i movimenti non sono fluidi proprio perché non ancora automatizzati.

Se invece, l’atleta ha raggiunto un buon grado di automatismo, la condizione di stress emotivo può fungere da catalizzatore di energie, nel senso che si sente “carico” e ha voglia di dimostrare quello che sa. In questo caso il diretto interessato sarà in grado di svolgere l’esame, o la performance con un buon grado di automatismo, le tecniche saranno fluide, e sarà inoltre capace di inserire i sistemi di controllo quando ce n’è richiesta: ad esempio se la commissione fa una domanda che esula dal contesto o se si chiede di ripetere una tecnica.

ESEMPIO CONCRETO PER I MARZIALISTI
L’esame per il passaggio di grado

Al candidato viene richiesto di ripetere una tecnica perché non corretta o semplicemente perché la si vuole rivedere. Si identificano subito due macro aree:

  • chi riesce ad adattarsi e riproporre subito i contenuti;
  • chi si blocca.

Chi, ahimè, si blocca non riesce a pensare, non riesce ad attivare i sistemi di controllo che gli permetterebbero di ripescare nella memoria le tecniche corrette, tecniche provate centinaia di volte, o anche delle tematiche affini a quanto richiesto all’esame.

Come si fa quindi ad arrivare ad un buon grado di automatismo?

Per apprendere sono necessarie delle energie attentive, dirette sul compito che vogliamo apprendere. Abbiamo parlato di un insieme di aree cerebrali (lobo frontale, gangli della base e cervelletto) che modulano le risorse attentive e supervisionano le operazioni automatizzate, e le abbiamo chiamate qui, sistemi di controllo.
Esistono quindi strutture cerebrali che svolgono delle funzioni chiamate esecutive (programmare, pianificare, avviare un’azione, fermarla, modificarla). Questi sistemi di controllo hanno delle risorse, ovvero delle “energie” che ne sono il carburante. Il carburante è limitato, quindi non possiamo svolgere più azioni insieme che non siano automatizzate.

Arriviamo dunque al punto saliente: come facciamo ad apprendere e ad automatizzare una tecnica?
Distinguiamo ancora due momenti:
Il primo momento sarà quando non sappiamo fare la tecnica, reclutando tutte le energie dei sistemi di controllo per apprendere. Ci si accorge di questo momento poiché i lobi frontali atti a farci svolgere quel determinato gesto al meglio sono coinvolti al punto da non poterci concentrare su altro nello stesso lasso di tempo. Provate a ricordare quando avete iniziato a guidare: all’inizio non eravate certo sciolti come adesso, anzi probabilmente riuscivate a concentrarvi solo sulla guida. Adesso, dopo anni di pratica, siete riusciti a rendere il processo automatico e potete guidare e parlare contemporaneamente.

Cosa succede tuttavia se andate in una nuova città? Probabilmente non riuscirete a guidare e parlare contemporaneamente, perché la vostra attenzione è di nuovo tutta sul processo di guida e non saranno disponibili risorse da dedicare alla conversazione.

Se in un primo momento c’è un impiego massiccio dei lobi frontali, man mano che la pratica migliora, gli adattamenti a livello cerebrale porteranno, come già spiegato, ad automatizzare i gesti. Si andranno a creare collegamenti tra le aree chiamate a svolgere l’azione, che via via si rafforzeranno, causando il calo delle energie spese. Il risultato? Per eseguire quel gesto percepiremo meno fatica e più naturalità, potendo disporre di ulteriori risorse da dedicare ad un altro compito.

Un esempio banale: prima di poter fare un kata (forme pedagogiche di allenamento tecnico, in singolo o con partner), se a monte non si sono imparati i singoli movimenti, le basi, ci si troverà nella situazione di imparare a fatica, e ancor di più nel riprodurlo nei tempi e modi corretti, proprio perché vengono meno gli automatismi che si credono consolidati: evidenza di uno sbagliato utilizzo delle capacità cognitive e di una scarsa attenzione mentale e corporea.

Se non attiviamo bene l’attenzione, non apprendiamo! Questo succede sia con la lettura che con le arti marziali. Gli individui (bambini o adulti) che hanno attivato bene l’attenzione, si ritroveranno come premio un alto livello di automatismo – di performance. Chi invece non segue questo processo avrà grandi difficoltà nell’esprimersi in singolo o in gruppo, cosa che verrà talvolta autointerpretata come problema di debolezza, o una frustrazione per mancanza di adattamento, quando semplicemente quello che è mancato è stato l’impegno giusto al momento giusto, credendo preferibile abbandonare la scuola, la palestra o l’impegno intrapreso.

Quante volte ci viene detto che la tale tecnica (che fino al giorno precedente credevamo intoccabile) va modificata, o semplicemente non va più bene? Qui nascono le tragedie. Semplicemente si deve ricominciare da capo, con vantaggi e svantaggi. Vantaggi? Strumenti e risorse per aggiornarsi sono presenti, li conosciamo perché fanno parte di noi, vanno solo rispolverati e riallenati. Svantaggi? L’ego, la pigrizia. (e qui viene a meno ciò che nelle arti marziali risulta fondamentale, ossia lo studio continuo: mai sentirsi perfetti…).

Sostengo fortemente che il 50% della buona riuscita di una tecnica risiede nell’attenzione che le si dedica e nella volontà di ripeterla fino al raggiungimento dell’automatismo necessario, non desiderato ma necessario.

Nessuno ci obbliga a praticare arti marziali. Ritengo che una volta scelta questa strada, come minimo vada prestato il massimo impegno cognitivo e motorio possibile. Un errore può essere pericoloso per noi o per chi lavora con noi. Non dobbiamo mai avere una visione alterata della realtà: solo con una pratica attenta e seria si possono porre basi per una buona difesa personale.

Tratto da Andrea Mazzoni: Nihon Tai Jitsu Ju Jutsu – L’Eredità dei Samurai – The Ran Network 2022
Ogni riproduzione non espressamente autorizzata dall’editore e’ severamente proibita


Andrea Mazzoni
Nihon Tai Jitsu Ju Jutsu
L’Eredità dei Samurai

Manualità #1

Un metodo efficace di difesa personale
Le origini, le basi, la tecnica

Il Nihon Tai Jitsu – alla lettera “tecniche di corpo giapponesi” – è uno stile di Ju Jutsu creato dal maestro francese Roland Hernaez 9° Dan, dietro richiesta del suo insegnante Minoru Mochizuki sensei.
Mochizuki sensei, uno dei più famosi ed influenti maestri giapponesi del secolo scorso, fu allievo di Jigoro Kano, fondatore del Kodokan Judo, Morihei Ueshiba, fondatore dell’Aikido, Funakoshi Gichin, fondatore dello Shotokan Karate, e di alcuni altri tra i più illustri maestri del secolo scorso.
Il Nihon Tai Jitsu è una disciplina conosciuta in tutto il mondo e apprezzata per la sua efficacia, semplicità e serietà. Si è ampiamente diffuso nel dopoguerra grazie al lavoro svolto dal maestro Hernaez nel “semplificare” la pedagogia nipponica a favore delle abitudini di apprendimento occidentali.
L’ambizione di questo manuale è di essere volutamente semplice, immediato: un testo da tenere nella borsa da allenamento e da utilizzare spesso; un termine di riferimento e riflessione per principianti ed esperti.

Andrea Mazzoni Renshi 5° Dan Nihon Tai Jitsu, ha studiato Nihon Tai Jitsu con i massimi esponenti della disciplina, tra cui il padre, Daniele Mazzoni, Roland Hernaez e Pere Calpe. (Maggiori Dettagli)

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