Il Grande Vecchio – Intervista a Danilo Chierchini


Danilo Chierchini è il grande vecchio delle Arti Marziali in Italia. Pioniere del Judo in Italia negli anni Cinquanta e campione nazionale a squadre nel 1954, fondatore del primo dojo di Aikido regolare in Italia e firmatario della lettera all’Hombu Dojo che portò Hiroshi Tada in Italia negli anni Sessanta, primo Shodan Aikikai in Italia (in compagnia di altri 18 pionieri) nel 1969, direttore del Dojo Centrale di Roma dal 1970 al 1993, socio fondatore e poi Presidente dell’Aikikai d’Italia per 12 anni, 5° Dan Aikikai nel 1979. Una colonna del Budo nel nostro paese, anche se da anni si è ritirato e da un pezzo non dà notizie di sé. Io l’ho stanato nel suo ritiro toscano, e con l’aiuto di un po’ di Vino Nobile di Montepulciano gli ho sciolto la lingua, ma non aspettatevi la classica intervista sull’Aikido…

di SIMONE CHIERCHINI

SIMONE
Partiamo da lontano e poi avviciniamoci a ciò che più ci interessa. La Seconda Guerra Mondiale è finita e c’è una generazione di giovani italiani che è scampata agli orrori della guerra. Un mondo, quello vecchio, è finito distrutto e ora tutto viene rifatto da capo, con l’influsso di migliaia di fattori esterni, principalmente sotto l’ala della cultura americana. Quali sono i tuoi ricordi del Dopoguerra? Come è la situazione in Italia alla fine degli Anni Quaranta?

DANILO
Dopo il passaggio del fronte da parte  delle truppe alleate della V Armata, che aveva assorbito l’esercito coloniale francese – sbaragliato dai tedeschi a suo tempo e quindi presi in carico dagli americani – gli italiani erano rimasti scioccati dalle “imprese” di questi soldati, che si erano distinti soprattutto per le violenze sui civili e gli stupri delle donne. I nostri liberatori, quindi, ci fecero una pessima impressione. Paradossalmente, i tedeschi, che all’epoca occupavano il mio paese, Radicofani, essendo gestiti in maniera ferrea dai loro superiori in termini di disciplina, avevano l’ordine di non infastire in alcun modo la popolazione civile, a meno che ovviamente non fossero armati o collusi con la resistenza. Così il nemico si comportò con noi meglio che l’amico: io avevo 13 anni e ho ancora questo ricordo bruciante dell’impatto con i liberatori. Noi sentivamo la radio badogliana, che trasmetteva da un settore dell’Italia che si era staccato dai fascisti e ricompattato sotto al re, che ci presentava gli americani come i salvatori, l’energia positiva del mondo. Invece sul campo avemmo il trauma tremendo di vedere che i tedeschi, cioè il nemico, i cattivi, erano dei gentiluomini in confronto ai militari della V Armata, che ne fecero assolutamente di tutti i colori.
Potrei citare mille episodi, ma la realtà è questa. Anche se ho 82 anni, purtroppo certi fatti me li ricordo come se fossero accaduti ieri, come rammento perfettamente la delusione cocente che noi tutti provammo. Chi viveva sul lato adriatico d’Italia non dovette sperimentare le nostre pene, in quanto quel settore del fronte fu affidato alle truppe britanniche e del Commonwealth, la cui disciplina era perfetta, mentre noi che eravamo sul lato tirrenico venimmo lasciati in completa balia dei liberatori, al punto che buona parte della gente iniziò subito a chiamarli invasori.

Danilo Chierchini parla della storia italiana del dopoguerra

Sono stati tempi molto duri. Se non fosse stato per l’aiuto concreto a base di centinaia di milioni di dollari da parte degli Stati Uniti, non so se sarei qui a parlare. Gli americani prima ci hanno bastonato, umiliato e mandato della feccia in divisa a combattere sul nostro territorio, poi una volta occupato e preso il controllo del paese, si sono resi conto della fame che imperversava in Italia, che era popolata da legioni di straccioni scalzi. Con l’avvio del Piano Marshall iniziò a piovere dal cielo un’enorme quantità di cibo, vettovaglie e vestiti. Da qui, piano piano, iniziammo a risalire la china. Mi ricordo che all’epoca facevo le medie e la nostra scuola era stata occupata dagli sfollati, quindi facevamo lezione a turno. I banchi erano dei tavolacci su treppiedi, al posto dei quaderni usavamo dei fogli di giornali su cui si scriveva sul bordo, l’illuminazione era una lampadina da 25W che penzolava da un cavo sul soffitto. Sono stati dei tempi veramente duri.
Gli americani ci hanno rimesso in piedi e ci hanno avviato sulla strada della democrazia dopo 20 anni di dittatura fascista, anche se, bada bene, all’italiana, cioè all’acqua di rose. Anche in questo gli italiani sono speciali: prima hanno leccato il posteriore al dittatore per un ventennio, poi lo hanno appiccato per i piedi. L’episodio di Piazzale Loreto è uno dei più bui della nostra storia recente, a mio parere.
La ripresa dallo sfacelo della guerra fu incredibile. Nel giro di pochi anni si passò dalle macerie al boom economico, accompagnato dall’inurbamento di massa. Io stesso lasciai la campagna del basso senese, ove la mia famiglia – che era una famiglia di piccoli possidenti – aveva vissuto per generazioni e mi trasferii a Roma. Tutte le strutture sociali che erano normali fino a prima della guerra crollarono. Chi lavorava la terra smise di farlo, restituì la chiave del podere al padrone e se ne andò a vivere in città. Le campagne si svuotarono di botto, cosa che è visibile ancora oggi, oltre 60 anni dopo. Dopo la fame, la paura, i sacrifici, gli italiani si buttarono con entusiasmo a lavorare. Questa è stata la base della rinascita.

SIMONE
Oltre al denaro americano, non è errato dire che sono arrivati anche i valori americani, che hanno preso il posto di quelli tradizionali nel momento in cui la gente aveva abbandonato il vecchio: anche perché il vecchio aveva portato agli orrori della guerra e agli stenti che ne erano derivati.

DANILO
Non è che avessimo neppure una gran possibilità di scelta. Quello era il sentimento del tempo: tutto quello che era italiano, ogni oggetto italiano era spregiato e considerato inferiore, mentre tutti correvano dietro alle novità che arrivavano dagli USA.

SIMONE
Il cambio del gusto è stato rapidissimo. Nel giro di un decennio ci si trova davanti a tutto un altro mondo, con la conseguenza che la gente ha anche buttato dalla finestra i mobili originali della secolare tradizione italiana per sostituirli con quelli in plastica e formica. Gli italiani hanno buttato via l’acqua sporca del bagnetto e il bambino che ci era dentro.

DANILO
E’ così.

SIMONE
Dopo ogni tragedia c’è un momento di rinascita e grande energia. La vostra generazione ne è stata al centro, caratterizzandosi per il desiderio di vivere, divertirsi, sognare e sperimentare. La vostra generazione è stata la prima a fare cose che precedentemente erano inaudite presso la popolazione media.

Il vecchio samurai nel suo ritiro toscano

DANILO
La generazione della ricostruzione ha fatto miracoli, lavorando con energia ed entusiasmo instancabili. Questo certamente non per motivi puramente patriottici, ma perché l’economia era improvvisamente mutata e anche l’uomo qualunque poteva istruirsi, lavorare e guadagnare bene, cosa che in passato era preclusa ai più. Gli italiani erano fieri di essere in grado di fare, e di essere in grado di guadagnare. Questo significava sul breve termine di poter mangiare a sazietà e vestirsi con eleganza, poi di essere in grado di comprare a rate un appartamento in città, una motocicletta, una piccola utilitaria. Vennero vendute decine di migliaia di Fiat Topolino, la gente prese a viaggiare e a fare turismo, ad assaporare il lato buono della vita. Considera che fino a prima della guerra la stragrande maggioranza non aveva mai messo piede fuori dal paese e i più non sapevano cosa fosse il mare! Io, che nel frattempo ero andato a lavorare come geometra a Bari, comprai una Lambretta e ci facevo viaggi pazzeschi tipo Bari-Taranto…
Poco dopo comprai una piccola motocicletta di marca Rumi, una 125cc che era assai ambita perché faceva un rumore strano, come se fosse una macchina da corsa! Per la mia cricca di amici romani il colmo della beatitudine era questo: partire dalle mura romane in cima a via Veneto con le moto smarmittate che facevano un chiasso di inferno e fare tutta via Veneto a velocità da rompere il collo fino giù a piazza Barberini, rischiando di ammazzare pedoni e passanti. Altri tempi, ci sentivamo ed eravamo senza limiti.

SIMONE
Raccontaci del tuo on-the-Road Roma-Siviglia.

DANILO
A metà anni Cinquanta prendemmo in affitto una Fiat 1100 che faceva ridere solo a vederla, e decidemmo di andare a visitare la Spagna. All’epoca il paese era sotto la dittatura franchista ed era ridotto alla fame. Spaventati da quello che si sentiva dire sulle condizioni della Spagna sotto Franco, riempimmo la nostra 1100 di pezzi di ricambio, perché in caso di guasto non saremmo stati in grado di trovarli nella penisola iberica. Infatti le leggi spagnole al tempo vietavano l’importazione di beni di lusso dall’estero, e le automobili erano ritenute tali: il parco macchine spagnolo era costituito da mezzi antidiluviani. La Spagna che vedemmo noi era un paese meraviglioso, incontaminato, genuino. Dato che avevamo due lire in tasca, prendemmo anche un aeroplano da Barcellona a Palma de Maiorca che all’epoca era un semplicissimo villaggio di pescatori con un fascino spettacolare. Con la caduta di Franco e l’entrata di nuove idee e molto capitale alcuni di questi posti divennero tra i più famosi per il turismo europeo.

SIMONE
Come mai un incallito non fumatore è finito a lavorare per la Manifattura dei Tabacchi dei Monopoli di Stato?

DANILO
Dopo aver preso il diploma di geometra vinsi un concorso e come prima destinazione il 1° Settembre 1952 mi spedirono alla Manifattura dei Tabacchi di Bari come geometra addetto alla manutenzione. Vivevo a Bari Vecchia, davanti al Castello Svevo; le condizioni del quartiere erano pazzesche, sembrava di stare in un paese del terzo mondo… Per fare un esempio illuminante, dato che le case non avevano impianti igienici, al mattino un piccola autobotte faceva il giro dei vicoli, e fuori dalla porta dei bassi c’era un secchio di liquami pronti ad attendere i poveri addetti. D’altra parte la mia camera d’affitto era in una posizione meravigliosa, con un panorama da sogno e il lusso del bagno e dell’acqua corrente. L’esperienza di Bari per me fu un punto di svolta: avevo 20 anni e due soldi nel portafoglio, la vita mi sorrideva. A volte a mezzanotte con altri amici prendevamo una barca e dal porto vecchio ci dirigevamo al largo; qui buttavamo l’ancora e ci divertivamo a fare il bagno e a vedere le luci del famoso lungomare di Bari, l’orgoglio dei baresi. Mi ricordo ancora che in dialetto dicevano: “Se Parigi teniv ‘u mareiev ‘na piccola Bari”.

Danilo Chierchini sul tatami del Dojo Centrale di Roma (1985)

SIMONE
In tutto questo periodo hai mai fatto sport attivo?

DANILO
Mai.

SIMONE
Nel frattempo sei arrivato a Roma. Come sei capitato a far Judo? Perchè ti è venuta voglia di fare arti marziali? Cosa ti ha fatto interessare?

DANILO
Di arti marziali non se sapevo niente, come la stragrande maggioranza della gente, all’epoca. Si favoleggiava di colpi mortali, tecniche segrete e roba del genere. C’era persino una pubblicità sui giornali che prometteva “L’inerme Vince” e giù tutti a ridere come pazzi… C’erano anche parecchi ciarlatani in giro che si erano autopromossi cintura nera 30° Dan!

SIMONE
Ci sono ancora… Almeno in questo le cose non sono cambiate.

DANILO
Una sera seguii degli amici in una palestra di Judo. Era il Judo Kodokan Club di Roma. Rimasi a vedere e mi piacque molto, perché in un mondo dominato appunto dai ciarlatani, l’organizzatore di questo circolo, che era ubicato nei pressi di Via Veneto, quindi in una zona di prestigio, il maestro Maurizio Genolini, era un vero e sincero appassionato di Judo. Mi iscrissi e iniziai a praticare con entusiasmo. Dopo due o tre anni per me divenne quasi un problema, perché praticare un’arte marziale agonistica a 20 anni non era semplice: tra virgolette ero già vecchio. Proprio in quel periodo mi capitò di vedere un documentario trasmesso dalla RAI su una strana arte, che si chiamava, appunto, Aikido. Questo documentario era imperniato sulle gesta del Fondatore O’Sensei Ueshiba. Nel documentario veniva spiegato che la sua famiglia aveva ereditato delle tecniche particolari, risalenti addirittura all’epoca dei samurai, trasmesse di padre in figlio e non insegnate a chicchessia. Quello che vidi mi colpì profondamente e stimolò la mia curiosità. Tuttavia non riuscii a trovare nessuno che mi potesse insegnare questa disciplina.

SIMONE
Non c’era nessuno a Roma?

DANILO
Non c’era nessuno in Europa, con l’eccezione della Francia. In quello stesso periodo venni a sapere che era arrivato a Roma uno studente giapponese che aveva vinto una borsa di studio come scultore all’Accademia di Belle Arti. Il suo nome era Ken Otani ed era un graduato dilettante di Judo; Genolini immediatamente nominò Otani direttore tecnico del nostro dojo di Judo. Iniziò così un rapporto didattico che durò per parecchi anni, ma la cosa più interessante e piacevole per me fu che sotto la guida di Otani Sensei – nonostante avessi iniziato tardi Judo e non avessi affatto il fisico adatto per la disciplina – dopo 3 anni di allenamento arrivammo a vincere i campionati italiani a squadre. In questa squadra io ero il peso leggero. Era il 1954. Fu una delle maggiori soddisfazioni che ebbi dal praticare arti marziali.

I Campioni a Squadre di Judo del 1954: Otani al centro, D. Chierchini all’estrema destra

SIMONE
Dopo aver praticato per diversi anni al Judo Kodokan Club con Otani, attraverso il lavoro hai l’occasione di aprire il tuo dojo di Judo personale all’interno del Dopolavoro dei Monopoli di Stato di Roma.

DANILO
Negli anni ebbi l’opportunità di avanzare di grado e mi venne voglia di insegnare. Dato che i Monopoli di Stato avevano dei locali chiusi, praticamente abbandonati, di cui ero al corrente, essendo parte dell’Ufficio Manutenzioni, a forza di insistere riuscimmo a convincere la dirigenza a destinarli ad una palestra di arti marziali. Effettuammo i restauri e aprimmo un bel dojo nel cuore di Roma, a Trastevere. Questo dojo, che partì come scuola di Judo, avrebbe più tardi ospitato il primo corso di Aikido tenuto in modo organizzato e continuativo nella storia della disciplina in Italia. Fino ad allora la storia dell’Aikido in Italia si era limitata alla sporadica apparizione di qualche maestro giapponese per dei seminari di un giorno o due in una palestra di altre arti marziali; gli allievi in questi seminari erano judoka e karateka curiosi di provare una nuova disciplina, ma senza programmi di stabilire l’arte e insegnarla regolarmente e coerentemente. Il nostro corso invece era stabile e stabilito con l’idea di diffondere l’Aikido a Roma.

SIMONE
Hai incontrato Haru Onoda, uno di questi pionieri pre-Monopoli prima o dopo aver incontrato il tuo primo insegnante di Aikido, Motokage Kawamukai?

DANILO
L’incontro con questi due pionieri fu più o meno contemporaneo, tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964. Kawamukai all’epoca era un ragazzo di 18 anni che già aveva fatto dell’esperienza di insegnamento dell’Aikido negli Stati Uniti. Aveva avuto delle responsabilità nell’avvio dell’Aikido a New York in collaborazione con un italoamericano e un’americana, Oscar Ratti e Adele Westbrook, che sarebbero poi diventati famosissimi per il libro da loro scritto, Aikido e la Sfera Dinamica. A un certo punto il loro rapporto andò in crisi e Kawamukai decise di trasferirsi a Roma, ove aveva il contatto di un vecchio appassionato di arti marziali, Tommaso Betti Berutto, l’autore di un manuale sulle arti marziali che all’epoca andava per la maggiore.

Haru Onoda a Torino (1968)

Betti, contattato da Kawamukai, lo consigliò di mettersi in contatto con me, dato che avevamo uno dei più bei dojo di Roma, e Kawamukai mi telefonò. Era notte fonda e parlava in inglese, che entrambi masticavamo ma non troppo; tuttavia riuscimmo a capirci e organizzammo un appuntamento per i giorni successivi. Quando incontrai Kawamukai, mi trovai davanti ad un ragazzo con una grande forza di volontà e determinazione. Voleva fare Aikido a Roma, e mi offriva su un piatto d’argento l’opportunità di poter praticare quella disciplina che avevo visto solo nel documentario RAI, ma che mi aveva veramente affascinato. Nel giro di pochi giorni decidemmo di inserire un corso di Aikido da lui diretto all’interno delle attività del dojo dei Monopoli di Stato in Trastevere, e da lì prese avvio il movimento Aikido in Italia.

SIMONE
Avete mai ospitato anche Haru Onoda presso i Monopoli di Stato? Questa pioniera dell’Aikido in Italia viveva a Roma in quel periodo, dopo esser stata segretaria di O’Sensei.

DANILO
Onoda non faceva lezione, ma veviva spesso a praticare. Era una giovane e gracile signorina che risiedeva a Roma per gli stessi motivi di Ken Otani: studiava all’Accademia di Belle Arti, dopo aver vinto una borsa di studio. Probabilmente anche Onoda avrebbe voluto insegnare, il che la portò in contrasto con Kawamukai, quindi finimmo per non vederla più.
Tra i miei insegnanti, in tanti decenni di pratica, quello che ricordo con più affetto e rispetto rimane Ken Otani, con cui sviluppai una vera amicizia. Otani era un tipo strano, almeno agli occhi dell’italiano medio dell’epoca e gli aneddoti che mi raccontava erano veramente affascinanti. Per dirne una, come tutti gli allievi del suo corso presso la Meiji University di Tokyo, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale Otani si arruolò in aviazione, ed era quindi un pilota. Mi raccontava come per loro l’uso del paracadute fosse inconcepibile: la sola idea di andare in battaglia con uno strumento che gli consentisse di buttarsi e abbandonare la lotta fosse un abominio, un disonore. Ciascuno di loro era pronto a sacrificare la vita per la patria, questo concetto era luogo comune, indiscusso e vissuto tranquillamente. Il loro aereo era dotato di paracadute, ma loro lo tiravano fuori dal suo contenitore e ci si mettevano a sedere sopra a mo’ di cuscino, perché era morbido e comodo… Otani era sulla lista dei piloti destinati alle missioni suicida, e aveva svolto la preparazione per immolarsi come kamikaze. Si salvò per pochi giorni, perché la nazione giapponese crollò prima che arrivasse il suo turno. L’amicizia con Ken Otani fu qualcosa che non dimenticherò mai, come anche la sua umanità e simpatia: mai mi fece pesare il fatto che lui era il maestro e io l’allievo. Fu attraverso Otani che conobbi e arrivai ad apprezzare la mentalità giapponese dell’epoca, che era caratterizzata da certe virtù che per me erano e sono rimaste fondamentali: rispettare la parola data, essere onesti, seguire le regole che ci si è dati… in parole poche l’esatto contrario di quello che si vede nel comportamento degli italiani. Otani è stato il maestro che mi ha aperto la strada verso la comprensione del Bushido attraverso il suo comportamento personale.

SIMONE
Come è successo che tu e Kawamukai scriveste all’Aikikai Hombu Dojo richiedendo un insegnante residente e vi mandarono Hiroshi Tada?

H. Tada e D. Chierchini: Demo Salesiani Roma (1968)

DANILO
Kawamukai all’epoca non aveva né l’età né la scienza per diventare il volano della diffusione dell’Aikido in Italia, e inoltre aveva altri progetti personali in testa oltre alle arti marziali. Fu proprio lui che mi disse che era necessario chiamare un insegnante professionista da Tokyo e si diede da fare attraverso i contatti che aveva con Hirokazu Kobayashi – che nel 1964 avevamo ospitato per un seminario al dojo – per cercar di realizzare questo ambizioso progetto. Caso stranissimo, ci indovinò, perché il maestro Tada desiderava venire a insegnare in occidente, come avevano fatto nello stesso anno Tamura e Yamada; quindi accettò il nostro invito e arrivò in Italia il 26 Ottobre 1964. Chissà perché lo fece? Forse desiderava cambiare vita, confrontarsi e provarsi in un paese completamente diverso dal suo in termini di mentalità ed educazione. La scelta del maestro Tada di venire, il suo atto di coraggio mi ha sempre fatto riflettere. Non c’è dubbio che i giapponesi dell’epoca fossero veramente delle persone da tenere nella più alta considerazione.

SIMONE
Il maestro Tada quindi iniziò a insegnare Aikido in Italia presso il tuo dojo in Trastevere.

DANILO
Si, è così. Io lo andavo a prendere in macchina dall’alloggio che gli avevo trovato e gli facevo un po’ da scorta in giro per Roma. All’epoca ci allenavamo per 2 ore 3 volte a settimana. Utilizzai i miei contatti nella federazione del Judo e organizzammo delle dimostrazioni, tra cui una nel 1965 che entrò negli annali: la dimostrazione presso la Scuola di Pubblica Sicurezza di Nettuno. Portammo i tatami su un piazzale all’interno della caserma e attorno avevamo alcune centinaia di aspiranti poliziotti come spettatori. Tada fece un’impressionante dimostrazione con Kawamukai e me come uke e ottenne un grande successo tra i presenti.

SIMONE
Degli aikidoka del tempo chi ricordi?

DANILO
Si stava formando il primo gruppo di appassionati, tra cui ricordo Brunello Esposito di Napoli, Nunzio Sabatino di Salerno, Fausto De Compadri, Francesco Lusvardi e Giorgio Veneri a Mantova, Claudio Bosello a Milano, e Claudio Pipitone a Torino. Grazie a questo primo gruppo l’Aikido mosse i primi passi, al punto che si fu in grado di invitare un secondo maestro giapponese per prendersi cura del meridione, Masatomi Ikeda.

SIMONE
Quali ricordi hai della prima sessione per esami Dan Aikikai che si tenne in Italia?

DANILO
Il primo gruppo di aikidoisti italiani a ricevere la certificazione Aikikai Hombu Dojo fu abbastanza numeroso. Gli esami vennero tenuti dal maestro Tada nel corso dell’anno accademico 1968-69 e qualificarono i primi 19 yudansha di Aikido italiani: Bosello Claudio (Milano), Burkhard Bea (Napoli), Chierchini Carla (Roma), Chierchini Danilo (Roma), Cesaratto Gianni (Roma), De Compadri Fausto (Mantova), De Giorgio Sergio (Roma), Della Rocca Vito (Salerno), Esposito Brunello (Napoli), Immormino Ladislao (Torino), Infranzi Attilio (Cava dei Tirreni), Lusvardi Francesco (Mantova), Macaluso Marisa (Mantova), Peduzzi Alessandro (Milano), Pipitone Claudio (Torino), Ravieli Alfredo (Roma), Sabatino Nunzio (Napoli), Sciarelli Guglielmo (Napoli), Veneri Giorgio (Mantova).
All’epoca gli esami erano molto duri, o almeno a noi pareva così. Io personalmente lo ricordo come un massacro, Tada faceva le cose veramente sul serio e non guardava in faccia nessuno.

Il maestro Tada firma degli autografi (Roma, 1968)

SIMONE
Circola una leggenda metropolitana secondo cui in quei primi anni il maestro Tada fosse molto duro nella pratica. Ti risulta?

DANILO
Assolutamente no. Al contrario i duri erano gli italiani, duri come sassi, perché credevano di essere già diventati delle specie di campioni di Aikido… Il maestro Tada era veramente dotato di un’energia notevole e se avesse voluto giocare a fare il cattivo avrebbe potuto spezzare due-tre principianti a sera, ma ovviamente se ne guardava bene, dato che stava con estrema fatica cercando di costruire la sua scuola.

SIMONE
In questa fase iniziale, quando avete ricevuto i primi approcci da parte del CONI al fine di integrare l’Aikido tra le discipline regolate a livello nazionale, formando un’apposita federazione nazionale riconosciuta dallo stato, come mai si è deciso di tenere l’Aikikai d’Italia fuori dal CONI? Questa decisione si rivelò epocale, sul lungo termine, perché lì è il seme di quello che vediamo a tuttora: dopo quasi 50 anni infatti non esiste in Italia un diploma nazionale di Aikido, non esiste una federazione riconosciuta dallo stato, ecc. ecc. Come è successo? Perché?

DANILO
Furono fatti dei tentativi in quella direzione, che portarono anche ad un tavolo di discussione per portare avanti il progetto. Tuttavia ogni tentativo di accordo andava a cozzare sul fatto che la gestione dell’intero movimento sarebbe dovuta passare al CONI attraverso l’allora Federazione Italiana Atletica Pesante, il che per il maestro Tada era semplicemente inconcepibile. L’idea era che la famiglia Ueshiba fosse proprietaria come di una specie di brevetto, di invenzione. Gli shihan inviati a diffondere gli insegnamenti della famiglia Ueshiba non erano disposti ad alcun compromesso. Cose come federazioni, associazioni democratiche, elezioni dei rappresentanti erano – all’epoca – totalmente aliene in relazione alla cultura e al modo di agire dei maestri giapponesi inviati in occidente dall’Hombu Dojo. Zero, neanche a parlarne. Secondo la legge italiana questo stato di cose era precluso. Ci si arenò quindi sull’impossibilità di coniugare il sistema democratico, previsto dalla legge e proposto dal CONI, con il sistema di gestione piramidale tipico delle arti marziali tradizionali. Così si decise di procedere in modo autonomo rispetto al CONI, cercando di tutelare il lavoro del maestro Tada e allo stesso tempo dando alla nostra associazione una forma legale accettabile per l’ordinamento italiano. Questo fu l’immane lavoro di un amico scomparso da tanti anni, l’avvocato Giacomo Paudice, che dedicò anni di sforzi volti a realizzare questo progetto. Con mio modesto contributo escogitammo un escamotage che consisteva nel costituirci come Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese, di cui l’Aikikai d’Italia era una sezione. Come disciplina di tipo culturale ci staccavamo dal CONI e uscivamo dalla loro sfera di influenza, che si limita alle discipline sportive. Infatti nel 1978 ricevemmo il riconoscimento di Ente Morale su proposta del Ministero dei Beni Culturali.

Chierchini e Yoji Fujimoto scherzano in un non-armonioso kokyunage (Roma, 1984)

SIMONE
Già che abbiamo rimestato nei panni sporchi di famiglia, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su un altro punto estremamente controverso della storia dell’Aikido in Italia. Come è successo che tutti gli aikidoka non conformi alla linea Tada sono stati esclusi dall’Aikikai o gli è stato impedito di partecipare con pari dignità alla vita dell’associazione? Questo è un altro dei semi dei problemi che ancora affliggono la nostra disfunzionale comunità, decenni dopo. Come mai questa associazione che riuscì con le proprie forze a formarsi con tutti i crismi, e che godeva del carisma di uno dei più grandi aikidoka mondiali, non è stata poi capace di gestire il movimento Aikido italiano nella sua interezza? Fin dall’inizio la politica dell’Aikikai fu quella di escludere i non-conformi, politica poi espressasi e consolidatasi con la purga periodica di tutti gli elementi di disturbo di questa conformità. Da dove nasce questo atteggiamento?

DANILO
Questo che hai detto non è che mi piace, ma penso sia quasi inevitabile. Dove ci sono i grandi maestri, ci sono i grandi interessi. Anche su piccola scala, il fenomeno si ripete esattamente uguale, con gelosie e invidie tanto più grandi quanto è più piccola la comprensione tecnica e morale della disciplina. Sinceramente come presidente e dirigente dell’Aikikai d’Italia io non sono stato capace di ovviare a tutto quello che è successo, e anche adesso non sono in grado di immaginare come avrei potuto fare per evitarlo. Io ho avuto la disgrazia di fare il presidente dell’Aikikai d’Italia per parecchi anni, e ho perso amici, tempo e denaro dietro a questi problemi. Gestire le assemblee dell’associazione mi ha messo a rischio di infarto in più di un’occasione.

SIMONE
E’ pertanto esatto dire che man mano la gestione dell’Aikido, la politica dell’Aikido ti hanno ucciso il gusto di praticare Aikido?

DANILO
Forse. Voglio però mettere in chiaro che a me di fare il presidente, di gestire, delle scartoffie non me n’è mai importato assolutamente nulla. Chi mi conosce sa che sono schivo e odio stare in prima fila. Tuttavia, con modestia, in un certo momento storico della comunità aikidoistica italiana, io ero uno dei pochi ad avere le qualità umane e culturali per reggere il peso della gestione e questo peso mi fu affibbiato da altri, a cominciare dai miei maestri. Così è andata a finire che quotidianamente mi sono dovuto occupare della burocrazia necessaria per mandare avanti un’associazione con alcune migliaia di iscritti in un paese come l’Italia. Lo ho fatto per anni, trascurando la mia famiglia, e senza ricevere troppi ringraziamenti, né dai colleghi, né dai maestri. Addirittura ho dovuto sentire gente parlarmi alle spalle, suggerendo l’idea che io traessi vantaggi economici dalla gestione dell’Ente, quando in più di un’occasione ho tappato i buchi con il mio conto in banca. Poi un giorno ne ho avuto abbastanza, e ho tagliato tanto con la politica dell’Aikido, che con l’Aikido.

SIMONE
Dopo 25 anni senza arti marziali, giunto a 82 anni di età, stai meglio o stai peggio?

DANILO
Penso che ci sia un periodo per ogni cosa. Vi è un periodo in cui certe cose si fanno e si prova gusto a farle, e periodi – con il passare degli anni – che questa prospettiva cambia. Gli obiettivi cambiano, le percezioni cambiano. A me le chiacchiere non sono mai piaciute. Da judoka ho fatto l’agonista, non lo storico del Judo. Nell’Aikido ho fatto parte della generazione dei pionieri, con tutto l’entusiasmo e l’energia che ciò ha comportato. Sono rimasto nell’Aikido per quasi 30 anni, ed è normale che la mia visione sia cambiata. Un giorno, quando mi sono accorto che quello che facevo non mi piaceva più, ho semplicemente detto basta. La mia più grande soddisfazione rimane il fatto che ancora oggi, ovunque vada, incontro ex-allievi che mi manifestano il loro affetto e la loro riconoscenza per quello che abbiamo condiviso. Sono orgoglioso della mia reputazione nell’ambiente, come nelle altre cose della mia vita. La reputazione è una cosa che noi lustriamo quotidianamente con le nostre azioni; dopo di che possiamo tranquillamente tirare dritto per la nostra strada, ignorando gli squittii dei ratti che infestano ogni aspetto delle cose umane.

SIMONE
Saliresti ancora sul tatami?

DANILO
Mai.

SIMONE
Mai dire mai?

DANILO
Se salissi sul tatami oggi, lo farei solo per dire o ascoltare un sacco di chiacchiere. Invece sul tatami ci si dovrebbe andare come Ken Otani mi raccontava facessero i vecchi giapponesi: arrivavano, buttavano i vestiti in terra in un angolo, indossavano il keikogi, saltavano sul tatami, facevano un inchino al primo che capitava, si davano una scarica di botte, si rivestivano e se ne andavano. Io la vedo così, il resto sono tutte chiacchiere.

Copyright Simone Chierchini ©2011
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13 pensieri riguardo “Il Grande Vecchio – Intervista a Danilo Chierchini”

  1. rivedere e ascoltare Danilo dopo tanti anni, seppur tramite un blog, è per me un grande piacere per l’affetto che sinceramente provo per lui.
    Per tutto quello che mi ha dato negli anni in cui ero prima bambino e poi ragazzo non lo potrò mai ringraziare abbastanza

    Grazie Danilo

    Luca Mattei

  2. CIao Danilo, leggere l’articolo ha suscitato un misto di enorme malinconia per i tempi che furono e l’ammirazione per il mio primo ed mai dimenticato Maestro di Aikido. Spero di rivederti presto per raccontarci, se passi da Ladispoli vieni a trovarci!
    Grazie Danilo
    Fabio Palombo

  3. ciao DANILO sono Alfredo RAVIELi abbiamo fatto gli esami assieme per SHODAN NEL 1969 dopo solo tre anni di studio con TADA SENSEI.Esame durissimo,ancora lo ricordo.Ho letto la tua intervista,e ho visto le tue foto,mi sono commosso,ripensando alle mille difficili situazioni a cui TU in prima persona, con la TUA onestà intellettuale e rettidutine hai sempre fatto fronte. L’ AIKIDO di ROMA e non solo ti deve molto. Ti abbraccio caro AMICO SENSEI, e tanti auguri di una buona vita.

  4. Salve Sig. Ravieli,

    sono Simone, figlio maggiore di Danilo. Le scrivo da parte di mio padre, che come molti della sua generazione detesta l’informatica e tutto ciò che le è collegato…
    Le invio tanti cari saluti da parte di un vecchio collega di altri tempi. Ha apprezzato con commozione le sue buone parole e conserva ricordi d’oro di quei tempi.
    Tra l’altro, e questo lo dico io, se un giorno lei ha tempo e voglia di condividere con noi una pagina di memorie, e/o delle foto di archivio, saremmo lietissimi di ospitarla qui su Aikido Italia Network.

    I migliori saluti da entrambi i Chierchini, junior & senior

  5. Caro Simone,volevo farti sapere che nella seconda parte dell’intrrvista nella foto Io sono il primo a sinistra in
    SEIZA. Ringrazio Te e il grande Danilo dei Saluti.

    P.S. Anche io col computer ci litigo spesso

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