Tra i praticanti di Aikido sembrano segnalarsi due tendenze opposte: coloro i quali ritengono che bisogna allenarsi, faticando senza discettare troppo sulle proposte didattiche del maestro, e quelli che invece ritengono opportuno accompagnare con la riflessione personale i temi didattici. Queste due tendenze, a loro volta possono manifestarsi in misure diverse, a seconda di quanto uno sia principiante o meno, e che comunque non è in discussione la buona educazione, l’etichetta del dojo; se il clima, i contenuti, non mi piacciono, prima o poi farò meglio a cambiare aria
di ANGELO ARMANO
Mi rendo conto di essere noioso quando invito il popolo dei praticanti a porsi domande radicali sull’Aikido, in quanto vedo che la discussione non parte, o almeno molti anche parlano, ma non discutono. Mi chiedo se la mia personale mania sulla consapevolezza sia solo l’assolutamente soggettiva posizione di qualcuno alle prese con le sue ombre, tanto da non vedere “la luce” nella quale tanto bene si pascono gli altri, oppure la tendenza sia non solo assolutamente legittima, pure nell’alfabeto della tradizione specifica, ma addirittura doverosa, pena la totale insipienza ed insignificanza della pratica.
Fermo restando che ognuno si sceglie come passare il tempo, e che nessuna motivazione meramente razionale è bastevole a colmare l’abisso sul quale siamo pericolosamente protesi, che probabilmente non c’è alcuna scelta salvifica di per sé – altrimenti del tutto vani sarebbero i frequenti richiami al confronto con il vuoto di Morihei Ueshiba e non solo di lui -, non biasimerò le scelte di chi ha bisogno solo di un “contesto sociale”, di un’ambientazione in cui inscenare qualcosa assieme ad altri, senza alcun bisogno di verificare il senso delle cose messe in scena, contento dell’advertising sul prodotto.
Predicava al vento il buon Tadashi Abe, quando invitava a non praticare Aikido come passatempo, al punto che forse non seppe reggere alla delusione di vederlo ridotto in tal guisa, da validi interessi economici. La società funziona esattamente così e anche se alcuni, pochi, non lo ritengono bastevole, non saranno le prediche di quei pochi a cambiare il mondo.
Non vi chiederò quindi di votare per il “partito” dei consapevoli, che di fatto non esiste, ma affiderò le riflessioni a dei contenuti che contemplino almeno il punto di partenza: la marzialità, ovviamente nella prospettiva della nostra disciplina.
Uno fra i requisiti essenziali di quella marzialità è il concetto di zanshin, secondo alcuni traducibile con “attenzione concentrata”; verrebbe da chiedersi a cosa: allo schema didattico o alla realtà così come si presenta? Questo aut, aut ha per me valore puramente retorico, ma ci torneremo sopra, anche se non subito.
Ho il vezzo di ripetere che zanshin non è una parolina; richiede catalizzare le proprie risorse al punto che il senso del tempo muta per il nostro essere, così che senza saperlo, ci troviamo a far concorrenza ad Heidegger ed alle sue domande, nel suo linguaggio così duro da masticare.

Può non importarci nulla di Heidegger, ma come mai ci troviamo a far pezzi di strada assieme?
Se lo zanshin ha l’attitudine, tra l’altro, di modificare la velocità del nostro movie personale, dal quotidiano ad un ralenti, nella cui griglia apparentemente solo fenomenica, tanto bene si ambientano le domande di Heidegger su “Essere e tempo”, cosa ci necessita a questo zanshin?
La risposta è evidentissima: la morte.
La marzialità è il contesto fattuale nel quale la morte, il vissuto di morte, ha la migliore attitudine di essere presente, qui ed ora. Questo spettro, che invece è più reale del reale, il fondamento della realtà stessa, è la misura della validità della nostra cognizione e quindi del nostro essere nel mondo.
L’oggetto del nostro dire è palesemente la marzialità, eppure le questioni che inevitabilmente si pongono, si collocano benissimo anche come linguaggio nella filosofia di Heidegger, e se prescindiamo da certe nuances del linguaggio, non solo di lui.
Il fascino, il significato, la bellezza persino della marzialità, è che meglio di altre attitudini grazie al rigore stringente di tipo fattuale, e non di mera speculazione mentale, da cui entrare e uscire a piacimento, senza alcun rischio perché posti fuori dalla scena, consente il ritorno del “grande rimosso”. Non si tratta per gusto macabro di corteggiare la morte, che sul piano inconscio significherebbe inevitabilmente corteggiare la vita, ma di scovare la maniera di viverla, qui ed ora, a dispetto di tutto quanto, dentro e fuori di noi, ce lo vuole impedire.
L’oscenità (che viene da ob scenam, l’essere fuori dalla scena), capovolgendo ahimè il diffuso modo di pensare, non consiste nel fatto di contemplare la morte nel presente e con adeguata intensità, intensità marziale direi, ma di non contemplarla affatto, anche e proprio attraverso quei voyeurismi collettivi per i quali la morte è sempre quella degli altri, una morte esorcizzata perché non è mai la mia morte, non mi riguarda abbastanza da vicino e personalmente, sul piano fattuale.
Sembra che per poter vivere pienamente la vita, in modo da esser degna di essere vissuta, non bastino gli sporadici eventi di morte che ci accadono naturalmente nella nostra storia personale; sembra che occorra un’intensità maggiore.
Cosa renderebbe allora il migliore degli uomini il samurai, d’accordo o meno che si sia con l’affermazione? Perché se non siamo d’accordo, come mai pratichiamo le arti marziali? E l’Aikido riflette tutto quanto abbiamo detto fin’ora?
Quello di Osensei indiscutibilmente si, e solo dopo aver sedimentato quei contenuti, vivendo finalmente appieno la “propria” vita, Egli può irrompere con la sua celebrazione positiva del Budo, parlare e vivere d’amore, perché grazie al Budo gli impedimenti sono scomparsi e non ci sono più paure che ci tengono fuori dalla scena. Anche se eventualmente gli altri ci fregano e ci trattano da fessi, non moriamo per questo… moriamo comunque! Se passassimo l’intera vita a misurare il senso di corrispettività con la quale gli altri ci trattano, se equamente, dal nostro o dall’altrui punto di vista, e trovandoci in disaccordo trascorrere la vita in singolar tenzoni nelle varie sedi possibili (dalle aule di giustizia, ai recessi delle strade, ai blog del web…) per farci ragione, non faremmo a tempo neanche ad iniziare a viverla, veramente.

Non voglio così dire che dobbiamo lasciare che gli altri ci calpestino, tutt’altro, in quanto difendersi è uno scopo apparente della marzialità, solo di dedicare il minimo tempo possibile, giusto quanto basti a limitare i danni (sarebbe delirio pensare il contrario…), perché felicemente il nostro baricentro è collocato nel Vivere. Questo è il punto d’arrivo, ovviamente per chi lo abbia realizzato; per chi buttata via la fede assoluta negli schemi visibili, pur vivendo pienamente nel mondo visibile si sia rivolto agli invisibili, o a quello che gli altri non vogliono vedere, ma che pure visibile è. In trasparenza.
Solo allora il gesto bellico si sublima nella danza, nel prendersi per mano; la danza come punto di arrivo consapevole grazie allo zanshin, e non la discoteca dei passetti, l’automatismo oggettivamente quantitativo e soggettivamente accumulativo, a sostituire il marziale e tutto ciò che comporta, in maniera ardua, per la nostra coscienza. Aiki è il contrario della logica disgiuntiva soggetto-oggetto, non mi isola dagli altri; mi riconnette agli altri nel reale e nel tempo, senza alternative, da quel mentale e dai suoi schemi funzionali nei quali autisticamente mi ero autoridotto dal mondo, impedendomi così di viverlo.
Praticare tutta la vita attraverso le forme, per imparare a come dare sempre più spazio al senza forma. La coscienza della paradossalità dell’uomo, in bilico tra il cielo e la terra, lo spirito e la materia.
Per essere uomini non è sufficiente neanche la vita meramente naturale; occorre uno sforzo maggiore, una responsabilità maggiore, vuoi anche solo per il dato scientifico in forza del quale, la localizzazione cerebrale dell’ansia è posta proprio nella neocorteccia cerebrale, nel cervello specificamente umano. L’intelligenza umana è risorsa immensa, ma anche l’ostacolo possibile se ci satura con l’inflazione dei suoi modelli interpretativi di funzionamento, ad una piena corporeità dei sensi, ad un’intuizione che sappia bruciare la consecutio degli schemi (seguendo pedissequamente la quale saremmo già morti, infilzati da una lama o per vecchiaia, prima di essercene accorti), ai giudizi di valore del sentimento e di cosa conta veramente, per noi!
Né il sorriso bonario, né l’attenzione concentrata di Osensei lasciano trasparire la minima ansia; un bel risultato, veramente valido: il naturale rinobilitato alla luce della coscienza dell’uomo.
Un risultato per il quale val la pena di vivere, grazie al fatto di aver abolito il divario tra la voglia di vivere e la vita stessa… in questa vita.
E l’Aikido degli altri?

Prima eventualmente di occuparci dell’Aikido degli altri, vorrei farmi delle domande sull’Aikido, dando ovviamente per scontate alcune premesse:
a) Di tutto questo si occupano valorosamente altri, come Stanley Pranin per esempio, e con dovizia di documentazione.
b) Che al pari di altri io sono portatore di opinioni, magari anche forti e motivate, ma pur sempre tali.
c) Che le mie convinzioni sono sempre in itinere e che mi interessano le opinioni degli altri, soprattutto se espresse con garbo, spirito costruttivo e da un minimo pulpito di esperienza.
Il dato da cui partire, occupandoci così dell’altra metà del titolo di questo piccolo essay, è di soffermarci su cosa sia Aiki. Come è noto, sebbene siano 2/3 dei kanji della parola Aikido, non è un dato creato da Ueshiba, ma lo precede e con esso lo stesso si imbatte in un dato momento della sua formazione marziale, grazie ad un incontro ben noto: quello con Sokaku Takeda.
Le vicissitudini (e i misteri) della successione da Aikijujitsu, ad Aikibudo, ad Aikido sono risapute; un dato importante è cosa ne dice Ueshiba stesso: “L’insegnamento di Takeda mi aprì gli occhi sul Budo”.
La linea di continuità è proprio costituita da questo comune denominatore, sul quale a mio parere non si è riflettuto abbastanza, anzi si è molto mistificato, pure fuorviati dalla parola Ki. Il termine è talmente polivalente, da essere del tutto aspecifico rispetto al campo che ci occupa: la marzialità, pure se di un certo tipo…
Sembra che Sokaku Takeda chiamasse inizialmente le sue tecniche Daito ryu Jujutsu e che distinguesse tra jujutsu ed aiki come tra elementare e profondo. L’Aiki è il salto di qualità e quantomeno per Sokaku Takeda, trattasi di concetto puramente marziale, senza contaminazioni di natura mistica, come la specifica personalità di Ueshiba era portata a fare. Al tempo stesso, la misteriosa efficacia dell’Aiki, attiene comunque a mezzi interiori, quegli stessi mezzi che vengono asserviti al progresso spirituale e ai fatti religiosi. Prova ne sia che Chikanori, il maestro di Takeda a cui insegnò i segreti Oshiki uchi del clan Aizu, era un prete, e di un prete voleva fare Sokaku. Il pio desiderio non ebbe esito in quanto, come ben noto, Takeda Sokaku non aveva per nulla quella vocazione, anzi…
Non sorprende che una sensibilità diversa come quella di Osensei, recuperi appieno quest’aspetto dell’Aiki, aspetto che però non è sufficiente a definirlo ed esaurirlo. E neanche mi sorprende che l’allievo più vicino a Ueshiba, Morihiro Saito, glissasse allegramente sull’argomento, invitando gli allievi che gliene chiedevano a soffermarsi su argomenti più tangibili e concreti. Questo a riprova che al di là di facili oggettivazioni, di dati inconfutabili su cosa sia o non sia l’Aikido, il fattore personale, sulla prevalenza o meno da conferire ad alcuni fatti, rimane comunque decisivo.
La stessa posizione mantiene un maestro del Daito ryu, morto alla fine degli anni novanta e capace fino alla fine della sua lunga vita, di prestazioni che non avevano niente da invidiare a quelle di chiunque, ripeto, chiunque altro…ma che, tra le righe, non può fare a meno di convenire che il confronto tra due antagonisti di livello, rimane un confronto tra anime!
Cerchiamo allora di distillare le caratteristiche indicative di questo Aiki, o quantomeno alcune di esse. Nell’Aikido parliamo comunemente di armonizzarci con la forza dell’assalitore, e di utilizzarla. Lo stesso maestro del Daito ryu citato sopra, invece, senza alcun ricorso a metafore occulte dimostra invece che:
a) Aiki ha caratteristiche preventive (non certo nel senso che egli non si lasci afferrare, con il massimo di energia, da più antagonisti ed anche con prese micidiali da lotta libera), svuotando di forza l’avversario, il cui impeto sembra non avere nessun effetto su chi lo applica.
b) La persona su cui viene applicato Aiki, si trova fulmineamente squilibrata, di modo che la contemporanea o successiva proiezione diviene pienamente plausibile. Lo strano è che chi viene squilibrato, non si sente spingere o tirare con forza.
c) Esistono livelli diversi di Aiki, che possono pareggiarsi tra loro, progressivamente fino a prestazioni… inimmaginabili.
Possiamo ritenere che solo grazie a caratteristiche del genere Morihei Ueshiba abbia patito l’unica (umiliante) sconfitta della sua vita, e da quel personaggio veritiero che era, si sia messo ad imparare da Sokaku Takeda.
Aspetti marginali di queste caratteristiche li vediamo espressi da alcuni shihan di Aikido, viventi o deceduti che siano, senza però che nessuno o quasi di questi (a mia conoscenza) affronti di petto l’argomento o ne espliciti l’insegnamento.
Nonostante l’allusione a fatti palesemente non muscolari, l’esercizio muscolare ha importanza decisiva, fin nella tarda età, e lo studio delle tecniche risulta del tutto vano senza un’adeguata costruzione corporea. Questo mi pare coerente con la pedagogia di Saito sensei, in uno alla sua allusione che se il peso di uke non finisce completamente sugli avampiedi o sui talloni, le tecniche di Aikido sono inapplicabili…
E’ in forza di tutte queste argomentazioni che nel mio libro, sostengo che il vero Aikido è il kitai e che gli altri livelli sono solo una marcia di avvicinamento. Nel kitai non ha alcun senso differenziare tra kihon e kinonagare.
Ho appena commesso il peccato più grave per la mentalità giapponese e per i plagiati da essa. Ho pisciato fuori dal vaso!
Io rispetto sinceramente la cultura e la sensibilità giapponese, anzi ne sono affascinato al punto da praticare Aikido come yudansha da 35 anni, anche se è appena da qualche anno che ho incominciato a farlo… Mi piacerebbe che fossero tanti altri a farlo per davvero, essendo assolutamente possibile, a patto di non farsi mettere l’anello al naso, e farsi portare a spasso per decenni dai “luoghi comuni”.
Copyright Angelo Armano© 2012
Ogni riproduzione non espressamente autorizzata dall’autore è proibita
[…] Leggi Zanshin ed Aiki – Parte Prima […]
[…] Zanshin ed Aiki – Parte Prima « Aikido Italia Network […]
[…] di Sokaku Takeda. In un mio articolo pubblicato in due puntate su Aikido Italia Network, dal titolo Zanshin ed Aiki a cui integralmente rimando, avevo provato a distillare il senso di certa nostra pratica, alla […]
[…] alluso a questo dato in un mio piccolo saggio pubblicato da Aikido Italia Network ed intitolato: “Zanshin ed Aiki”. Proprio nella parola Aiki è contenuto il nutriente latte dell’Aikido, quello che come il […]