Il Marzialista – Intervista ad Antonino Certa


Antonino Certa ha trascorso 55 anni della sua vita ad allenarsi e a insegnare alcune delle maggiori arti marziali giapponesi. Ha fatto parte dell’epoca dei pionieri dell’Aikido in Italia, praticando Aikido per oltre 30 anni, finché nel 1991 la sua ricerca di marzialità lo portò ad Abashiri e alla scoperta del complesso e affascinante mondo del Daito-ryu Aikijujutsu. Oggi Certa Shihan è una figura di riferimento per il Daito in Italia e nel mondo, avendo insegnato in 11 nazioni e condiviso la pratica con centinaia di compagni di tatami. La sua non comune posizione di esperto tanto di Aikido che di Daito-ryu rende la sua esperienza particolarmente interessante

di SIMONE CHIERCHINI

Antonino Certa è un uomo schivo, che rifugge dalle attenzioni che un personaggio del suo livello nel mondo delle arti marziali inevitabilmente attrae. Non troverete sul web centinaia di sue foto o video autocelebrativi. “Tonino”, come lo chiamavamo noi compagni di tatami dell’Aikikai Milano negli anni ’80, ha sempre preferito i fatti alle parole. Abbiamo quindi il piacere di presentare questa intervista, che rappresenta un unicum dopo oltre mezzo secolo di silenziosa pratica di uno dei principali marzialisti italiani.

CHIERCHINI
Hai iniziato a praticare arti marziali da ragazzo. Cosa ti ha portato sul tatami?

CERTA
Ero adolescente e per di più ero un ragazzo magro e timido. A quel tempo una serie di nuovi filmacci cinesi riempivano le nostre sale cinematografiche e portavano in occidente la conoscenza del kung-fu. Anch’io ovviamente rimasi affascinati da quei films, anche se ero più attratto dalla cultura giapponese. Quindi iniziai a pensare di praticare un’arte marziale nipponica per cambiare e rafforzare il mio carattere e il mio corpo.
A quel tempo era da poco uscita una rivista specializzata nelle arti marziali chiamata “Cintura Nera” ed in un numero parlavano del misterioso Aikido. L’articolo era corredato da diverse immagini: fu un colpo di fulmine. I praticanti erano vestiti con una specie di gonna nera, nella mia giovane mente sembravano dei samurai! Così mi iscrissi nell’unico dojo esistente allora a Milano, il Jigoro Kano [1] Era il 1965.
L’anno dopo, proprio nella stessa sede, vidi una dimostrazione di Karate fatta da Hiroshi Shirai, coadiuvato dai suoi primi allievi, e così mi iscrissi anche al suo corso di Karate. Per un periodo di sette anni, poi, praticai le due arti marziali in contemporanea.

Hiroshi Shirai (Copyright KarateColombes)

CHIERCHINI
Da giovane budoka hai pertanto avuto l’opportunità di formarti sotto la guida diretta di due insegnanti di arti marziali che hanno lasciato il segno in Italia, Hiroshi Shirai per il Karate, appunto, e in seguito Yoji Fujimoto per l’Aikido. Com’era praticare con loro?

CERTA
Due modi differenti, ma ambedue avevano un comune denominatore: si stava praticando un’arte marziale!
Il M° Hiroshi Shirai insegnava in maniera dura e molto autoritaria, teneva molto al suo ruolo di Sensei. Il giovane Yoji Fujimoto (nel 1971 aveva 23 anni) invece praticava con noi le tecniche di Aikido, si proponeva come un “compagno di pratica”, anche se, ovviamente, col passare del tempo assunse la figura di Sensei.
Per Shirai in ogni lezione bisognava dare tutte le proprie energie fisiche al 100%, dovevi sempre stare attento e la concentrazione doveva essere continua. Ogni atemi doveva essere unico, ci diceva sempre che ogni colpo doveva abbattere l’avversario e che lo spirito è superiore alla forza muscolare. La parte finale della lezione comprendeva sempre tanti addominali, flessioni e saltelli. Dopo l’allenamento, spesso in spogliatoio notavamo che avevamo tutti dei bei segni violacei su molte parti del corpo, a quel tempo io ne andavo fiero. Ero giovane ed entusiasta, allora!
Le lezioni con Fujimoto, invece, erano sempre molte dinamiche, molto atletiche, serie ma non seriose: ogni tanto si rideva anche! Ma sempre avevamo coscienza di praticare un’arte marziale. Fujimoto dava poche spiegazione orali, dimostrava la tecnica e dopo tutti, anche lui, si praticava. Le sue tecniche erano eleganti, e noi, sull’esempio del Sensei, le tiravamo con l’ardore giovanile che possedevamo, eseguendo brevi taisabaki; insomma l’entusiasmo ci portava a praticare un Aikido bello, atletico ed efficace. La lezione terminava sempre con ottimi e piacevoli esercizi di stretching.

Antonino Certa ai tempi dell’Aikikai Milano

CHIERCHINI
Per quasi tre decenni sei stato una delle colonne dell’Aikido in Nord-Italia. Cosa ricordi con maggior piacere del tuo percorso in Aikikai d’Italia, e cosa poi ti ha spinto a scegliere un’altra strada?

CERTA
Ho vissuto per 30 anni di pane e Aikido e lo ho amato molto! Ho partecipato a moltissimi stages con tutti i maestri giapponesi che visitavano o risiedevano in Europa – non ricordo più quanti… Ho avuto il piacere di conoscere tante persone, con alcune delle quali ho stretto amicizie sincere durate anni. Il clima era sempre rilassato, ci conoscevamo tutti, eravamo in pochi ai quei tempi pionieristici. Sì, c’era anche qualcuno che si atteggiava a prima donna solo perché veniva (o si offriva di sua spontanea volontà allo scopo di apparire) chiamato da Tada Sensei a fargli da uke; ma erano casi rari. Ricordo con intenso piacere i due stage annuali tenuti da Tada Sensei a Roma, quello di novembre, durante la festività dei morti, e quello di Pasqua. Erano sempre 2/3 giorni intensi e poi, a quel tempo, Tada era giovane, era una furia scatenata. Le sue tecniche erano dirette, non metteva l’enfasi sul Ki, e noi si praticava intensamente… punto e basta! Tutti avevamo il senso di appartenenza del dojo e poi noi di Milano eravamo “allievi del M° Fujimoto”.

Ero e sono stato sempre un ricercatore, per questo, oltre a praticare l’Aikido e il Karate ho praticato anche il Kendo per 5 anni, e per un breve periodo il Koshiki-no-kata del Judo con il M° Alfredo Vismara. Alla fine, a forza di ricercare, ho scoperto il Daito-ryu Aikijujutsu. Conoscendo bene la storia e la vita di Morihei Ueshiba, ed in seguito trovando le prime informazioni sul Daito-ryu sulla nota rivista AikiNews, ho deciso di andare ad Abashiri nell’Hokkaido, dove viveva ed insegnava Tokimune Takeda, figlio di Sokaku Takeda, il maestro di O-Sensei [2]. È stata una scelta obbligatoria per ricercare le radici dell’Aikido.

Tokimune Takeda in azione nel dojo di Abashiri

CHIERCHINI
Raccontaci della prima volta che hai visto praticare Daito-ryu Aikijujutsu. Quali erano le tue aspettative? Quali sono state le tue impressioni di aikidoka esperto davanti a quello che vedevi?

CERTA
Ne fui felicemente sorpreso! Era quello che avevo cercato negli ultimi dieci anni. Ho visto un’arte completa nel suo bagaglio tecnico, un’arte con una storia ed una genealogia chiara e profonda, un’arte a tutto tondo. Ma quello che più mi ha impressionato è stato l’utilizzo degli atemi e dei kiai nel metodo di allenamento. L’allenamento si sviluppava per mezzo del kata puro, i movimenti erano un po’ statici, ma erano fatti con potenza e decisione. Il puro kata è impersonale nel senso che non bisogna copiare lo stile di questo o di quello Shihan, non devi diventare una fotocopia del tuo maestro. Bisogna praticare quello che il Sensei ti mostra e non aggiungere né togliere nulla, come a suo tempo anche il proprio maestro aveva fatto.
Un’altro aspetto che mi aveva affascinato era lo studio del kenjutsu di una scuola tradizionale e storica, una famosa ko-ryu [3]. Esso era parte integrante dell’allenamento quotidiano. Tutto ciò rispondeva alle mie aspettative di aikidoka sicuramente a quel punto un po’ annoiato.

CHIERCHINI
Poco dopo aver incontrato il Daito-ryu, hai smesso di praticare e insegnare Aikido. Ci puoi spiegare cosa ti ha spinto a prendere una decisione così forte?

CERTA
Tornato da Abashiri nel settembre del 1991, per circa tre anni ho insegnato ambedue le arti. A qual tempo feci anche un’esperienza con l’Aikido Yoshinkai di Gozo Shioda, attraverso la partecipazione a due stages di un 8° Dan giapponese invitato in Italia dal M° Ivano Zintu di Roma. Anche questa esperienza però non mi soddisfece molto. Oramai dovevo approfondire e assimilare le numerose tecniche di Aikijujutsu, quindi mi sembrò coerente dedicarmi unicamente a quest’arte.

A. Certa: Daito-Ryu Aikibudo: History and Technique

Un’altro motivo che è stato a sostegno di questa mia decisione fu che iniziai a condurre stages in Italia e, qualche anno dopo, dopo l’uscita del mio libro su Daito-ryu, iniziarono a chiamarmi anche all’estero (la prima volta fu in Russia). Quindi venivo già considerato un Maestro del Daito-ryu Aikibudo.

CHIERCHINI
Da quella prima volta ad Abashiri, nel 1991, hai frequentato regolarmente il dojo. Quali figure sono state centrali nella tua formazione nel Daito-ryu Aikijujutsu?

CERTA
Ho avuto la fortuna di essere per lungo tempo l’unico straniero presente nel dojo di Abashiri. Così quasi tutti gli yudansha desideravano insegnare qualcosa in più fuori dai programmi ufficiali e mi seguivano; in questo modo il mio bagaglio tecnico è aumentato considerevolmente. Tuttavia, ci sono stati tre Sensei che mi hanno davvero insegnato moltissimo: il primo tra tutti fu Matsuo Sano Sensei, il secondo Kato Shigemitsu Sensei e per ultimo Arisawa Gumpachi Sensei. In pratica il mio bagaglio tecnico è una miscellanea, in parti diverse, di questi tre Sensei. Erano persone semplici, sconosciute qui in occidente; insegnavano allo scopo di trasmettere l’arte alle nuove generazioni, questo era il loro unico obiettivo. Purtroppo negli ultimi dieci anni sono passati a miglior vita.

CHIERCHINI
Dal punto di vista di un aikidoka, il programma tecnico del Daito-ryu sembra sterminato. Puoi aiutarci a comprenderne la progressione didattica e la logica che la accompagna?

CERTA
È vero, si dice che il numero di tecniche di quest’arte sia 2884, ma questa è un’esagerazione. Ufficialmente ne sono classificate 768 (che sono sempre un’enormità), ma in realtà nessuno sa veramente quante sono. Questo perché Sokaku Takeda insegnava “alla vecchia maniera”, cioè insegnava ad ogni persona le tecniche che gli erano più adatte. Da buon samurai non aveva un programma specifico, insegnava in maniera estemporanea a secondo della classe che aveva davanti. Fu suo figlio Tokimune a strutturare un vero e proprio programma tecnico razionale.
La progressione didattica, come ogni ko-ryu, è molto rigida: si inizia con lo Hiden mokuroku, si prosegue con l’Aikinojutsu, ancora con lo Hiden Ogi e per finire con le tecniche dello Goshin’yo-no-te. Inoltre, altri Shihan, tra cui i miei maestri di Abashiri, aggiungevano i rotoli del Chuden-no-maki e dell’Okuden-no maki, che includono un numero imprecisato di altre tecniche di jujutsu. Un allievo non può saltare da un mokuroku ad un’altro, oppure da una serie kajo ad un’altra.
Il primo criterio utilizzato nella progressione didattica, comunque, era che al principio venivano mostrate le tecniche omote [4] (表), cioè quelle serie di tecniche che venivano insegnate e dimostrate a tutti i membri della Scuola. Queste tecniche venivano, in parte, mostrate anche nelle dimostrazioni pubbliche dirette dal Soke che ogni anno, nei primi giorni del mese di agosto, si organizzavano ad Abashiri.


A seguire venivano insegnate le tecniche ura (裏), varianti e complementari alle tecniche omote. Per queste serie di tecniche, invece, era proibita la dimostrazione in pubblico; anzi esse venivano studiate solo dagli Shihan in orari diversi e a porte chiuse, solitamente la domenica mattina. Solo le tecniche incluse nello Hiden mokuroku hanno nomi specifici, mentre in tutti gli altri mokuroku le tecniche sono classificate come Dai-ichi-jo, Dai-ni-jo, eccetera. Questo perché Tokimune Takeda decise, per facilitarne la memorizzazione, di dividere le tecniche in 5 serie (kajo) e dargli dei nomi, sull’esempio di ciò che Jigoro Kano aveva fatto anni prima per il Judo.
La scelta logica e didattica sta nella progressione della facilità di esecuzione fisica di ogni tecnica a cui appartiene. Un’altro parametro di progressione didattica consiste nel classificare le tecniche nell’esecuzione secondo i tre sen (mitsu-no-sen), i tre tempi di iniziativa di attacco/difesa che il tori attua in uno scontro. Quindi si parte dalla serie ikkajo dove tutte le 30 tecniche sono effettuate in go-no-sen (in pura difesa), fino ad arrivare alla quinta serie, gokajo, dove le tecniche di jujutsu sono effettuate in modalità sen-no-sen (in puro attacco).

Sokaku Takeda

CHIERCHINI
Parliamo dell’Aiki, un soggetto che oggi va particolarmente di moda. Come definiresti l’Aiki? Si tratta di un qualcosa che hai direttamente sperimentato, una leggenda, un Sacro Graal a cui ciascun marzialista dovrebbe aspirare? Oppure era meglio quando veniva custodito come un geloso segreto per i veri iniziati?

CERTA
Rispondere a questa domanda è difficile. Ad Abashiri, una tecnica Aiki veniva considerata, a livello fisico, quella in cui non si faceva presa in nessuna parte del corpo (keikogi) di uke. Non si davano atemi, non si facevano leve agli arti superiori, né si strangolava. Questo concetto era considerato simile al concetto di Ju (柔), o cedevolezza, flessibilità mentale. Solo che occorreva in più aggiungere il “timing”, la corretta e tempestiva scelta del tempo in leggero anticipo rispetto all’attacco di uke.
Quello che ho praticato ad Abashiri erano prevalentemente tecniche di jujutsu, anche se dopo mi hanno insegnato anche l’Aikinojutsu mokuroku; esso contiene un numero imprecisato di tecniche (chi dice 53, chi dice 60) che in Aikido sono classificate come kokyu-nage. Non mi hanno mai dato insegnamenti mistici o spirituali, si imparavano le tecniche semplicemente praticandole quotidianamente, era il corpo che assimilava i movimenti e la giusta scelta del tempo. Poi si sapeva che gli Shihan avevano degli scritti su argomenti esoterici che Tokimune aveva ereditato dal padre Sokaku, ma questi non venivano rivelati.

CHIERCHINI
Non è insolito sentir dire che l’Aikido e il Daito siano sostanzialmente la stessa cosa. Tu hai praticato ciascuna delle due discipline per 30 anni, una tua opinione in merito sembra assai rilevante.

CERTA
Esteriormente sembra così, in realtà sono opposti. Innanzitutto, l’atteggiamento interiore sulla finalità delle tecniche: nel Daito ogni tecnica deve essere devastante; alla fine, per mezzo di un atemi simbolico, occorre “finire l’avversario”. Questo perché il compagno è visto come un avversario da sconfiggere, da abbattere. Ovviamente il compagno è un nostro amico di pratica e dopo andremo a bere una birra assieme, ma durante la pratica è visto come un’aggressore; non esiste una collaborazione reciproca per migliorare una tecnica come nell’Aikido: la pratica è individualistica.
Secondo, il modo di portare una tecnica è diverso. Esiste un motto che dice: “Tre passi, due secondi, un tatami”. In questo motto è riassunto tutto lo spirito di una tecnica di Daito-ryu: occorre fare al massimo tre passi (il taisabaki), la reazione all’attacco deve essere entro i due secondi e per finire lo spazio utilizzato durante una tecnica è di 2 metri quadri (circa). Si può dire che l’arte del Daito-ryu è minimalista.
Per finire, ma il discorso sarebbe molto più lungo, il numero delle tecniche (il Syllabus) è vastissimo, come dicevo prima. Oltre alle tecniche di osae-waza, di kansetsu-waza e di nage-waza, presenti anche nell’Aikido, si praticano le tecniche di atemi-waza, di kyusho-waza e di shime-waza. Le tecniche di atemi sono primarie ed ogni atemi è portato con un preciso ed acuto kiai. Purtroppo nell’Aikido si è quasi perso l’uso dei kiai, mentre nella pratica del Daito-ryu è una pratica intensa. Ogni tecnica, a prescindere che sia un kansetsu oppure un nage, ha due o tre atemi di vario tipo (zuki, keri, hiji ate, ed altri). Ecco questi sono i punti essenziali che differenziano le due arti.

CHIERCHINI
L’obiettivo del Daito-ryu è la diffusione di “armonia e amore”. Mantenere questo spirito aiuta a raggiungere e mantenere la giustizia sociale. Questo è il desiderio di Takeda Sokaku” [5]. Riporto questa citazione di una frase di Tokimune Takeda a dimostrazione che anche la filosofia che si vuole centrale dell’Aikido e unica di esso, sembrerebbe provenire dal Daito. Puoi elaborare in proposito?

CERTA
No! Non penso che sia così. Ho una mia un’ipotesi: nel contesto del periodo postbellico e con il fallimento del militarismo estremo perpetuato dagli stati maggiori giapponesi e la conseguente sconfitta, tutti gli insegnanti di arti marziali iniziarono a presentare il Budo sotto forma di sviluppo spirituale del proprio essere. Non venivano più definite come forme marziali, ma come metodi pacifici la cui pratica avrebbe miglioravano il proprio carattere, il proprio sé. In questo modo si cercava di far sì che le arti marziali potessero continuare ad essere accettate e praticate dal popolo giapponese, cosa altrimenti difficile se fossero state presentate come arti militari. Il risultato della sconfitta bellica si era tradotto in un rifiuto da parte dei giapponesi sopravvissuti al conflitto e nella conseguente repulsione dell’antica filosofia del Bushido.
Penso quindi che anche Tokimune Takeda si uniformò a questo trend nell’intento di attirare praticanti nella sua arte. Ma in dojo, quando io mi allenavo, mi veniva insegnato che il compagno era un avversario da abbattere. Nessuna filosofia di “armonia e amore” dunque!

Ueshiba Morihei ad Ayabe nel 1922. Lo scroll sullo sfondo dice “Daito-ryu Aiki-jujutsu”

CHIERCHINI
Morihei Ueshiba: un eccellente praticante di Daito-ryu, un genio che risplende da solo nel buio, o un’icona fabbricata a posteriori?

CERTA
Un insieme di tutto questo. Da un lato, si dice che Tokimune Takeda riferiva che suo padre ammirava le tecniche di Ueshiba e lo considerava come uno dei suoi migliori allievi. Dall’altro, noi occidentali e praticanti di Aikido lo abbiamo quasi divinizzato (quanti degli aneddoti a lui riferiti sono veri?), ma questo non è avvenuto per i praticanti giapponesi. Nello stesso periodo c’era un’altro genio chiamato Jigoro Kano che creò un metodo moderno, il Judo, allo scopo di educare i giovani, e per far progredire tutti gli uomini verso un mondo pacificato. Jigoro Kano, come tutti sappiamo, non fu divinizzato da noi occidentali.

CHIERCHINI
In relazione a quanto sopra, come la vedi rispetto al futuro del Daito-ryu, una disciplina ricca di storia e valenze, ma con un passato e una tradizione di nicchia. Sopravviverà l’inevitabile commercializzazione che è già in corso?

CERTA
Il Daito-ryu è oggi una strana arte, molti ne parlano, molti dicono che sono istruttori e/o maestri; in realtà siamo in pochi a praticarlo realmente.
Quando sono ritornato in Italia nel 1991, insegnavo le tecniche con durezza, così si praticava ad Abashiri. Per oltre dieci anni ho continuato in questo modo, ma come risultato avevo pochi allievi. Oggi io stesso ho addolcito la pratica, i tempi sono cambiati, o forse io sono invecchiato. Comunque nel panorama internazionale la pratica del Daito-ryu è equilibrata, non la definerei né dure, né gentile. In questo modo lentamente, molto lentamente, il Daito-ryu sta uscendo dal suo stato di nicchia. Ma ciò, come ho detto, si svilupperà lentamente, il programma è troppo vasto, il metodo d’insegnamento è troppo rigido e, per finire, oggi nel terzo millennio sia in occidente che in oriente le arti marziali non sono più di moda!

Copyright Simone Chierchini ©2020
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Note

[1] A quel tempo esistevano solo altri due dojo dove si praticava Aikido in Italia: uno a Torino e l’altro a Roma.

[2] Oramai tutti sappiamo che O-Sensei studiò con Takeda Sokaku per oltre 20 anni, prima di creare la sua arte.

[3] La Scuola Ono-ha Itto-ryu trasmessa in Hokkaido da Takeda Sokaku

[4] Qui vediamo come i concetti di omote ed ura sono completamenti diversi da quelli dell’Aikido.

[5] https://guillaumeerard.com/daito-ryu-aiki-jujutsu/articles-daito-ryu-aiki-jujutsu/interview-with-kobayashi-kiyohiro/


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