Il Maestro Yokota Yoshiaki: “Issatsu no Shunkan”


Il maestro Yokota Yoshiaki, 8° dan Aikikai, a mio parere dovrebbe essere uno degli shihan di Aikido più famosi al mondo, in compagnia di grandi nomi come Yamada e Chiba, Tada e Tamura. Ai miei occhi, è il meglio del meglio, ma fino a un fatidico giorno del 2008 non avevo mai sentito parlare di lui, nonostante all’epoca avessi vissuto e praticato in Giappone per sei anni. A dire il vero, Yokota sensei mi ha salvato dall’abbandonare l’Aikido. Non ho mai smesso nulla prima in vita mia, ma poco prima di incontrare Sensei ero davvero deluso rispetto a dove mi stava portando l’Aikido

di RIONNE “FUJIWARA” MCAVOY

Già all’età di dodici anni Yokota sensei era capitano del club di Judo della sua scuola media. Decise, tuttavia, di dedicarsi al Karate, e inoltre una volta al liceo entrò a far parte del club scolastico di Aikido, e per circa sette anni praticò Aikido durante il giorno e Karate la sera. Successivamente scelse di dedicarsi all’Aikido in esclusiva e trascorse due anni all’Aikikai Hombu come uchi-deshi (allievo interno). L’Aikido di Yokota sensei è potente, efficace e riconoscibile. È l’attuale insegnante del lunedì sera e del sabato pomeriggio presso l’Aikikai Hombu Dojo di Tokyo.

Per meglio comprendere la ragione per la quale ho un tale forma di venerazione per Yokota sensei, devo riportarvi ai miei inizi nelle arti marziali.

Non avevo ancora sette anni e mi trovavo a frequentare un fine settimana della durata di tre giorni organizzato dalla mia scuola elementare. Non c’era pernottamento, alla fine di ogni giornata ce ne andavamo a casa. Durante una delle attività del secondo giorno, notai un ragazzo più grande di me. Era fortemente sovrappeso, al punto che non riusciva a star dietro agli altri bambini. Aveva 12 anni, ben 5 anni più di me. Nel corso di tutta la mia vita adulta, fino all’età di 25 anni, sono sempre stato il più piccolo e magro, quindi quello che successe allora sfida ogni tipo di logica. Andai dritto dritto dal dodicenne e gli gridai: “Perché sei così lento, ciccione?”.

Che roba da stupidi.

I ragazzini piccoli non ci capiscono granché e di solito finiscono per imparare la lezione, in un modo o nell’altro. La mia lezione la ricevetti nel modo più duro. Il dodicenne si voltò e mi dette un pugno in faccia. Non mi pare di essermi rotto nulla, ma mi ricordo un sacco di sangue.

Quando tornai a casa, quel giorno, mio ​​padre non si arrabbiò perché ero stato preso a pugni; si arrabbiò perché non avevo reagito. Per capire questo tipo di mentalità, va considerato che, sebbene io sia australiano, mio ​​padre proveniva da una zona piuttosto difficile dell’Inghilterra settentrionale. Era cresciuto durante il periodo della seconda guerra mondiale e quello immediatamente successivo: tutti erano poveri e la sopravvivenza era la priorità numero uno. Combattere, mi racconta, per i ragazzi in Inghilterra era una seconda natura. Immagino che volesse che anch’io fossi così.

Prese le pagine gialle e si mise immediatamente alla ricerca della scuola di arti marziali più vicina. La più vicina era in una scuola superiore locale, e davano lezioni di Tae Kwon Do. Mio padre aveva studiato TKD negli anni ’70 subito dopo essersi trasferito in Australia, quindi mi iscrisse immediatamente. Ne salii rapidamente i ranghi e divenni cintura nera junior 2° dan nella squadra nazionale australiana under 13, ai margini di una squadra di “élite” che la federazione nazionale avrebbe allenato nel caso in cui il TKD fosse diventato uno sport olimpico ufficiale (lo divenne nel 1994, anche se fu implementato praticamente nel 2000). Un anno dopo dall’inizio della mia formazione nel TKD, una signora inglese che aiutava durante le lezioni di TKD per bambini disse a mio padre che suo marito praticava Aikido. Il momento in cui mio padre si iscrisse a quel dojo di Aikido corrisponde effettivamente all’inizio della mia pratica in Aikido. Man mano che crescevo, ha sempre cercato di praticare le tecniche su di me. Ero il suo uke ogni volta che si doveva preparare per gli esami: la maggior parte delle volte, eseguiva l’intero programma d’esame dal 5° al 1° kyu su di me in piscina (in Australia è abbastanza normale che le case abbiano una grande piscina all’aperto).

Da bambino una cosa che mi aveva colpito era che l’Aikido mi annoiava. Tutto quello che volevo fare era prendere a pugni e calci come Jean Claude Van Damme, e non ribaltare la gente come Steven Seagal. Certo, anche io, come molti altri all’epoca, sono cresciuto guardando i film d’azione degli anni ’80. Più questi ragazzacci menavano sullo schermo, più volevo essere come loro – e questo significava allenarsi di più. Mi stavo davvero godendo il mio TKD, ma un giorno all’improvviso mio padre mi tirò fuori dal TKD e mi iscrisse a un dojo di Karate.

“Non serve tirar pugni per uscire da un sacchetto di carta bagnato”, mi disse. Ed eccomi lì, a ricominciare tutto da capo, cintura bianca dopo 2 anni da cintura nera. All’inizio lo trovai difficile e riversai tutta la mia frustrazione e aggressività sui miei cotanei. Mio ​​padre era solito sedersi e guardare ogni sessione di allenamento, quasi a incitarmi. A casa mi faceva discorsi di incoraggiamento e su chi era un “fighetto” e su chi “aveva bisogno di ricevere una lezione”. Voleva che fossi il “numero uno” del mio corso e che lo dimostrassi. All’epoca non lo sapevo, ma mi stavo facendo una buona idea di cosa NON sia il budo.

Durante la mia adolescenza mi sono preso qualche anno di pausa dalle arti marziali, per poi tornare al Karate quando avevo diciannove anni. Tre mesi dopo mi ritrovai campione di kumite dello stato del Queensland, io, una cintura arancione, sul podio tra due cinture nere. Potete immaginare cosa pensò la folla quando vide una cintura arancione battere due cinture nere e vincere la categoria under 65 kg. A 19 anni pesavo 63 kg rispetto ai miei quasi 90 kg di adesso. In effetti, imparare le arti marziali da persona esile mi ha sicuramente aiutato anche quando ho iniziato a mettere su più muscoli.

Poco dopo quanto sopra feci il mio primo viaggio in Giappone. Andai a trovare il mio migliore amico, che ha viveva lì per un anno grazie ad uno scambio studentesco. Non era affatto un appassionato di arti marziali e anche se io andavo al dojo del sensei del mio sensei australiano di Karate un paio di volte a settimana, è abbastanza ovvio che a diciannove anni avevo cose più importanti in testa, e finii per lasciare del tutto il Karate.

Quelle otto settimane di permanenza finirono per trasformarsi in diciotto mesi. Tornai a casa alla fine delle otto settimane, abbandonai gli studi, lasciai il mio lavoro part time e tornai direttamente in Giappone. Trascorsi i primi tredici mesi di quella permanenza a Tokyo di diciotto mesi tra feste e bagordi.

Qualcosa però continuava a rodermi dentro: mi mancava il dojo, era nel mio sangue. Da quando avevo sei anni, avevo sempre e solo conosciuto l’allenamento. Così, nel novembre 2001, presi un mio amico di lingua giapponese, andai all’Aikikai Hombu Dojo e mi iscrissi. All’epoca pensavo che con tutto quell’allenamento di ukemi in piscina, me la sarei cavata bene.

Mi sbagliavo.

Dopo un mese all’Hombu, smisi. Volevo disperatamente essere bravo, ma non parlavo giapponese e le lezioni (anche quella per principianti al 2° piano) non sono progettate per chi non sa come rotolare o fare cadute. In effetti è un problema che incontro sempre all’Hombu Dojo anche oggi. A meno che uno non stabilisca una relazione personale con un particolare sensei, c’è pochissimo insegnamento effettivo: guardi e poi ripeti. In altri dojo, il il sistema sempai-kohai (senior-junior) è ancora in qualche modo in funzione – in Occidente, c’è adeguato insegnamento da parte del sensei – ma all’Hombu dojo non è così. Mi capita spesso di incontrare persone che hanno un disperato bisogno di qualcuno che gli insegni, ma sono troppo spaventate per chiederlo (a causa del silenzio assoluto durante l’allenamento) o non sanno come chiederlo. È un problema che dobbiamo davvero considerare.

Rionne con Tada Hiroshi sensei

Dopo aver smesso, ripresi le mie abitudini festaiole, ma dentro continuava a rodermi un qualcosa. Un amico di mio padre mi consigliò di provare il Gessoji Dojo, il famoso dojo di Tada sensei. La mia permanenza in Giappone era agli sgoccioli, dato che avevo deciso di tornare a scuola in Australia, ma pensai di andare a dare un’occhiata comunque. Mi presentai al Gessoji Dojo, incontrai Tada sensei, ma decisi che con le mie limitate capacità nel giapponese e il fatto che sarei tornato a casa tra un paio di mesi, sarebbe stato meglio aspettare.

Così, nel gennaio 2003, entrai a far parte del dojo di Aikido di mio padre. Lui ne era il maestro assistente e dirigeva una sua lezione il martedì sera. Il mio insegnante principale era un altro inglese, Graham Morris sensei. Graham era arrivato in Australia come 2° dan negli anni ’80 e aveva fondato il suo dojo, dato che a quel tempo non c’era Aikido nell’area. Il mio progetto era comunque di tornare in Giappone, quindi mi ci buttai dentro con impegno e imparai le basi, facendo il mio 5° e 4° kyu sotto Morris Sensei. Dopo un programma di scambio di un anno in Giappone (nel corso del quale studiai presso il dojo di Tada sensei, ottenendo il 3° e 2° kyu), tornai in Australia per diplomarmi al college e feci il mio primo kyu con Morris sensei.

Tutto quello che mi interessava comunque era tornare in Giappone e letteralmente la settimana dopo essermi diplomato al college ero di nuovo su un aereo di ritorno al Gessoji Dojo. Mi sono allenato a Gessoji per 4 anni – adoravo Tada sensei e tutto quello che insegnava. Tada sensei ha sviluppato un suo sistema respiratorio chiamato ki no renma (coltivazione del ki): è una roba legendaria che ancora oggi pratico privatamente. Qualcosa non funzionava per me, tuttavia, e divenni consapevole che dovevo andarmene.

Per quanto grande questo Maestro fosse, tanto amichevole quanto i suoi allievi, avevo un background diverso. Ero abituato a combattere nei tornei, ero abituato a sentire le farfalle nello stomaco prima dei grandi combattimenti (almeno per me erano grandi). Ero abituato a un tipo di allenamento duro (flessioni, addominali e squat erano normali nel mio dojo di Karate), e avevo iniziato a diventare disilluso rispetto all’Aikido.

In quel periodo il BJJ stava prendendo quota (ricordo due amici scozzesi, che facevano BJJ, ridicolizzarmi per aver fatto Aikido), l’UFC stava raggiungendo il picco e qui c’era io, piccolo ed esile, che cercavo di fare qualcosa che non ero del tutto a mio agio nel fare. Così iniziai ad andare ad allenarmi duramente in palestra al mattino, e anche se la sera andavo ancora al Gessoji, ripresi anche ad andare all’Hombu Dojo.

Ho praticato con diversi shihan dell’Hombu, ma anche se ho fatto nuove amicizie e imparato nuovi modi di fare Aikido – tuttavia, qualcosa continuava a non tornare. Questo non era l’Aikido che volevo fare. Queste non erano le arti marziali che volevo fare.

Ero a un bivio. Volevo smettere, ma non volevo arrendermi.

“Perché non ricominci a fare Karate?”, mi chiese uno dei miei amici, un americano di nome Eric che era un kickboxer professionista dei pesi massimi a Tokyo (RIP – che Dio benedica la tua anima). Ero già in Giappone da diversi anni in quel periodo e avevo stretto un buon numero di amicizie strette qui.

“No”, gli risposi. “Voglio essere un wrestler professionista”.

Lui si mise a ridere.

Riuscite a immaginarlo? Al tempo pesavo circa 75 kg, dopo aver aggiunto buoni 10 kg di muscoli, ma ancora troppo esile per essere un lottatore.

Eric mi disse: “Guarda amico. In Giappone, i ragazzi dell’MMA fanno Pro Wrestling, chi pratica kick boxing fa MMA, tutti qui fanno tutto. Perché non vieni con me all’Ihara Kickboxing Dojo – chi lo sa mai dove potrebbe portarti”.

Accettai. Non mi avrebbe fatto male, no? Dopotutto, mi mancava il poter calciare. Mentre stavo crescendo, mio padre mi aveva fatto fare pad per calci e pugni 3 giorni alla settimana dopo la scuola. Si era anche assicurato che trascorressi almeno 1 ora al giorno al sacco prima che facessi i compiti per scuola. Per lui venivano prima le arti marziali, poi la scuola. Lo ringrazio intimamente ogni giorno per questo.

Per tutto il 2007 e metà del 2008 ho giostrato insieme palestra, Kickboxing e Aikido. La gente al Gessoji Dojo, aikidoka sia giapponesi che stranieri, presero a fare commenti del tipo: “Stai diventando troppo muscolare. Il tuo Aikido non sarà buono”, e “Non puoi fare entrambe le cose, dovresti semplicemente scegliere l’Aikido”. Questo non aveva alcun senso per me, ed era uno dei motivi per cui volevo mollarlo del tutto e fare Kickboxing.

Presi una decisione. Alla fine del 2008 avrei lasciato l’Aikido e avrei iniziato a fare Kickboxing a tempo pieno, con la speranza di diventare un giorno un lottatore. L’unico motivo per cui non smisi subito è stato il fatto che un mio amico australiano stava per venire a Tanabe, il luogo di nascita di O’Sensei, per il Congresso Internazionale IAF del 2008.

Sarebbe stato divertente, ho pensato: con il mio vecchio amico sul tatami in Giappone, birre e bagordi dopo l’allenamento. La domenica abbiamo fatto il check-in e il lunedì successivo è iniziata la settimana di allenamento. Il primo insegnante fu Seki shihan. Non l’avevo mai visto prima e i suoi insegnamenti mi piacquero più di ogni altro che avevo visto. Era lui il mio uomo? Ma non dovevo smettere comunque? Seki sensei finì per diventare il mio secondo insegnante preferito all’Hombu, ma a quel punto avevo già preso la decisione. Ho chiuso con l’Aikido. Questo congresso di Tanabe è stato il mio giro d’addio.

Trenta minuti di riposo dopo la lezione di Seki shihan, salì sul tatami un altra persona di cui non avevo sentito parlare, Yokota shihan. Suzuki Toshio sensei gli faceva da uke. A quel punto il mio giapponese era abbastanza buono e Yokota sensei disse a Toshio sensei, “Yosshu, yokomen ikou“, che si può liberamente tradurre con “Dammi uno yokomen”.

Yokota Yoshiashi

Avete visto tutti il ​​vecchio show di Batman degli anni ’60. Ogni volta che veniva tirato un pugno o c’era un qualche tipo di azione, sullo schermo lampeggiavano parole in modo comico. POW! SWISH! WHACK! ZLOPP!

Yokota sensei spiegò la sua prima tecnica. I miei occhi si spalancarono per lo stupore. Che cosa stavo vedendo? L’ho capito in un istante: avevo trovato il mio Sensei. Avevo passato tutta la mia vita Aikido a cercare questa persona e finalmente l’avevo trovata. È un momento che non dimenticherò mai nella mia vita, lo paragono allo scoprire la carriera per cui sapevi di essere nato.

Con mio grande stupore, Sensei tirò un calcio laterale per dimostrare la corretta distanza. Al tempo in cui scrivo questo articolo, la sera scorsa me ne ha tirato uno mentre mi usava per ukemi all’Hombu Dojo. I suoi calci sono affilati, precisi e veloci come qualsiasi karateka di alto rango. A quel congresso a Tanabe, per divertimento usò un armbar per bloccare uke da iriminage. Ero stordito dall’eccitazione. Il suo Aikido non era brutale (anche se ho sentito delle storie su quando era giovane), ma ai miei occhi era il più vicino alla perfezione che avessi mai visto. Tutto quello che stavo cercando era finalmente davanti a me.

Provenendo da un background basato su calci e pugni (e negli ultimi 10 anni, wrestling e grappling) per me l’Aikido doveva sempre avere un senso dal punto di vista marziale. Ecco uno che ci mostrava che l’Aikido è davvero una vera arte marziale con un vero intento marziale.

Ero seduto in seiza, sicuramente con l’aspetto di un bambino in un negozio di dolci, quando Sensei mi guardò e indicò. Il mio cuore prese a battere forte. Mi alzai e lo afferrai. Non ricordo cosa sia successo dopo. Ricordo di essermi trovato a terra, e ricordo che l’unica cosa che mi salvò dall’infortunarmi è stato il mio ukemi. Non che Sensei volesse farmi del male – voglio dire che a uno che non fosse addestrato a ricevere ukemi avrebbe staccato la testa! Mi proiettò di nuovo. Stesso risultato. Per la seconda volta nella mia vita in Aikido (una volta afferrai il polso di Tada sensei e lui mi mise in sankyo prima che potessi contare fino a due), non avevo “eseguito” ukemi; avevo semplicemente “fatto” ukemi naturalmente. La differenza è difficile da spiegare, ma posso attribuirla a questo: in quanto uke, si va ad attaccare tori, ma si conosce il proprio ruolo, si sa che bisogna seguire a dovere e si è conformi al 100%. Con Yokota sensei è diverso. Attacchi, e lui o è lì, proprio addosso, oppure è un fantasma che si è spostato ed è pronto a farti a pezzi. Ti metterà a terra e tutto ciò che puoi fare è “fare” ukemi. In giapponese la differenza è tra “ukemi wo toru“, prendere ukemi, contro “ukemi wo suru“, fare ukemi.

Lasciai il Gessoji Dojo la settimana successiva. Fu una cosa difficile da fare, ma ero divenuto consapevole del fatto che il percorso che volevo seguire era con Yokota sensei all’Hombu Dojo.

Quando Sensei tornò all’Hombu la settimana dopo il seminario a Tanabe, io ero lì, uno dei primi sul tatami. Mentre ci mettevamo tutti in fila, vidi un uomo calvo, asciutto ma muscoloso, che faceva stretching come una ginnasta. Non appena Sensei si inchinò e ci alzammo per far riscaldamento, lui corse in prima linea. Nel corso dei 10 minuti di stretching, quel tipo, il cui aspetto mi ricordava Jason Statham, si riscaldava in un modo che non avevo visto in precedenza. Non sapevo che stavo guardando DJ, il mio futuro senpai e uno dei miei futuri migliori amici.

L’ho già accennato brevemente, ma è qui che l’importanza della relazione senpai-kohai nelle arti marziali è così importante. DJ, americano, esperto marzialista a pieno titolo e uno dei migliori allievi di Yokota sensei, ha contribuito a colmare le lacune. È stato il mio “traduttore di Yokota”, aiutandomi a capire cosa stesse dicendo DAVVERO Yokota sensei. Quando ci si allena con alcuni dei grandi shihan, a volte sento che c’è un divario troppo grande da superare. Certamente l’ho provato con Tada sensei, la cui conoscenza è infinita, ma i cui studenti cercavano di replicare quasi settant’anni di arti marziali senza sapere veramente cosa avesse reso Tada sensei l’uomo e l’insegnante che è.

DJ mi ha mostrato come bisognerebbe tirar su un kohai: a prendersi cura di Sensei quando necessario, a pulire il dojo, usi ed etichetta, e talvolta a dover essere il cattivo quando ospiti stranieri esageravano nel comportarsi in modo sciatto nel dojo. Ora ho anch’io un paio di kohai e, grazie al DJ, penso di star facendo un lavoro decente con loro.

Sebbene Yokota sensei voglia che l’Aikido sia una luce guida per la pace, mostrando la vera bellezza dell’Aikido, crede anche pienamente che dal punto di vista del budo, l’Aikido possa essere usato per l’autodifesa. Per Yokota sensei, issatsu no shunkan significa che l’ “opportunità” di attaccare o difendere è solo in un istante. Questo è incluso all’interno del waza (tecnica).

Sensei ci insegna a muoverci e reagire seguendo l’istinto naturale e ad avere quante più armi possibili. Issatsu no shunkan è un qualcosa che bisogna coltivare da soli, ma per quanto riguarda il waza, vuole che ci muoviamo e reagiamo: non essere mai statici, mai pesanti. Molti altri sensei vogliono rallentare le cose, sentire la connessione, il peso e questo va benissimo. È diverso, ma va bene; è solo un altro stile di Aikido. Yokota sensei non si concentra sul lento e pesante; si concentra su velocità e tempismo. Ci mostra dove si può essere presi a calci e pugni, e dove è possibile proiettare. Si può vedere che ha studiato Karate e Judo, dal momento che permeano il suo waza di Aikido.

Ad esempio, in iriminage, solitamente si gira e poi “pow”: si proietta. In realtà, tuttavia, non si può ruotare, non puoi fare quel bel movimento fluido ed elegante. Una volta che sei entrato, “pow”, devi proiettare immediatamente. Tutto questo è incluso nella nostra pratica di Aikido.

Gruppo di allievi con Yokota sensei all’Aikikai Hombu Dojo. Rionne è il primo a sinistra

Per quanto riguarda ukemi, ci è sempre stato insegnato che bisogna sentire, sì, ma Sensei ci dice sempre di imparare ad evitare di essere colpiti. Molti fanno ukemi esclusivamente in modo che il proprio partner sia in grado di fare tecniche, quindi diventa una pratica in cui entrambi si muovono elegantemente (o almeno per questa generazione più giovane, per YouTube). In realtà, ukemi significa sfuggire. Se non sei bravo nell’ukemi, se non sai ricevere ukemi, non puoi capire l’Aikido. Ricevere ukemi e proiettare sono entrambi ugualmente importanti.

Yokota sensei è la persona che mi ha fatto credere di nuovo nell’Aikido. Sapere che proviene da un background di Karate e Judo mi dà anche la confidenza di uscire fuori e fare cross-training. È stato DJ che mi ha insegnato l’idea che l’Aikido è sogou budo (un’arte marziale onnicomprensiva), e che per capire quanto possa essere potente l’Aikido, dovremmo uscirne e allenarci in altre arti marziali. È vitale acquisire altre abilità necessarie per tappare tutti i buchi dell’Aikido moderno. Nell’Aikido di Yokota sensei è possibile vedere il Karate, così come è possibile notare la sua vasta conoscenza delle armi.

Copyright ©Pacific Pro Wrestling

Nell’aprile 2012, alla veneranda età di 30 anni, mi sono iscritto a un dojo di wrestling professionale gestito dall’ex superstar della WWE Yoshihiro Tajiri. Questo è praticamente inaudito in Giappone per due ragioni:

  1. Gli stranieri semplicemente non possono entrare in un dojo di wrestling professionale giapponese e iniziare ad allenarsi. Di solito, per essere presi in considerazione devono avere qualche tipo di esperienza precedente e anche in questo caso, di solito ricevono un bel NO. La mia conoscenza del giapponese e la mia precedente esperienza nelle arti marziali mi hanno aiutato a mettere un piede nella porta.
  2. A 30 anni, ero considerato troppo vecchio per essere un principiante con zero esperienza di wrestling.

Quello di cui non mi ero reso conto quando mi sono iscritto è stato che stavo per ricevere un’istruzione vecchio stile di arti marziali giapponesi. L’industria del wrestling qui in Giappone non ha raggiunto I livelli dell’Occidente ed ha ancora una mentalità tipo “o ce la fai o crepi”. Non sono mai stato sottoposto a un allenamento fisico così intenso in tutta la mia vita. Abbiamo fatto un minimo di 300-500 hindu squat ogni sessione e innumerevoli altri estenuanti esercizi di condizionamento. Quello che all’epoca non sapevo era che, come mi aveva detto Eric, fin dall’inizio del Wrestling professionistico in Giappone, tutti avevano effettivamente fatto cross training. Tutti i lottatori professionisti originali in Giappone erano principalmente praticanti di Sumo o Judo. Quindi più avanti, quando mi sono trovato a girare un documentario per Olympic Channel sul judo giapponese [1] (sono anche un regista), è stato sensato il vedere che il mio allenamento cardio di Wrestling è esattamente lo stesso che facevano gli atleti di Judo olimpico. In effetti, uno dei pionieri del primo Wrestling professionistico in Giappone fu Kimura Masahiko, che è universalmente considerato uno dei più grandi judoka di tutti i tempi. È anche l’uomo che ha battuto Hélio Gracie, colui che ha sviluppato il Gracie Jiu-jitsu, con un leva ude-garami rovesciata che ora viene spesso chiamata “Kimura”.

Rionne festeggia un’altra vittoria alla Shinjuku Face Arena

Mentre perseguivo una carriera di wrestling a tempo pieno, ho smesso di fare Aikido per 3 anni. Non sapevo che stavo frequentando una master class in grappling e wrestling, anche se tutto il tempo pensavo di star facendo wrestling in stile WWE (la differenza tra lo stile americano della WWE e il Wrestling professionale in stile giapponese è enorme).

Mi ci sono voluti tre anni per smettere e poi tornare ad apprezzare appieno l’Aikido di Yokota sensei. Avevo un nuovo set di abilità nella mia manica che non avevo prima di lasciare l’Aikido e ho capito subito quanto sia importante il cross-training. Sono grato a Yokota sensei (e DJ) per avermi mostrato che l’Aikido è davvero l’arte marziale onnicomprensiva, dobbiamo solo sapere cosa stiamo cercando.

Note

[1]
9 minute version: https://www.olympicchannel.com/en/video/detail/how-japan-came-to-be-a-land-of-judo-legends
26 minute director’s cut: https://vimeo.com/497241478

Copyright Rionne McAvoy © 2020
Tutti i diritti sono riservati. Ogni riproduzione non espressamente autorizzata è severamente proibita

Il presente articolo è stato pubblicato su Aikido Italia Network grazie alla cortese autorizzazione dell’autore

Fonte: Rionne McAvoy, It Had To Be Felt #65: Yokota Yoshiaki: “Issatsu no Shunkan”, Aikiweb, 2020 http://www.aikiweb.com/forums/showthread.php?t=25726


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