
Tratto da “Il Sensei – A Proposito di Yoji Fujimoto”, il volume realizzato da alcuni senpai del Maestro, vi presentiamo questa testimonianza di Simone Chierchini sulle uniche qualità dell’insegnamento di Fujimoto sensei, quelle che hanno costituito l’ossatura dell’inarrivato “Metodo Fujimoto”
di SIMONE CHIERCHINI

Io penso che, prima di tutto, il maestro Fujimoto fosse un insegnante naturale, questa è forse la migliore definizione che se ne possa dare. La chiarezza della sua linea didattica finiva per rendere semplice un mestiere che è, in realtà, estremamente difficile. Chiunque insegna lo sa: insegnare è uno dei mestieri più complicati che ci sono – insegnare bene ovviamente. Lui lo faceva in modo naturale, gli veniva fuori spontaneamente. Non penso che avesse un piano di azione: quando lui insegnava con quel livello di efficacia, era se stesso.
Ho praticato Budō per tanti anni, ormai sono quasi 50 anni, e di insegnanti ne ho incrociati davvero tanti: non ho però mai più incontrato un insegnante che fosse tanto naturalmente dotato nel passare l’informazione in un modo semplice, leggibile e riproducibile – e questo è, alla fine, il compito, il dovere dell’insegnante, se vogliamo definirlo con tre semplici espressioni.
Inoltre, come insegnante aveva un’altra dote eccezionale: sapeva come carpire l’attenzione degli astanti, e quindi in questo senso era anche un ottimo mestierante. Sapeva quali gesti utilizzare, di quali espressioni servirsi. Prima Roberto Travaglini parlava del suo tono di voce. Sapeva creare piccole scene – ne ricordo tante, con fasce legate attorno alla testa, con uso di cinture, cappellini… – tanti piccoli episodi che poi aiutavano fondamentalmente a creare un’atmosfera di serio impegno fisico, ma allo stesso tempo a mantenerla entro limiti accettabili, ossia aperta, possibile, gradevole. Realizzava il cerchio perfetto di questo sistema.
Il Sensei
A Proposito di Yoji Fujimoto
I Dialoghi Aiki #7
di S. Chierchini, R. Foglietta, U. Montevecchi, R. Travaglini
Questo volume si sforza di svolgere un compito assai difficile: quello di far rivivere la voce e le opere di uno dei personaggi più amati dell’Aikidō italiano.
Yoji Fujimoto sensei non c’è più da quasi 10 anni e ha lasciato dietro di sé migliaia di allievi che non hanno mai smesso di rimpiangerlo.
Dal 1971, anno del suo arrivo in Italia, il maestro Fujimoto ha dedicato la sua intera vita e ogni sua energia alla pratica dell’Aikidō.
In questo libro, alcuni degli allievi anziani del maestro Fujimoto – Roberto Foglietta, Ugo Montevecchi, Simone Chierchini e Roberto Travaglini – cercheranno, nel limite delle loro capacità e memorie, di rievocare la figura e l’insegnamento di Fujimoto sensei.
Inoltre sapeva quando correre e quando andare piano: questa è un’altra dote essenziale di un grande insegnante. Non era mai monocorde, il suo insegnamento era ad onda, praticamente, ed era in grado di interpretare molto bene – di nuovo in modo istintivo, naturale, queste cose è difficile impararle se uno non le possiede veramente – l’umore, l’energia della classe: quindi accelerare o rallentare a seconda delle necessità. Poteva insegnare cose anche estremamente complicate a chi aveva ristretti mezzi tecnici per apprenderle, fondamentalmente: io ho visto e ricordo benissimo principianti e avanzati fare assieme cose abbastanza complicate, semplicemente attraverso l’osservazione diretta, con ovviamente alcuni pointers, cioè delle indicazioni ben precise che servivano a mettere in moto certi meccanismi.
Aveva un’altra grande caratteristica, che io ho cercato di copiare nella mia modesta carriera di insegnante: aveva una memoria visiva incredibile e quindi riusciva a ricordare gli allievi che aveva incontrato nei suoi seminari in giro per l’Europa, o per il mondo, magari anche una volta sola, ma li ricordava. Quindi il suo, anche se a livelli diversi, come è stato spiegato abbondantemente finora, rimaneva comunque un insegnamento ad personam, non era l’insegnamento supermercato che si vede spesso nei grandi seminari a cui purtroppo ci siamo dovuti a nostro malgrado abituare con la popolarizzazione dell’arte. Il suo comunque rimaneva un insegnamento personale, perché le persone che lui aveva davanti rimanevano persone anche dentro la sua testa, e lo dimostrava apertamente creando poi questo tipo di legame, di bond, una connessione forte. È importante dire che se c’era comunque un livello differente rispetto a quello che comunicava ai suoi allievi diretti, passare da uno stato ad un altro nella condizione di allievo era una possibilità aperta. Non è che avesse preclusioni di qualsiasi tipo: l’unica cosa richiesta era l’impegno. Dovevi dare l’impegno.
Molto di questo lavoro nel tempo è stato descritto come potenza ed eleganza. Lo trovo abbastanza riduttivo, perché sì, certo, è vero che l’eleganza del maestro Fujimoto è diventata quasi proverbiale ed era unita ad una delicatezza assoluta, come descritto perfettamente in precedenza da Roberto Foglietta: la scelta del tempismo, il contatto erano comunque veramente di gran qualità. Però questa sua eleganza non era in nessuna misura ricercata e chi l’ha conosciuto, chi gli è stato veramente vicino, sa che a lui dell’opinione degli altri non importava assolutamente niente. Zero. Quindi non ricercava un’approvazione in senso estetico. Semplicemente la sua azione, il suo modo di essere era bello in per sé, per così dire.
Il suo stile di insegnamento non è sempre stato lo stesso, ovviamente, non è una cosa monolitica, e avendo insegnato per così tanto tempo, come lo faceva è cambiato anche in misura notevole nell’arco degli anni.
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