Yoji Fujimoto: Dalle Ciliegie al Palalido


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Riproponiamo questa fresca e rilassata intervista a Yoji Fujimoto sensei, originariamente pubblicata da “Aikido”, dell’Aikikai d’Italia nel 1991, in cui si fotografa perfettamente il carattere gioviale e spontaneo del maestro, quel carattere che lo ha fatto amare da schiere di allievi 

di GIGI BORGOMANERI

Yoji Fujimoto, anni quarantatrè (“appena” come dice lui); segno zodiacale ariete. Laureatosi in Scienze Motorie all’Università Nihon Taikudaigaku e Shihan dal 1981, ha praticato Judo, Kendo e ha avuto un debole per il baseball, poi…

G.B.
Maestro, vuole raccontarci come è avvenuto il suo incontro con l’Aikido?

FUJIMOTO
Bisogna risalire ai tempi dell’università. Con un gruppo di amici, tutti studenti della Nitaidai, avevamo appena cominciato a praticare Aikido, ma il nostro club aikidoistico non era ancora ufficialmente riconosciuto dall’autorità accademica.
A noi, costretti a girare di dojo in dojo e con pochi soldi per pagare le quote mensili, premeva avere un buon Maestro e praticare con continuità, all’Hombu Dojo interessava sviluppare l’
Aikido universitario e così, anche grazie a una fortunata serie di coincidenze – il rettore era compaesano e buon conoscente di O-Sensei- ci venne assegnato il Maestro Koichi Tohei, che all’epoca faceva parte del corpo docente dell’Hombu Dojo con la qualifica di Shihan Bu-jo (capo istruttore).
Il nostro club venne ufficialmente riconosciuto, ma purtroppo le numerose incombenze del Maestro Tohei gli impedirono ben presto di dedicarsi a noi, ed io mi rivolsi allora al Maestro Masuda, il quale venne incaricato dall’Hombu Dojo di seguire lo sviluppo aikidoistico del nostro club.
Per convincerlo a prendersi cura di noi, gli dissi che non si sarebbe trattato di un grande impegno… giusto il tempo necessario a farci le ossa, e invece da allora il Maestro Masuda non ha più smesso di occuparsi dell’ambiente universitario, tanto che oggi [1991, NdT] è il Direttore Tecnico del settore Aikido di tutte le Università del Giappone.

G.B.
Come ha poi deciso di lasciare il suo paese e di trasferirsi proprio in Italia?

FUJIMOTO
Per la verità era un’idea che era venuta maturando già dalla fine delle scuole medie inferiori.
L’Aikido non c’entrava niente allora, volevo uscire dal Giappone, vedere altri paesi. Ne parlai con mio padre il quale, nascondendomi il suo disaccordo, prese tempo dicendomi che nel mondo moderno la licenza media inferiore non era più sufficente a garantire prospettive per il futuro e che sarebbe stato meglio completare gli studi superiori.
Finito il liceo tornai alla carica. Mio padre mi diede la sua aprovazione ma, questa volta, fu mia madre che prima di acconsentire volle interpellare i miei insegnanti.
Avevo un professore che giocava a calcio nella nazionale giapponese e aveva frequentato la Nitaidai, il quale mi consigliò di frequentarla.
Mi disse in sostanza che la mia preparazione non era ancora completa e che un conto era recarsi all’estero da turista, altro era costruirsi un futuro. La Nitaidai godeva fama di Università  dalla rigida disciplina e severamente formativa: se ce l’avessi fatta a superarla avrei forse avuto delle buone carte da giocare per il mio futuro e così mi laureai in Scienze Motorie.

Fujimoto Yoji - Chiba Kazuo
Kazuo Chiba e Yoji Fujimoto firmano il poster del raduno estivo di Desenzano del 1972

G.B.
Lei è stato invitato in Italia dall’Hombu Dojo per continuare il lavoro già avviato dal Maestro Tada e contribuire allo sviluppo dell’Aikido nel nostro paese. Erano gli inizi degli anni ’70, anni in cui in Italia il Judo primeggiava ancora tra le arti marziali e il Karate era in piena ascesa. È stato difficile all’inizio?

FUJIMOTO
Mah… non ricordo particolari difficoltà… I problemi erano soprattutto di ordine burocratico: il permesso di lavoro, i documenti vari e cose di questo genere. Per il resto, l’iniziale mancanza di allievi, la fatica per cominciare a raccogliere un po’ di praticanti… beh, tutto questo è normale.
Gli inizi sono sempre difficoltosi, ma questo lo sapevo già, me lo aspettavo. Se uno vuole vivere cominciando a vendere accendini in un posto in cui tutti hanno sempre usato solo fiammiferi, si farà fatica all’inizio, ma questo è normale, no?

G.B.
Però in qualche palestra, per dimostrare “sul campo” l’efficacia dell’Aikido, Lei ha dovuto anche praticarlo in un modo forse pur sempre elegante, ma di sicuro un po’ più energico di quello a cui siamo abituati.

FUJIMOTO
Si… più “cattivo”, più aggressivo… però qualsiasi cosa all’inizio è così.

G.B.
Anche in un’intervista concessa a Telelombardia Lei ha affermato che gli inizi della sua esperienza italiana furoni duri. Dal punto di vista economico “quanto” furono duri?

FUJIMOTO
Ah… economicamente fu molto dura (e qui il Maestro ci picchia una sonora risata). Tanto per capire: io insegnavo tre o quattro volte la settimana in una palestra, avevo una sessantina di allievi, e le trentamila lire che guadagnavo se ne andavano tutte per l’affitto di casa.
Allora abitavo con un judoka e un karateka e c’era sempre un via vai di altra gente che veniva ospitata; in pratica c’erano quasi sempre sette o otto persone. Sì, ognuno divideva le spese – si fa per dire – ma un lavoro vero l’avevo soltanto io.
Però in qualche maniera da mangiare c’era: quando c’erano i soldi si comperava… non so… una decina di chili di riso; mi ricordo che una volta abbiamo vissuto cinque o sei giorni soltanto di ciliegie; un’altra volta, era d’estate, soltanto di anguria… anguria e sale, come si usa in Giappone… mettendo il sale diventa più dolce. Eh si, economicamente è stata dura, ma non più di tanto… eravamo giovani.

Fujimoto Yoji 07
Fujimoto sensei ritratto nel giardino del Dojo Centrale di Roma (1972)

G.B.
Come mai decise di stabilirsi proprio a Milano?

FUJIMOTO
All’inizio non c’è stato un preciso motivo, piuttosto si è trattato di un intreccio di combinazioni tant’è che io desideravo andare negli Stati Uniti, dove il Maestro Tohei aveva una serie di conoscenze.
A quel tempo c’era il Maestro Tada a Roma e ad occuparsi di Milano c’era un altro Maestro giapponese, di nome Kawamukai, che insegnava Aikido in una palestra di Judo, l’Asahi mi pare; il Maestro Kawamukai svolgeva però anche un’attività commerciale ed il suo padrone, un americano di origine giapponese, era amico del Maestro Tohei, così quando, con l’approvazione del Maestro Tada, Kawamukai richiese un insegnante che potesse affiancarlo mi fu offerto di venire in Italia ed io, che allora ero terzo dan, venni a Milano.
Subito dopo, si tenne uno stage, forse per Pasqua, non ricordo bene, e conobbi il Maestro Tada al quale chiesi dove sarebbe stato meglio stabilirmi. In sostanza mi disse che se non ce l’avessi fatta economicamente avrei potuto ripiegare su Roma dove c’era il Dojo Centrale già avviato – il Maestro Tada a quel tempo non risiedeva più stabilmente nella capitale – se invece fossi riuscito a superare le iniziali difficoltà di inserimento, sarebbe stato meglio restare a Milano, sia per la diffusione dell’Aikido nell’Italia settentrionale, sia per le potenzialità economiche del capoluogo lombardo, tanto Roma aveva già un buon numero di praticanti ed era in grado di cavarsela da sola. E così rimasi qui.

G.B.
E come è andata?

FUJIMOTO
Dapprima ho insegnato alla palestra Asahi, poi al Nippon Club in via delle Termopili, nel ’72 mi pare, dove sono rimasto per due o tre anni e dopo ho affittato la palestra del Collegio dei Padri Salesiani.
È cominciata ad arrivare gente, avevamo bisogno di uno spazio più ampio e, tramite un amico che aveva buone conoscenze presso le Suore Orsoline in viale Majno, ho potuto affittare una palestra allora inutilizzata nel loro isituto.
Gli allievi sono aumentati ancora, il canone d’affitto rincarava ogni anno e così, a furia di cercare una soluzione, nell’83 siamo arrivati qui in via Porpora.
È andata bene, eh!

G.B.
Cambiamo discorso, Maestro, parliamo di Ki…

FUJIMOTO
Macchè Ki! (interrompe il Maestro esplodendo in una risata contagiosa).

G.B.
No, Maestro, parliamone. C’è chi ci ironizza, c’è chi lo crede una sorta di forza magica da romanzo di Tolkien e chi invece pratica e non si pone il problema Lei che ne dice? Qual è, secondo lei, il rapporto tra Ki e vita quotidiana?

FUJIMOTO
Vivo… vuol dire che c’è anche Ki (sorride sornione).
Forse quando settant’anni parla di Ki (in giappaliano NdR).

G.B.
Va bene, messaggio ricevuto Maestro.
Torniamo ai suoi vent’anni in Italia. Nel corso di questo tempo lei è avanzato d’età come tutti è cambiato, è cambiato il suo Aikido, il modo di viverlo, di praticarlo, e sicuramente di insegnarlo.

FUJIMOTO
Lo spero!

G.B.
No, Maestro, è Lei che deve dirlo.

FUJIMOTO
Innanzitutto – alcuni sono d’accordo, altri un po’ meno – oggi la direttiva dell’Hombu Dojo, il pensiero del Doshu è: “L’Aikido è per tutti”. Non solo per alcune categorie di persone, è per tutti; deve quindi essere praticabile da tutti indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla prestanza fisica. Quando ero più giovane non la pensavo così.
A volte mi arrivavano nuovi praticanti e io… non è che li mandassi via, ma dopo un po’ se ne andavano e non tornavano più.

Fujimoto Yoji 11
Fotoservizio per “Max”, 1989

G.B.
Vuol dire che non li respingeva, ma li poneva di fronte a difficoltà tali per cui si allontanavano da soli?

FUJIMOTO
(Il Maestro annuisce e continua) Con il tempo un uomo cambia, forse l’età o forse perchè il mondo stesso è cambiato e questo cambiamento non l’ho voluto io.
Non mi sono posto il problema: “Il Doshu ha detto che l’Aikido deve essere praticabile da tutti e quindi io devo cambiare”.
Certo il Doshu è la guida dell’Aikido mondiale e noi Shihan dobbiamo seguirne le direttive; ma il problema, ripeto, non si è posto in questi termini, è stato un processo naturale.
D’altra parte lo stesso Doshu dice: “Non sono io che ho voluto qusti cambiamenti, tutto è cambiato”.
È cambiato il mondo, sono cambiati i bisogni, la mentalità, i comportamenti e quindi anche l’Aikido; anche il modo di praticare e di insegnare è cambiato.

G.B.
In questi vent’anni Lei ha anche accumulato una grande conoscenza conoscitiva dell’Aikido europeo. Ogni paese, si dice, presenti delle proprie caratteristiche nel modo di praticare. Quali sono, secondo Lei, nel bene e nel male, le caratteristiche degli aikidoka italiani, quali, rispetto agli altri europei, i nostri lati positivi e negativi?

FUJIMOTO
L’Aikikai d’Italia presenta molti aspetti positivi ma non è stata ancora capace di svilupparsi più  di tanto.
Da una decina d’anni il numero degli iscritti è grosso modo stazionario e questo è un punto sul quale è necessario riflettere.

G.B.
Questo per quanto riguarda la vita dell’Aikikai, ma tecnicamente qual è il suo giudizio sugli italiani?

FUJIMOTO
Gli italiani sono bravissimi, molto bravi ma, tanto per capirci, attualmente ci sono in Italia tre insegnanti giapponesi, ed è sempre stato così. Quale altro paese europeo presenta una situazione simile? 

Fujimoto Yoji 08
Fujimoto Sensei durante un seminario a Milano (1988) – foto di Annamaria Testori

G.B.
Quindi Lei dice che l’Italia ha goduto di una storia, per così dire, privilegiata, ha beneficiato di maggiori possibilità di crescita.

FUJIMOTO
Inoltre ogni anno si presentano diverse occasioni per seguire altri Maestri che vengono dall’estero e quindi ci sono più possibilità di verifica, di confronto con altri stili, di arricchimento del proprio bagaglio aikidoistico. Questo vale anche per noi Maestri. É un po’ – anche se l’espressione è la più adatta – come la concorrenza. Se dobbiamo confrontarci con un’altra persona non possiamo rimanere prigionieri della nostra routine, siamo stimolati a cercare il nuovo, a crescere.
In questi ultimi cinque o sei anni l’Aikikai Milano ha avuto un buon sviluppo e oggi funziona bene; abbiamo organizzato due grosse manifestazioni al Palalido, il numero dei nostri iscritti è aumentato; poi abbiamo cominciato ad avere rapporti con persone anche al di fuori del mondo delle arti marziali, persone che oggi collaborano con noi e contribuiscono alla diffusione dell’Aikido. Tutto è cambiato e siamo cresciuti anche perchè pure io sono cambiato. Prima pensavo solo a mestesso; d’altra parte quando una persona attraversa momenti economicamente difficili, la necessità di guadagnare assorbe la maggior parte dei suoi pensieri e non è facile pensare ad altre iniziative. In questi ultimi cinque-sei anni la situazione si è modificata, così ho avuto modo di cominciare a invitare altri Maestri e, con la loro presenza, anche io sono cambiato… anche tecnicamente, no?
Vorrei continuare a cambiare un po’…

G.B.
Per non ci ha detto se esistono dei risvolti negativi nei praticanti italiani. Insomma, Maestro, qual è il maggior difetto degli italiani?

FUJIMOTO
Non è un difetto degli italiani, è un difetto comune degli occidentali: in Giappone si dice che quando uno diventa Shodan ha compiuto solo il primo passo di un lungo cammino.
Da noi uno Shodan è soltanto un praticante che ha iniziato a camminare da solo, tutto qui.
Qui invece quando uno supera l’esame di Shodan si considera gia quasi come un “grande maestro”. Ma anche questo sta cambiando e cambierà ancora. Quando sono arrivato in Italia c’erano pochissimi Shodan e rispecchiavano un’altra epoca, un altro modo di praticare, un’altra concezione.
Adesso invece ci sono parecchie cinture nere, anche secondi e terzi Dan… e giovani.

G.B.
Parliamo di questioni pratiche, Maestro. Il notevole aumento del numero degli allievi registratosi negli ultimi tre o quattro anni nell’Aikikai Milano pone una serie di problemi, il primo dei quali è sicuramente legato al reperimento di più ampi spazi per potersi allenare.

Aikijo practice in Laces (Italy) – 1988

FUJIMOTO
Si, diciamo che abbiamo iniziato a muoverci per trovare una possible soluzione. Ma per il memento non vorrei dire di più…
Noi abbiamo bisogno di molto spazio, non soltanto per poter praticare in modo adeguato, ma anche per sviluppare eventuali iniziative collegate alla cultura giapponese. Non è semplice trovare un ambiente adatto alle nostre necessità che sia anche a costi accessibili. Per questo ci stiamo muovendo in diverse direzioni, vedremo…
Apporteremo anche qualche ritocco agli attuali orari del dojo. Adesso le lezioni coprono un arco di trentuno ore settimanali articolate su sette giorni, domenica mattina compresa; al mercoledì però abbiamo solo due ore di lezione ed è  un peccato. Magari ne aggiungeremo altre due, anche se di certo non è la soluzione al nostro principale problema che, allo stato attuale delle cose, rimane di trovare una nuova sede che soddisfi le nostre nuove esigenze.

G.B.
Nel frattempo, Maestro?

FUJIMOTO
Andare avanti, continuare a praticare. Praticare è la cosa più difficile perchè non basta praticare, bisogna vedere come lo si fa. Ecco, possiamo dire che forse è questo il difetto di molti aikidoka italiani: si abituano, si “riempiono” di uno stile di un maestro e poi non riescono più a essere disponibili, ricettivi nei confronti degli insegnamenti di un altro Maestro.
Per imparare, per acquisire ciò che c’è di nuovo, di diverso ci viene proposto, bisogna “svuotarci” di ciò che abbiamo appreso Ovviamente non vuol dire dimenticare le basi, gli insegnamenti fondamentali. Tra poco, ad esempio, si terrà lo stage del Maestro Masuda e se un praticante ha la testa “piena” non so, dello stile del Maestro Tada o del Maestro Hosokawa o del Maestro Fujimoto, non potrà studiare proficuamente ciò che il Maestro Masuda ha da offrirci. Per poterlo fare, per progredire davvero bisogna sapersi “svuotare”: in un bicchiere già colmo di vino non se ne può aggiungere altro, no?
Da tre anni invitiamo il Maestro Masuda a Milano proprio per offrire ai praticanti la possibilità di usufruire di un insegnamento diverso; il suo metodo di far lezione si svolge in un’atmosfera piacevole, di divertimento – noi diciamo “asobi” – molto diversa dallo spirito, dalla grinta da samurai con cui si presentavano molti insegnanti che venivano dal Giappone: certo c’è anche quel modo di insegnare Aikido, ma così l’Aikido non è per tutti e oggi, invece, lo deve diventare.
Questa almeno è la mia opinione.

Fonte: Dalle Ciliegie al Palalido, Aikido XXI-1, 1991, Aikikai d’Italia


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