Il Fenomeno dei “Gatti della Meditazione” e i “Vicoli Ciechi” nelle Arti Marziali


Noi non ce ne rendiamo conto, ma molte volte nella storia dell’Uomo quello che doveva essere un fatto momentaneo, una notizia falsa o imprecisa, diventa un’abitudine consolidata a causa di equivoci, superficialità o conformismo, addirittura ascende a verità indiscutibile, magari pseudosacralizzata, e tramandata nel tempo

di ADRIANO AMARI

Nelle Arti Marziali, sia dal punto di vista teorico che antropologico, come dal punto di vista tecnico, di queste cose, ce ne sono bizzeffe. Questo breve articolo vuole suscitare domande e riflessioni.

Voglio riportare un simpatico racconto…

I “Gatti della Meditazione”

“Tempo fa, in Cina o in Giappone, c’era un monastero Buddhista grande e famoso per il suo insegnamento e per le sedute di meditazione. L’abate era un vecchio e sapiente sacerdote molto avanti nella Via del Buddha. Un giorno, mentre passeggiava nel giardino del monastero, aveva trovato un piccolo gattino e l’aveva preso con sé.
La meditazione del vecchio monaco era formidabile e non veniva assolutamente disturbata dai movimenti e dei giochi del gattino che poi, spesso, si accovacciava tra le gambe del sant’uomo e, ronfando, lo accompagnava nella pratica.
Quando il gatto crebbe ed iniziò ad esplorare in giro, prese ad intrufolarsi nella sala di meditazione dove si tenevano le sedute collettive e qui turbava la concentrazione dei monaci più giovani e anche degli anziani.
Per cui il saggio abate, anche se a malincuore, dispose che il gatto venisse legato fuori della sala durante le meditazioni collettive.
Passò il tempo e, ogni volta che c’era la seduta di meditazione, un giovane monaco legava il gatto con un guinzaglietto di corda ad un pilastro fuori della sala.
Passò altro tempo e l’abate, assai anziano, morì.
I suoi confratelli continuarono ad occuparsi del gatto e a legarlo fuori della sala durante la pratica meditativa.
Passò altro tempo e il gatto, invecchiato, andò a raggiungere l’antico abate alla sorgente.
Il giovane monaco che doveva legarlo in occasione della pratica lo trovò così raggomitolato in uno dei suoi angolini.
Si recò trafelato dal nuovo abate per dargli la notizia.
L’abate lo guardò e disse: “Vai subito al mercato e compra un altro gattino da legare fuori della sala durante la meditazione!”.
Divenne una tradizione attentamente rispettata nei secoli successivi…”

Il significato è molto chiaro, nevvero?

Esempi

Ognuno dei lettori può cercare di scoprire quanti e quali “gatti” si nascondono nelle discipline che pratica. I periodi in cui si adottano più micini sono quelli di cambiamento, le modernizzazioni, gli adattamenti, oppure quando esercizi e serie “educazionali”, nati per essere dei semplici supporti momentanei per tecniche più complesse, diventano loro stessi pilastri immutabili dove vengono avvinti e bloccati i praticanti.

Provo a segnalare alcuni di questi “gatti”, a diversi livelli, che trovo in discipline che pratico o ho praticato, o che comunque conosco bene.

Prendiamo il Karate. Ci sono due aspetti che la maggior parte dei praticanti di questa disciplina ritiene “antichissimo” e considera come aspetto assolutamente basilare della disciplina stessa: le tecniche a mani chiuse nei Kata e il “controllo” nel combattimento (Randori o Shiai).

Cominciamo dai pugni chiusi nei Kata. La maggioranza dei Kata originari delle scuole di Okinawa prevedeva tecniche a mano aperta per colpire o parare. Gli attacchi a pugno chiuso usando i Seiken erano rari all’interno delle forme e lo si può vedere studiando una forma originaria non modificata. La chiusura del pugno e la sostituzione con questa tecnica delle molte a mani aperte dei Kata tradizionali fu operata da Anko Itosu, a cavallo tra ‘800 e ‘900, per la diffusione di massa della disciplina nelle scuole. Lo scopo era evitare infortuni, incidenti, confusione e tecniche scomposte. Sempre a scopo propedeutico Itosu inventò la serie Pinan/Heian, che poi è rimasta a incombere sugli allievi anche se, probabilmente, non ve ne era più bisogno.

Con l’uso delle mani chiuse si perse progressivamente tutto il lavoro specifico di aderenza, leva e prese per proiezioni, cosicché oggi i praticanti di Karate, non più istruiti sulla materia, prendono le tecniche di proiezione e controllo da Jūdō e Aikidō, spesso in modo superficiale, per usarle in dimostrazioni o Bunkai improvvisati.

Il controllo nel combattimento

In origine la pratica del combattimento libero non era prevista, esistevano forme di Randori ad attacco stabilito, come si usa nei Kata a coppie. La pratica di “trattenere” il colpo finale o un attacco era già presente nei Kata a coppie di Bujutsu o Jū Jutsu. Probabilmente ci si ispirò a questo sistema e lo si impiegò per il combattimento libero di Karate. Solo che le caratteristiche di movimento e di replica degli attacchi rendevano e rendono difficile il controllo effettivo. Negli usi delle Arti Marziali giapponesi tradizionali sono previste protezioni di vario tipo per la sicurezza, ma i pionieri del Karate sportivo forse le ritennero troppo costose o inutili, e questo equivoco, contrabbandato come un punto fondamentale ed antichissimo della disciplina, andò avanti per molto tempo causando innumerevoli incidenti e falsando risultati, e ancora influenza la pratica. È un tipico esempio.

Kendō

Il Kendō contemporaneo ha la caratteristica di usare nella pratica di Randori e Shia, tre bersagli fondamentali per i fendenti, sferrati solo in traiettoria discendentie: Men, Kote e Dō; più uno e uno per le stoccate o Tsuki: il Nodo. Inoltre in questa pratica si usa unicamente l’arma per ogni azione consentita, compresa la spinta in situazioni di aderenza. Tale selezione proviene da due principali riordini effettuati a cavallo del ‘900 e dopo la Seconda guerra mondiale. Prima del Kendō esisteva una attività simile chiamata Gekken o Shinai-Geiko, con una varietà di protezioni e regole. Per esempio lo Tsuki poteva essere tirato a vari livelli, erano previsti attacchi alle gambe, alle ascelle, fendenti diagonali e montanti. Inoltre si poteva sgambettare, falciare, proiettare d’anca, colpire o spingere con la Tsukagashira, bloccare e usare il casco o il pettorale dell’avversario per sottometterlo a terra. Per cui fu stabilita dapprima la limitazione ai quattro punti sopra indicati e, dopo la guerra, eliminato del tutto il corpo a corpo. Esistono alcune scuole Koryū come l’Hokushin Ittō Ryū o il Tennen Rishin Ryū che praticano ancora il Gekken con estensione di bersagli e tecniche di corpo a corpo. Non sarebbe male che la Kendō Federation prendesse in considerazione un tipo di incontro sperimentale ed alternativo, per verificare se non sia possibile avere una visione diversa rispetto a quanto stabilito ai tempi, era un “esperimento definitivo” evidentemente.

Iaidō

Quelli che conosciamo come Seitei Iai no Kata sono un gruppo di Kata “nuovi”, formato da un gruppo d’esperti della Federazione del Kendō, per bilanciare l’abuso fatto dello Shinai nella pratica della disciplina e far comprendere la diversità fra questa “lama di bambù” e una spada reale. Questi Kata risalgono alla fine degli anni ’60 e hanno introdotto una pratica a mio (e non solo) parere eccessivamente estetica e rarefatta. Vengono usati come forme obbligatorie per gli esami di graduazione delle federazioni internazionali e condizionano non poco le ben diverse forme delle scuole tradizionali. Una specie di “contaminazione” che appiattisce e sterilizza. Pratiche nuove che diventano “tradizioni” inamovibili…

L’uso di queste forme può andare bene appunto per fini didattici per i Kendōka, ma se si vuole imparare lo Iai conviene indirizzarsi alle scuole tradizionali, che sono ormai abbastanza diffuse, preferendo i maestri che eseguono i Kata “all’antica”. È da sottolineare che le scuole tradizionali posseggono anche forme a coppie (e altri esercizi) dove vengono eseguiti in applicazione i Kata a singolo, indispensabili per uno studio completo, forme di studio che mancano nel settore dei Seitei-Kata.

Jūdō

La violazione dei contenuti stabiliti da Kanō sensei ha prodotti numerosi “vicoli ciechi” di cui è difficile oggi venirne a capo. A parte le modifiche sempre più cervellotiche e coreografiche portate nei regolamenti di gara e l’attribuzione “facile” degli Ippon per semplici rotolamenti o controcapriole, anche i Kata sono stati ridotti a serie estetiche da valutare per la resa visiva esteriore.

Per cui molti sono convinti che i Kata siano dei cataloghi statici di “mosse”, che alcuni sono obsoleti (Kime no Kata e Koshiki no Kata) o destinati alle donne (Jū no Kata) o addirittura sono sconosciuti a praticanti ed istruttori (Seiryoku-Zen’yo-Kokumin-Taiiku-no-Kata). Come si può vedere si sono creati dei vicoli ciechi dove l’insegnamento corretto del Kōdōkan Jūdō non sta più di casa.

È sbagliato pensare che si dovrebbe ricostruire l’insegnamento di Kanō sensei (quello che Mochizuki sensei chiamava il “Grande Insegnamento”) e lasciare che questo agisca come dovrebbe? A costo di lasciar perdere le ormai abbondantemente sputtanate olimpiadi e tutto il dozzinale teatrino che ci va dietro?

Aikidō

L’Aiki Nage o Kokyu Nage
Questo tipo di tecniche sono uno dei campi più dibattuti e contrastati nell’Aikidō riformato dall’Aikikai post mortem di Ō Sensei. Mochizuki sensei sostiene, da testimone sul campo, che queste tecniche non sono proprio delle esecuzioni “volute” e prestabilite fin dall’inizio da chi le esegue. Su tante esecuzioni di Morihei Ueshiba sensei di varie tecniche, l’effetto Aiki Nage veniva raggiunto autenticamente in pochi e quasi casuali casi in cui l’azione risultava particolarmente potente e riuscita. Ed è così, magari in percentuali ancora minori nella pratica quotidiana dei maestri e degli allievi. Molti casi in cui l’Uke di Ō Sensei sembra cadere per effetto di un Aiki Nage, in realtà faceva una caduta volontaria e anticipata per sfuggire alla ferrea presa del Maestro in cui stava finendo, con conseguente immediata e brusca leva o un lancio non proprio “soffice”. Da questi (e altri) equivoci nati dalla visione di filmati nasce l’abuso attuale di Kokyu Nage dove, nella maggioranza dei casi, Uke “regala” il lancio al partner impedendogli, di fatto, di notare i propri errori o di completare la tecnica.

Questi sono alcuni esempi…

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