
Un paio di pittoreschi aneddoti con significato a sorpresa: combattere non è Aikido, ma “perdere” lo è ancora di meno…
di ELLIS AMDUR
Mezzo secolo fa, i miei genitori mi portarono ad una conferenza del rabbino Rabbi Abraham J. Twersky. Twersky era un discendente della dinastia di Chernobyl dei rabbini chassidici. Nel corso dei decenni ho notato il nome Twersky altrove: sempre negli studi di avvocati o medici o su documenti accademici – al di là della religione, sono stati una dinastia di intelletto. Il rabbino Twersky, uno psichiatra, unì Mussar (etica ebraica) con elementi del Programma dei Dodici Passi, diventando una figura estremamente importante nel campo del trattamento dell’abuso di sostanze. Nonostante il suo intelletto incandescente, si trattava di un uomo con i piedi per terra, che lavorava con coloro che soffrivano di disturbi da dipendenza di qualsiasi estrazione sociale, e che scriveva libri la cui profondità era racchiusa in prosa e immagini semplici e accessibili.
Non ricordo il tema generale del suo discorso quella sera, ma parte di esso riguardava la sua educazione, che raccontava in terza persona, con un accento yiddish deliziosamente lirico. “Twersky era un ragazzo brillante, un prodigio degli scacchi. Era pazzo per gli scacchi e coglieva ogni momento per andare a giocare. Era diventata una sorta di dipendenza. E un giorno c’era un torneo di scacchi e Twersky, a soli dieci anni, doveva andarci. Twersky doveva andare! Avrebbe giocato contro ragazzi molto più grandi, anche adulti, perché gli scacchi sono un gioco di intelligenza, e vincere e perdere si basa sui meriti della mente e della volontà. Ma era di sabato, il giorno più santo della settimana, quando Dio discende sulla terra per unirsi in quel giorno con la sposa del sabato, la Shekinah, la presenza femminile divina di Dio. Pensa a quello! Dio amava così tanto l’umanità che ha esiliato una parte di Sé in modo che la creazione potesse avvenire. È il sabato che il sacrificio di Dio viene redento, che Dio nella sua pienezza è riunito. La nostra celebrazione del sabato è in segno di gratitudine per il sacrificio di Dio per noi. È a tal punto importante!
Twersky tuttavia non poté resistere al suo desiderio di scacchi, e uscì dalla finestra, corse giù per la strada fino al club degli scacchi e ci trascorse la mattina e il pomeriggio partita dopo partita. Alla fine, tutto terminò e Twersky tornò a casa, arrampicandosi ancora una volta nella finestra della sua stanza dove avrebbe dovuto studiare. Twersky pensava di averla scampata, quando sua madre arrivò alla sua porta e gli disse che suo padre voleva parlargli.

Twersky, va detto, aveva paura di suo padre. Non perché fosse un uomo brutale, ma perché era un uomo santo, un uomo di Dio. Attraverso le sue preghiere, avvicinava i suoi Hasidi alla Presenza Divina e ogni comandamento gli era ugualmente sacro. Era seduto dietro la sua massiccia scrivania e leggeva un passaggio del Talmud, un libro grande quasi quanto la larghezza delle braccia di Twersky. E Twersky rimase lì, tremante. E suo padre alzò gli occhi e parlò. Il padre di Twersky parlò in modo potente, indignato, come Twersky non lo aveva mai sentito prima. Disse che il Signore Dio medesimo aveva lasciato il sabato all’umanità in eredità per misericordia, che eravamo stati scacciati dall’Eden per faticare e soffrire, ma il settimo giorno eravamo stati incoraggiati a riposare. Il riposo però non significava svago, divertimento… giochi. Il riposo, disse, significava che i fardelli della sopravvivenza venivano sollevati, così che per un giorno l’umanità potesse rivolgere la propria attenzione, senza impedimenti, a Dio. Potevamo, disse, riposare in presenza di Dio, rivolgere la nostra attenzione a ciò per cui siamo nati, adorare il Signore Dio dal nostro cuore, per nostra libera volontà. Twersky vide la faccia di suo padre diventare più scura dalla rabbia; il padre gli disse: “Figlio mio, quando giochi a scacchi, non pensi a Dio. Pensi al brivido di sconfiggere il tuo prossimo, ti diletti nel gioco del tuo intelletto. Per cosa? Per un gioco”. A questo punto, Twersky stava piangendo per la vergogna, perché non solo aveva tradito suo padre, ma aveva tradito Dio stesso.
Allora suo padre si alzò, si avvicinò da dietro la scrivania e si chinò, le mani gentilmente sulle spalle di Twersky. Lo guardò negli occhi, sorrise dolcemente e disse: “Allora nu, figlio mio. Hai vinto?”
Quindi cosa ha a che fare questo con le arti marziali? E nello specifico, con l’Aikido? Perdendo tempo su Internet, ancora una volta ho letto una serie di dibattiti e articoli sul fatto che l’Aikido sia un’arte marziale che funziona, se Ueshiba Morihei fosse un pacifista, quale livello di “realismo da combattimento” fosse necessario nell’Aikido, quanto cross-training uno dovrebbe fare, se gli attacchi fossero irrealistici, se l’Aikido fosse troppo pericoloso per l’MMA, e poi ancora una volta, e ancora, e ancora. Più avanti, parlando dell’argomento con il mio fratello di allenamento, Bruce Bookman, ho immaginato quanto segue: “Allora, e se due uchi-deshi fossero entrati barcollando nel dojo una notte, le labbra sanguinanti, gli occhi neri e i vestiti strappati? E se O-sensei si fosse avvicinato e avesse detto: “Cosa vi è successo ragazzi?”. E se uno dei deshi avesse con vergogna detto: “Beh, eravamo in un bar a Kabuki-cho, e dei tizi hanno iniziato a sparlare dell’Aikido e gli abbiamo detto, “Venite fuori!” E uno ha messo fuori combattimento Ta-chan con un boccale di birra mentre stavamo uscendo dalla porta. Io e un altro ci siamo squadrati e lui mi ha afferrato la maglietta. Gli ho fatto un nikkyo e lui si è fatto una risata e mi ha preso a pugni con l’altra mano. Io gli ho tirato un atemi, che lui non lo ha nemmeno sentito, e poi ho invertito la leva al polso passando a kotegaeshi. Mi ha dato un pugno in faccia un altro paio di volte, e io mi ci sono armonizzato e ho provato un kokyunage, e lui mi ha morso il braccio e mi ha sputato sangue negli occhi! E poi mi ha ha dato un calcio a un ginocchio e quando ero a terra, ha ballato il tip tap sulle mie costole e poi i suoi amici hanno preso il nostro keikogi e lo hanno tirato sul tetto del Queen Victoria Love Hotel, e ora uno dei promotori fuori dal Sunny Life Pink Cabaret indossa la mia cintura nera!”
Poi ho chiesto a Bruce, “Cosa avrebbe detto O’Sensei in quell’occasione?”

E Bruce mi ha detto: “So la risposta! Ne parlavo una volta con Yamada sensei, e lui mi disse che a volte tornavano a casa dopo una rissa di strada, e quando i ragazzi gli dicevano che avevano vinto, O-Sensei timidamente rispondeva: “Oh, voi ragazzi non dovreste fare a botte. L’Aikido significa essere pacifici”.
“Ma se qualcuno di noi mai tornava a casa dopo averle prese, O’Sensei esplodeva! Iniziava a urlare che avevamo ricoperto di vergogna il nostro dojo. Diventava matto di rabbia! Era meglio non tornare mai al dojo dopo aver perso una rissa!”.
O, in altre parole, “Allora nu, figlio mio. Hai vinto?”
Source: Amdur Ellis, What Would O-sensei Say?, KogenBudo, 2020
https://kogenbudo.org/what-would-o-sensei-say/
Copyright Ellis Amdur ©2020
Tutti i diritti sono riservati. Ogni riproduzione è proibita
Tradotto dall’originale da Simone Chierchini (2020)
Pubblicato su Aikido Italia Network grazie alla gentile concessione di Ellis Amdur
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