Oggi ho chiesto al dojo di chiamarmi solo per nome e di non rivolgersi a me con l’appellativo di Maestro. É da un po’ di giorni che sento crescere in me questa esigenza e penso che abbia a che fare con il rapporto che ho con l’aikido e con il mondo dell’aikido
di MASSIMILIANO GANDOSSI
Aikido per me é aria fresca del mattino in montagna e il mare al tramonto, é gioia di sentire fatica e dolore e poi di non sentirli piú, é il sorriso del compagno di pratica a fine lezione, é la metamorfosi degli allievi che diventano praticanti. Il mondo dell’Aikido é tutto il resto, e ritengo che quanto cresce al suo interno sia prevalentemente frutto di una sostanziale mancanza che, se non c’é, almeno si percepisce nella nostra discipina, un impianto e un percorso etico e spirituale che affianchi l’apprendimento e la pratica della tecnica.
É sicuramente poetico e affascinante pensare che l’acquisizione di maestria tecnica marziale spinga naturalmente il praticante ad una comprensione superiore della vita e dell’universo, ma dobbiamo fare i conti con la realtà, noi praticanti dell’era moderna dedichiamo assai poco tempo alla pratica e nella miglio delle ipotesi, quando siamo diligenti e costanti, andiamo 4 o 5 volte alla settimana al dojo me per il resto del tempo siamo full immersion nella modernità e nei suoi ritmi e regole, e ne facciamo parte a pieno titolo.
Quindi il nostro percorso iniziatico e il nostro cammino diventano zoppicanti e interrotti quotidianamente da chi ci taglia la strada in macchina o da quel vestito che tanto vorremmo o da quella donna che sa solleticare le nostre fantasie dalle 8 alle 5 in ufficio facendoci allontanare mentalmente dalla nostra compagna, da quel progetto lavorativo multinazionale da cui sembra poter dipendere il destino dell’umanità, quella conference call, quel commitment, quella change request che é easy perché si crossfertilizza con l’altra country, e tutte quelle cose che ci fanno uscire presto da casa e tornare quando i bambini già dormono dopo aver affrontato il dolore di non aver visto il papà ancora un altro giorno.
Non siamo artisti marziali nel senso tradizionale del termine perché non impegnamo la nostra vita nel gesto artistico continuativo che, secondo tradizione, faceva diventare, trasformandolo nel tempo, il praticante un Maestro.
Abbiamo bisogno, chi consapevolmente chi non, di un sostegno etico che accompagni la nostra pratica per far si che essa getti le sue radici nel quotidiano e TRASFORMI i gesti quotidiani in quel gesto artistico, affinché possano avere la stessa valenza di un Ikkyo, per la nostra psiche.
Lo yoga é molto strutturato in questo e per questo, scandisce tempi e modalità che permettono al praticante di capire quando sta avendo un risultato nella sua pratica e quando sta diventando pronto per cercare oltre e affrontare la strada per il risultato successivo.
Temo, ma non posso certo sostenerlo con ardire superiore ad una semplice congettura, che O’ Sensei sapesse bene , almeno istintivamente, cosa animava la sua pratica e la sua ricerca di vita, e magari ha anche cercato , mai imponendolo, di suggerire e mostrare ai suoi allievi questa via ma che non sia stata colta.
Il Maestro Shimizu mi ha detto chiaramente che quando O Sensei faceva i suoi riti spirituali o quando andava alle riunioni di Omoto Kyo, tutti osservavano e rispettosamente non dicevano nulla, ma, a dirla tutta, non capivano nulla! E nessuno si é mai peritato di andare oltre a quella osservazione, forse anche perché si trattava di giovani virgulti appassionati di Budo, che sicuramente apprezzavano maggiormente i sacrifici e le austerità della pratica fisica alle silenziose attese e , magari, anche la noia della pratica religiosa.
Peró noi sappiamo per certo che nella vita di O’Sensei c’é stata una svolta, una svolta che non ha avuto a che vedere con la comprensione di un modo nuovo di torcere il polso, non ha avuto a che vedere con la comoscenza di una nuova tecnica di spada, non ha avuto a che vedere con la conoscenza della lancia e la sua declinazione in bastone, ma ha avuto a che vedere con l’esperienza mistica del Satori, con l’incontro della setta religiosa Omoto Kyo e con le conseguenze che questo incontro ha portato in lui e nella sua visione della vista e di quello che faceva nella vita.
Potremmo dire che lui si é trovato ad avere per le mani un bagaglio tecnico marziale precedentemente accumulato negli anni per fare fronte all’esigenza psicologica di sentirsi forte perché era piccolo e magro di nascita, e che poi, successivamente alla comprensione profonda del senso della vita, almeno della sua vita, ha utilizzato come grammatica per una pratica che voleva avere finalità superiori a quelle marziali, ma nella quale non é stata colta , o non é stata insegnata la profonda coesione con il percorso iniziatico dell’uomo spirituale e religioso che il suo fondatore é stato.
Credo che molti stiano cercando questo, una soluzione per mettere l’aikido piú concretamente al servizio dei suoi scopi, per renderne il contenuto altamente etico piú comprensibile e facilmente fruibile al pubblico giovane e moderno.
Forse si tratta della fatica di Sisifo, forse l’arte nipponica é e deve rimanere avvolta dal mistero del silenzio e dalla trasformazione che la ripetizione dei suoi gesti porta.
Peró, a parlare sinceramente, vedendo gli effetti sul mondo dell’Aikido, direi che invece si risente molto della mancanza di una guida etica strutturata e di un percorso iniziatico e spirituale che vada di pari passo con quello tecnico marziale. Certo sono molti gli insegnanti che riversano nel loro lavoro di dojo le proprie esperienze e conoscenze etiche e filosofiche per sostenere il lavoro stesso, e guarda caso si tratta di contenuti NON mutuati dal budo!
Per sintetizzare al massimo la mia esperienza in questo argomento posso dire che ho iniziato l’Aikido grazie alla visione del Film Nico di Steven Seagal per capirne il significato nella mia vita grazie a Bert Hellinger e ai suoi scritti ed esperienze. In entrambi casi , si potrebbe dire che le fonti di ispirazione non hanno avuto nulla a che fare col budo o con la sua pratica. Certo nel mezzo c’é stata la pratica, tanta e incessante, come ovvio, la pratica é l’ossatura ma certamente l’etica e la filosofia sono i muscoli e i nervi.

Nello yoga si identificano tre stadi o modalità per esperire la vita, Tamas , la materia forte stabile e statica, inerte, Rajas, il movimento, l’azione, la passione, e Sattva, l’ispirazione, la leggerezza, l’anelito al movimento di trasformazione ed evoluzione. Un buon rapporto tra queste tre sfere conferisce stabilità nella crescita ed evoluzione del praticante.
Non mi dilungheró oltre su questo tema, ma voglio tornare al principio di questa riflessione, chi sono l’insegnante e il Maestro di Aikido? L’insegnante é colui che lavora nel dojo con gli studenti alla costruzione di un percorso condiviso che spinga il praticante volenteroso a sfidarsi nel complesso mondo della vita ad evolvere dai semplici bisogni del corpo e dalla costante ricerca della loro soddisfazione verso la capacitá di essere e vivere al servizio di uno scopo, e , sempre l’insegnante, é colui che ricerca con attenzione gli strumenti didattici adeguati per le persone con cui lavora.
Il Maestro é colui, o colei , che ha dimostrato con il suo esempio concreto, di saper camminare su questa Via e trovarne il senso, mettendo a frutto le sue qualità e realizzando il suo potenziale di essere umano , non certo solo per sé ma nel mondo e per gli altri.
Per questo ho chiesto a chi c’era stasera al dojo di chiamarmi Max, e basta, e magari, lo spero, un giorno , quando saremo tutti vecchi e felici, se saró ancora innamorato di mia moglie e lei di me, e se avró ancora un bel rapporto coi miei figli, mi faró chiamare volentieri Maestro.
Fonte: http://gorinbushidokai.blogspot.it/2012/07/il-maestro-e-linsegnante.html
Copyright © 2012 Massimiliano Gandossi
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Pubblicato per la prima volta il 31 Luglio 2012
Complimenti, bella riflessione.
Salve…
Ho trovato nel leggere l’articolo, molti punti di interesse, frutto dell’esperienza soggettiva certo, e comune a tutti noi, ma resta pur sempre un’esperienza soggettiva.
Questo, secondo me, è la chiave primaria della pratica di AIKIDO. In tal senso dovremmo cercare di riconsiderare l’atteggiamento classico del rapporto istruttore-allievo. Certo non nei modi ma sicuramente nel contenuto che come scopo, visto che si è accennato a questo, porti l’allievo a sviluppare una stabilità emotivo-spicologica.
Ma questo è l’effetto che produce un certo modo di praticare e giustamente detto, tecnico, didattico. Rifacendoci proprio da quanto, in pratica si afferma che non vi è bisogno di didattica ma di pratica.
La sola didattica che conosciamo dell’ AIKIDO è insita nella pratica. Penso che questo concetto sia stato ampiamente e precocemente intuito in O-SENSEI.
Credo che ciò che ha fatto, voluto e realizzato O-SENSEI sapeva che doveva essere fatto, quindi la sua lungimiranza è stata vedere dentro se stesso, trovando l’AIKIDO.
O-SENSEI nel suo SATORI’ ha compreso la relazione dell’aIKIDO alla VITA.
Aggiungo a questo, come pensiero personale, che il rispetto che dobbiamo nei confronti di O-SENSEI è di averci donato una chiave di lettura universale, che Lui ha chiamato AIKIDO.
La cosa originale di questa chiave di lettura è che si può interpretare ma solo in senso soggettivo del temine che fa sì che l’esperienza dell’AIKIDO sia cosa UNICA. Per questa ragione è assolutamente indispensabile non trasmettere l’esatto percorso, emotivo, formativo , ma sforzarci a generare unicità e spingere ognuno(allievo) a questa consapevolezza.
L’interpretazione che intendo dell’AIKIDO è stata fatta da chi per primi, sono stati i discepoli di O-SENSEI, ed ognuno di questa a trasferito la sua particolare esperienza in un rapporto di comprensione dell’AIKIDO cenerando UNICITA’ e questo è quello che noi stiamo praticando, la risultante di un flusso di risultati soggettivi e unici.
Noi non possiamo praticare AIKIDO nel senso di come praticava e percepiva O-SENSEI, ma neanche come lo percepisce il nostro compagno di pratica a fianco a me.
AIKIDO è una esperienza personalizzata che determina, attraverso la pratica, una coesione naturale degli eventi comunicativi con la propria realtà psico-fisica, originando coscienza dell’ unità.
Questo è il concetto base che il M° Tohei ha percepito con modalità del tutto differente da O-SENSEI, ma utilizzando gli stessi principi universali.
La grandezza poi è stata quella di trasferire il tutto in parole ed esercizi comprensibili a tutti.
Una continuità di cambiamento non può nascere dalla ripetizione dei gesti che hanno generato già un risultato, bensì lo sforzo comprensione deve avvenire su quello che il risultato ha prodotto.
L’unità è ciò che ci distingue, ci rende unici, questo il M° Tohei chiama “mantenere il punto” primo dei 4 principi del KI.
Giuseppe Golin