
Uke, quello che cade nella pratica dell’Aikido, opposto a Tori, colui che esegue la tecnica, gioca un ruolo essenziale nella didattica marziale in generale e giapponese in particolare, perlomeno per quanto riguarda le discipline che insegnano le forme di combattimento faccia a faccia (corpo a corpo). Il bersaglio non ha meno valore nel Kyudo, per esempio, però non ci sono gli stessi criteri. Questo ruolo è spesso misconosciuto o mal compreso, a volte screditato, da molti praticanti in particolare a causa della funzione passiva che gli attribuiamo ingiustamente
di DANIEL LECLERC
Questo articolo si propone di analizzare questo ruolo, sotto tutti i suoi aspetti, per permettere allo shugyo-sha di trovare gli elementi suscettibili di orientare il proprio lavoro verso una migliore comprensione della sua o delle sue pratiche. In un primo tempo, proveremo a capire e ad analizzare le ragioni che potrebbero giustificare quell’apparente mancanza d’interesse. Poi, tratteremo i differenti significati conferiti a questo ruolo nella pratica. Infine, proporremo qualche strumento utile per migliorare la nostra pratica a questo riguardo.
Uno dei principali fattori che contribuisce a screditare il ruolo dell’uke è di ordine psicologico, visibile in particolare nelle tecniche corpo a corpo, cioè la paura collegata alla caduta. Questa paura trova verosimilmente la sua causa nell’inconscio impegnato nell’evoluzione della specie umana in generale e di ogni individuo in particolare, quando fa i suoi primi passi. È comunemente riconoscuto, infatti, che la specie umana è nata il giorno in cui un animale si è rizzato sui suoi arti inferiori per adottare la posizione eretta. Possiamo facilmente immaginare che questa mutazione non si sia realizzata senza dolore e basta osservare, in mancanza di ricordi, le esperienze faticose di un bambino quando passa dallo stare coricato alla posizione seduta ; poi dal gattonare, per imitazione, al rizzarsi sulle sue gambe. Quante cadute, ferite, botte non sono state sperimentate in quest’epoca della vita? Esse resteranno scolpite inevitabilmente nella nostra memoria per lasciare che sussista una paura viscerale della caduta.
Da allora, l’apprendistato alla caduta, ad una età in cui i fattori genetici legati ad una delle specificità della nostra specie si sono stabiliti definitavamente, ci porta a affrontare lo stesso processo al contrario, cosa che inconsciamente ci rifiutiamo di accettare. Basta, per convincersene, raccogliere le diverse locuzioni verbali usate in tutte le lingue per esprimere questa paura.
Si parla, infatti:
– delle caduta delle foglie, di massi, dei capelli, dei prezzi, della borsa, della moneta, dell’impero, di una città, degli angeli, di tensione.
Si dice:
– cadere in acqua, dal sonno, dalle nuvole, nella disperazione, sul campo di battaglia, sotto il dominio, dalla padella nella brace, etc.
Chi non ha sentito sua madre dirgli : «Bada a non cadere, potresti farti male!», oppure ancora: «A forza di fare il matto, finirai per cadere» (sottinteso «farti male!»).
Dunque sembra che la caduta sia associata al dolore, al declino, alla mancanza, alla decadenza, alla perdita d’equilibrio fisico, mentale e sociale. Infatti, non è strano che l’uomo diffidi della caduta istintivamente. Perché si tratta in fondo di
una sfida, dal momento che il praticante impara la caduta, va incontro ad una delle paure inscritte nei suoi geni.
Parallelamente a questa paura congenita ci sono altre paure più soggettive, più personali. Effettivamente, c’è un abisso tra cadere da solo, per mancanza di abilità, per debolezza fisica, per inavvertenza, e farsi cadere (diciamo, piuttosto, farsi proiettare). Questo abisso è l’altro e la fiducia relativa che gli concediamo. Poiché Uke non si limita all’Ukemi (comunemente tradotto con caduta). C’è infatti una parte di ignoto nell’idea di abbandonarsi fisicamente e psicologicamente. Proprio per questa ragione possiamo comprendere quelli che concedono a Uke il solo diritto di morire. Cadere è in fondo un pò morire, almeno avere la possibilità di prenderne coscienza e di accettarne la possibilità. Sfortunatamente, la cattiva compresione del ruolo dell’Uke, unitamente a una certa rigidità fisica – che le condizioni della vita moderna non migliorano -, e alle carenze tecniche di Tori e la sua difficoltà a realizzare un movimento giusto, non incitano il praticante a rinnovare l’esperienza della sua morte per trovarci niente altro se non «un brutto momento da passare!»
Per altro, non possiamo passare sotto silenzio il ruolo che l’ego può giocare in questa situazione. Nell’Aikido, nel Judo, nel Karate-do, Uke è quello che «perde», in contrasto con Tori che lo annienta, o almeno tenta di farlo. Infatti, quando due individui, due animali, due insetti combattono, per una qualunque ragione – la predominanza tra maschi nel gruppo, la difesa del suo territorio, dei suoi piccoli, del suo onore -, cercano a farsi cadere, di far perdere l’equilibrio all’altro, e il combattimento finisce, almeno nel mondo animale, quando l’uno dei due cade a terra. Questo sistema di combattimento prevale ancora attualmente nel Sumo, per esempio.
Spesso, nel quadro della pratica, la caduta può sembrare devalorizzante, per il praticante stesso come per lo spettatore neofita. É certo più gratificante sentirsi dire: « Diavolo, ma cosa gli hai fatto al tuo Uke!» piuttosto che : «Non sei riuscito a stare in piedi, vecchio mio!».
La realtà è un’altra o dovrebbe essere un’altra. Nell’Aiki-ken, per esempio, è Uke che controlla la situazione perché deve tenere il centro in ogni momento, prima, durante e dopo il o gli attacchi di Uchi. Ciò costituisce del resto una specificità di lavoro dell’Aiki con le armi, che non esiste negli altri Budo con armi come il Ken-Jutsu o il Jo-Do, per esempio.

Nelle discipline classiche, Uke è quello che «perde». É una dei ragioni per la quale questo ruolo è normalmente sostenuto da un istruttore, addirittura dallo stesso insegante. Avremo occasione di tornare su questa nozione in seguito perché, ovviamente, il lavoro sul tatami non si riduce a vincere o perdere.
Da quello che precede, possiamo dedurre che la paura viscerale legata alla caduta genera un certo blocco fisico, o almeno una riluttanza, in rapporto col nostro inconscio collettivo e con la nostra memoria.
Però, non potremmo non considerare che anche lo squilibrio è all’origine di questa paura. Infatti, sta alle leggi fisiche come la paura sta ai fattori psicologici, cioè entrambe possono essere causa della caduta, che sia fisica, psicologica o sociale. Lo abbiamo visto, la specie umana è nata il giorno in cui si è rizzata sui suoi arti inferiori, cioè è passata da una posizione perfettamente stabile, che le assicurava i suoi quattro punti d’appoggio, a una posizione di ricerca perpetua dell’equilibrio – o di perenne squilibrio – costringendola a sviluppare una morfologia che, per quanto perfetta, è insufficiente per garantirlo senza rischi. Il canguro, per esempio, che si sposta sui suoi due arti inferiori, possiede una coda, cioè un terzo punto di equilibrio che gli assicura una perfetta stabilità. Lo stato di perpetuo squilibrio, o di
equilibrio precario, dell’uomo non l’ha solamente reso instabile fisicamente, ma anche psicologicamente. Rizzandosi sui suoi arti inferiori, ha generato infatti una situazione che gli fa temere ad ogni istante di cadere.
Qual’è il riflesso di un’uomo che non ha imparato a cadere quando cade? Cerca meccanicamente di appoggiare le mani per attutire la caduta, cioè usa istintivamente i suoi arti superiori. Non gli viene in mente di rotolare. Dunque è evidente che questa instabilità genera, nell’uomo, una paura incosciente, quella di perdere l’equilibrio tanto caramente acquisito e di cadere. Ma la questione non è di sapere oggi chi è nato prima, l’uovo o la gallina, quanto piuttosto di valutare che la caduta potrebbe non essere inscritta nei geni della natura umana. Infatti, l’uomo non è naturalmente predisposto a farne l’esperienza o l’apprendistato.
Il secondo fattore chi contribuisce a screditare il ruolo dell’Uke è di ordine fisico e fisiologico. Infatti, chi può pretendere di cadere per o con piacere? La caduta, anche «padroneggiata», rimane dolorosa e può lasciare postumi irreversibili al corpo (es. il famoso «tasto di pianoforte»). Da questo punto di vista, il fatto di affrontare la caduta ad un’età in cui il corpo non è ancora muscolarmente formato, cioè prima dei 25 anni circa, può presentare un sicuro vantaggio. Dunque, non è strano che la propensione a cadere diminuisca proporzionalmente all’età. Per fortuna, come vedremo in seguito, la caduta è solamente uno degli aspetti del ruolo dell’Uke, certo il più faticoso fisicamente.
Al contrario e paradossalmente, la caduta aiuta a modellare il corpo secondo la biomeccanica propria all’Aikido. E protremmo ugualmente dire che costituisce il solo modo che il praticante ha a sua disposizione per educare muscoli, tendini ed altri legamenti. Il riscaldamento all’inizio del corso non basta, per quanto completo sia, permette appena di sgranchire i muscoli, un po’ come il mattino al risveglio ci stiracchiamo per stimolare il corpo.
D’altra parte, è necessario essere in possesso di tutte le propria capacità fisiche per sperare di cadere senza troppi danni. Dolori cronici, in particolare a livello della colonna vertebrale, o malformazioni congenite possono svantaggiare il praticante nell’effettuare la caduta, a prescindere dai fattori psicologici che già li accompagnano. Anche le caviglie giocano un ruolo fondamentale. Infatti, il principio base della caduta è ridurre al massimo la distanza dal suolo. In biomeccanica, questa funzione è regolata dalle caviglie. La posizione accucciata, usata in estremo e medio oriente per riposarsi, come dai cow-boys davanti al fuoco di un bivacco, permette di dare alle caviglie la flessibilità necessaria.
In fine, la caduta è strettamente legata al respiro. Cadere è più estenuante che proiettare, nessun praticante sosterrà il contrario. A buon diritto, cadere assomiglia a una gara di fondo e, a volte, secondo il ritmo imposto da Tori, a una gara di velocità. Infatti, il cuore e il sistema polmonare sono fortemente sollecitati e necessitano una buona costituzione. In più, molti praticanti dissociano cadere e rimettersi in piedi. Cadono e si rialzano in un secondo tempo. Non usano la dinamica della caduta per rialzarsi, sottoponendosi ad un maggiore sforzo e restando così senza fiato.
Così, abbiamo visto, l’uomo non è naturalmente disposto a cadere. Dunque, non è strano che sia riluttante ad impararlo. Tuttavia, è padroneggiando, quanto più possibile, la sua caduta e il proprio squilibrio, che riuscirà a riconoscere e controllare questa paura viscerale e ad usare la legge di gravità indispensabile alla realizzazione della tecnica marziale. Infatti, come possiamo sperare di squilibrare un avversario se non abbiamo sperimentato su noi stessi la legge di gravità? Ora, il principio base delle tecniche nell’Aikido, o nel Judo, è di usare la dinamica, l’energia di un attacco, per trascinare l’avversario nel suo proprio squilibrio. Dunque, potremmo dire che l’apprendistato della caduta per Uke sta alla ricerca dell’equilibrio come l’apprendistato della tecnica per TORI alla ricerca dello squilibrio. Queste due aspetti della pratica sono indissolubilmente legati, come il positivo e il negativo, come ying e yang. Ed è solo a questa condizione che Aiki potrà manifestarsi.
È interessante constatare, a questo proposito, che secondo una giusta spartizione dei ruoli, si trascorre la metà del tempo sul tatami facendo UKE e la metà di questo tempo – nelle condizioni ideali – a cadere.
Ora, constatiamo che l’apprendistato del ruolo dell’Uke si limita, sovente, alla sola caduta, al solo Ukemi, cioè: «come cadere senza farsi male», e si riduce alla caduta in avanti, indietro, e a volte laterale. Ciò equivale a ridurre l’apprendistato della scrittura a: «come tenere la penna», o l’apprendistato del nuoto a: «come non bere nuotando». Non che sia inutile, è ugualmente indispensabile, però insufficiente per scrivere o nuotare. I numerosi libri di Aikido trattano delle cadute in modo fin troppo laconico e, per la maggior parte, ignorano totalmente il ruolo dell’uke.
Per queste ragioni, ci avvaliamo dell’approccio eloquente ed espressivo alla caduta di Franck Noël , nel suo libro: «Aikido : frammenti di un dialogo a due incognite»:
“La caduta, in Aikido, è tutto salvo una sconfitta. Riveste una dimensione utilitaria, simbolica, magica, eroica, ritmica ed estetica allo stesso tempo. In quanto esplorazione sistematica di tutti i modi di contatto possibili col suolo, acquisisce forme diverse : capriole, scivoloni, rimbalzi, addirittura appiattimenti… Il suolo, che non pensavamo che a calpestare senza rimorso né tanto meno piacere, si pone improvvisamente come il partner di lunghe conversazioni, come l’interlocutore di negoziati stringati, difficili, nei quali bisogna confrontare tutti i punti di vista, considerare le esigenze e fare delle concessioni“.
Perciò, incoraggiamo il praticante a cadere fino a quando il suo corpo glielo permetta e a non interrompere questo doloroso – ma talmente istruttivo – negoziato con l’elemento «terra». Però, il concetto di Uke va oltre l’apprendistato alla caduta che è, per Uke come per Tori, solo una parte del movimento, la sua fine, la sua conclusione, la sua apoteosi, come l’orgasmo lo è del coito. E sono tutti d’accordo del resto nel pensare che ne costituisca il momento migliore: per Tori la soddisfazione del risultato ottenuto, per Uke quella di essersi rialzato e per i due quella di potere ricominciare. Ma bisogna anche dire, che questo momento così esaltante dipenderà dalla «messa a punto, in qualche modo dai «preliminari» e, per quanto riguarda Uke, dalla sua capacita di tenere, perché molti restano «ejaculatori precoci».
In Aikido, non può esserci caduta senza attacco e questo ci riporta al ruolo di Uke. Ahimè, molto spesso, per paura o per ignoranza, l’attacco è raramente quello che dovrebbe essere e il praticante si ritrova goffo nel suo attacco come un bambino sul campo di calcio quando riceve il pallone che non ha chiamato: se ne disfa. In Aikido, la presa è il modo educativo a disposizione del praticante per permettergli di imparare e capire fisicamente, intellettualmente ed emozionalmente i principi che sottendono la pratica e che costituiscono, per essere esatti, una delle specificità di questa arte marziale. Fisicamente perchè tiene o è tenuto – secondo che sia Uke o Tori; intelletualmente perché deve riconoscere e ordinare, tramite questa presa, leggi e principi da utilizzare per disfarsene o mantenerla ; ed emozionalmente/emotivamente perchè rappresenta, simbolicamente, un attacco destinato ad abbatterlo. È a questo livello che si incontra la principale ambiguità della pratica dell’Aikido. Infatti, la presa non è un attacco in sé, ma un simulacro di attacco. Marzialmente, potrebbe piuttosto avvicinarsi ad una minaccia dissuasiva, eventualmente ad un tentativo di controllo, o essere il preludio di un attacco più definitivo, come un atemi, un pugno o altro.
Tuttavia, un attacco, qualunque esso sia: presa, pugno, calcio, colpo di bastone, coltellata, freccia, pallottola, missile, è sempre costuito da una direzione, da una dinamica – forza, velocità o energia, secondo la concezione che ne abbiamo – e da una distanza. Nella terminologia marziale, questo concetto è chiamato Ma-Ai: lo spazio-tempo. Che si lanci un missile o che sferriamo un calcio, l’obiettivo da ragguingere necessita la compresenza di questi tre fattori. Il risultato, certo, dipenderà dalla potenza dell’arma usata: più sarà distruttiva, più i suoi effetti saranno difficilmente controllabili. Spesso, i mezzi utilizzati sono sproporzionati rispetto all’obiettivo da colpire. Questo constatazione si può applicare all’ultima guerra in Irak, che ha fatto l’impressione «di un elefante che schiaccia un top », come ad un taglio di spada o ad una presa al polso.
Dunque sembra indispensabile, per tentare di capire il ruolo dell’Uke a questo punto, non considerare la presa come un attacco nel senso reale della parola, ma piuttosto come lo schizzo è al pittore, il disegno all’architetto, la trama al tessitore. È lo schema, l’imbastitura, l’abbozzo, con il quale l’artigiano praticante potrà, con l’aiuto degli arnesi che l’Aikido mette a sua disposizione, lavorare e dare forma al movimento, migliorarlo, adattarlo di continuo. Più l’abbozzo sarà grossolano, più arduo sarà il compito del Tori per giungere al prodotto finito. Al contrario, più l’abbozzo gli si avvicinerà, più il lavoro del Tori sarà facilitato, migliore e più
veloce la sua comprensione del movimento esatto e della sua esecuzione.
Comunque, la didattica dell’Aikido comprende nel suo repertorio degli attacchi che tentano di avvicinarsi, quanto possibile, alla realtà, cioè: shomen, yokomen, tsuki e gli attacchi con le armi, per esempio. Ma anche qui, c’è un abisso tra un attacco sul tatami ed un attacco «reale», cioè un attacco che minaccia realmente la nostra vita e che lascia intravvedere la sua possibile fine. Nessuno si augura, del resto, di vivere una tale esperienza, a meno di avere tendenze suicide.
Sarebbe ridicolo credere il contrario, sia a livello di Uke che di Tori. Nessuno viene al Dojo per uccidere chicchessia, anche se la pratica impone di crederci. Non dispiaccia ai nostalgici, non si accetta alcuna perdita in un dojo, come poteva invece essere nei Ryu in un’epoca in cui si imparava il mestiere delle armi. In caso contrario, il responsabile sarebbe accusato di omicidio volontario o involontario e citato in giudizio. Potrà sempre perorare che pratica le arti marziali e convincere i giurati che questo studio comporta dei rischi!
Per chiudere questo capitolo sull’attacco nell’Aikido, quello che non è ma che rappresenta, ci rifacciamo ancora a Franck Noël:
“L’attacco è uno degli elementi del dialogo attraverso il quale l’Aikido impegna i suoi adepti a comunicare; dovrebbero elaborarlo mentre lo usano. Come nella buona retorica, le domande sollecitano risposte, ma queste elementi di risposte inducono le domande a precisarsi. Pertinenza delle une e adeguamento delle altre usciranno rinforzate da questo scambio“.
Prima di esaminare qualche suggerimento utile e pratico per migliorare la nostra comprensione del ruolo dell’Uke, è utile ricordare alcuni dei concetti fin qui sviluppati:
- Da quando ha adottato la posizione verticale durante la sua evoluzione, l’uomo non è predisposto a fare l’apprendistato della caduta a causa di fattori psicofisiologici che le sono cosciamente o incosciamente correlati, sopratutto la perdita dell’equilibrio.
- L’apprendistato alla caduta permette di entrare in contatto con le paure viscerali legate alla nostra natura e di modellare il corpo necessario alla realizzazione delle tecniche dell’Aikido.
- La caduta, anche « padroneggiata », rimane dolorosa ed estenuante.
- Uke non si limita al solo Ukemi. Sta alla ricerca dell’equilibrio come la tecnica di Tori a quella dello squilibrio.
- La presa non è un attacco in senso reale. È il suo abbozzo. È lo strumento educativo a disposizione del praticante (Uke e Tori) per permettergli di imparare e capire fisicamente, intellettualmente ed emozionalmente i principi che sottendono la pratica.
- Nell’ambiente del Dojo, un attacco non è portato con lo scopo di attentare alla vita di Tori o di nuocergli, anche se la pratica impone di crederci.
La questione rimane dunque di sapere come Uke deve comportarsi per giocare il suo ruolo. Non converrebbe forse, dapprima, precisare quale è questo ruolo ?

Per diversi motivi, Uke deve comportarsi come un padre col suo bambino. Per questa ragione, questo ruolo dovrebbe essere sostenuto da un praticante avanzato, cioè giunto a maturità. È un fatto assodato nei Budo classici che usano le armi. Infatti, non manipoliamo un’arma, neppure in legno, come una presa o una mano.
Nella maggior parte delle tradizioni orientali, la vita umana si svolge per periodi di 7 anni. Un detto giapponese consiglia : «Fino ai 7 anni, servi il tuo bambino come un principe, dopo servitene come di uno schiavo». Quelli che hanno la fortuna di avere educato i loro bambini capiranno facilmente di cosa si tratta.
Durante il difficile passaggio dalla posizione seduta alla posizione verticale, il bambino ha bisogno dei suoi genitori. È loro compito assisterlo durante questo apprendistato. In un primo tempo, lo aiutano a reggersi in piedi tendendogli le braccia accoglienti per incitarlo ad alzarsi e rassicurarlo, cercano di ridurre al massimo le sue cadute o almeno badano che non si faccia male o «tropp » male, poiché sanno che le cadute e le botte hanno un valore educativo. Poi, quando riesce febbrilmente a tenersi in piedi, aggrappandosi a loro o ai mobili, lo aiutano pazientemente a fare i suoi primi passi prestandogli le loro dita, si armonizzano al suo ritmo, ricalcano i suoi passi, in una parola dedicano il tempo necessario perché questa esperienza unica si svolga nelle migliori condizioni possibili. Poi, quando si avventura ed abbandona questa protezione rassicurante lasciando una mano e poi l’altra, per lanciarsi solo sulle due gambe con passi titubanti ed instabili, lo accompagnano, pronti a intervenire al minimo squilibrio, a sosternerlo in caso di incertezza e non smettono di incoraggiarlo con parole confortanti. Finalmente, cammina.
Poi, corre, salta gradini, uno, poi due. Dopo vengono pattini a rotelle, la bicicletta, il calcio e tante altre cose che i genitori si entusiasmeranno a mostrargli, e questo durante sette anni. Ma cosa sono, esattamente, 7 anni della vita di un Aikidoka? Su questo punto ugualmente sussiste una certa ambiguità. Sette anni in ragione di due corsi di due ore per settimana sono una cosa, sette anni in ragione di un corso di due ore al giorno una altra cosa. Nel primo caso, costituiscono 1450 ore, nel secondo più di 5000, cioè 3 volte di più. In materia di aeronautica, per esempio, sono solo considerate le ore di volo per determinare le attitudini di un pilota. In Aikido, questa imprecisione è all’origine di molti fraintendimenti sulla qualità, sulle capacità e sul valore degli uni e degli altri. In generale, i praticanti parlano più volontieri del numero dei loro anni di pratica e sono discreti sulle loro ore di volo.
Ma possiamo normalizzare questa situazione ? La formula migliore consisterebbe nel rifarsi alla pratica degli Uchi-deshi di O’Sensei. Quando il Maestro Tamura è arrivato in Francia, aveva 12 anni di anzianità…, ma quante ore di pratica?
La sola ragione per la quale mettiamo in evidenza questa ambiguità è di permettere al praticante di realizzare che i 7 primi anni della vita di un Aikidoka si devono misurare in ore più che in anni di pratica e così capire che la prima infanzia può durare molto più tempo per la maggior parte dei praticanti. In altre parole, Uke dovrà conservare verso loro le stesse attenzioni che un padre ha per il suo bambino. Nella scala di misura proposta sopra, la fine del primo periodo di 7 anni potrebbe corrispondere al grado di Yondan che conferma la fine dell’apprendistato della tecnica. Il praticante arrivato a questo stadio ne ha fatto il giro – in lungo, in largo e attraverso -, conosce tutte le sue specificità, come il pianista conosce il tecnicismo delle dieci dita e della pedaliera del suo pianoforte.
È capace di suonare senza difficoltà i grandi pezzi del repertorio. Può ormai cominciare ad interpretare la musica, ma non possiede ancora la SUA musica. Ma allora, perché tenere duro o forte, perché testare quando il partner non sa ancora camminare solo? Che penseremmo di un padre che, non rispettando i tempi del suo bambino, invece di sosternerlo gli afferrasse la mano, imponendogli il suo ritmo, i suoi passi, e che lo rimproverasse se non segue?
Riprendendo il parallelo tra il praticante di Aikido e il bambino durante i primi 7 anni di vita, potremmo considerare che lo stare in piedi corrisponde all’apprendistato dell’Ukemi ed il camminare a quello della tecnica, per Tori come per Uke poiché, come abbiamo visto, questi due aspetti sono indissociabili dalla pratica.
Un’altra incomprensione del ruolo dell’Uke sta nel fatto che, nella maggior parte dei casi, Uke non sa camminare più di Tori, o appena meglio, o addirittura meno. Al contrario e paradossalmente, perché sta a lui attaccare, può falsare il gioco non offrendo a Tori la presa di cui ha bisogno per capire e realizzare la tecnica.
Abbiamo troppo dissertato a proposito della «compiacenza» dell’Uke. Tanti, troppi, considerano che non vi sia motivo di cadere se il movimento eseguito non li costringe, non li trascina. Sono quelli che potremmo chiamare assolutisti, i «Cristo, poiché sei Cristo, scendi dunque dalla croce!», o in altre parole: «Poiché devi farmi cadere, provami che ne sei capace!». Volendo ben guardare, ai fini della dimostrazione, che questo modo di fare sia dettato da considerazioni di ordine pedagogico, può sembrare utopistico da parte di un praticante che non sa ancora camminare, o quasi, che realizzi un movimento imparabile, o vinca i 100 metri ai giochi olimpici! Non è meno presuntuoso esigere che Tori cammini quando si tiene appena in piedi. Di solito, questa attitudine è dettata per la preoccupazione di risparmiarsi perché, come abbiamo visto, la caduta, anche «padroneggiata», rimane faticosa e dolorosa.
Così, col pretesto di non essere compiacenti con Tori, si finisce per essere compiacenti con se stessi. La maggior parte delle volte, si tratta più di una manifestazione dell’ego che di una vera vocazione pedagogica, nel senso che ostacolare la realizzazione della tecnica permette di rassicurarsi sulla propria incapacità a realizzarle essi stessi. Pensano: «Non riesco a fare la tecnica, ma non ci riesce neanche lui !… e non faccio niente per permettergli di riuscirci». Questo comportamento, un po’ sterile, avvelena letteralmente la pratica sui tatami. In effetti, è molto simile ad un’ingerenza del ruolo di Uke su quello di Tori; è esigere che lui faccia correttamente la sua parte di lavoro per accettare di fare la propria. Ora, entra nel ruolo e nella funzione dell’Uke di fare il primo passo creando le condizioni favorevoli, proponendo l’abbozzo il più affinato.
Infatti, per aiutare un bambino a camminare, non gli facciamo attraversare un campo minato, non seminiamo di ostacoli il suo percorso, non mettiamo ai suoi piedi scarpe di piombo. Al contrario, liberiamo il terreno, allontaniamo gli ostacoli e gli infiliamo scarpe adatte alla marcia. Inoltre, si privano essi stessi della parte della pratica di cui il loro corpo ha bisogno per formarsi: rifiutare di cadere è una caduta persa definitivamente: «Val più la pratica che la grammatica». Da qui, sta all’Uke fare coscienziosamente il suo lavoro e al Tori il suo, indipendentemente ma insieme. Il concetto è chiamato Awase.
Ma guardando le cose in faccia, questa ultima proposta può sembrare profondamente egoista. In effetti, lo è. «Conosci te stesso e conoscerai gli altri» potrebbe dunque tradursi, nel linguaggio dell’Aikido: «Conosci la caduta e conoscerai il movimento». Dunque importa poco per Uke, in un certo senso, che Tori arrivi o no a realizzare la tecnica giusta, purché il suo embrione di movimento gli permetta di cadere e di insegnare al suo corpo le legge dell’equilibrio e dello squilibrio.
I praticanti che hanno già una certa esperienza sanno quanto è difficile realizzare una tecnica su un principiante che ha solo qualche ore di pratica. Ed è ugualmente difficile ma istruttivo arrivare a cadere, cioè a fare che la tecnica si avvicini il più possibile a quella che dovrebbe essere, con qualcuno che non possiede ancora le chiavi che gli permettano di realizzarla correttamente.
Ma tutte queste digressioni non ci dicono quello che dovrebbe essere una presa. Tuttavia le idee sviluppate qui sopra hanno permesso di capire meglio quale deve essere il ruolo dell’Uke. Una presa dove essere dura, molle, potente, forte, solida, morbida, rapida, energica, passiva, dinamica? In effetti, il problema non è là. Se l’insegnante domanda un lavoro in Kotai, sarà potente e solida. Se lo domanda in Jutai, sarà morbida et dinamica. In ogni caso durante tutti i tentativi del Tori di realizzare la tecnica, Uke deve, quando è possibile (nessuno è «tenuto» a fare l’impossibile) e nel limite della biomeccanica, mantenere la sua presa e non ostacolare il movimento, anche se non è «giusto», per lasciarla solo quando è trascinato nelle sua caduta e poi rialzarsi. Se Tori lavora con le braccia, Uke riproduce il movimento con le sue. Se il primo spinge, l’altro si sposta indietro; se tira, si sposta in avanti, etc… Uke deve, in altre parole, divenire lo specchio di Tori, divenire quello che la foto è per il negativo: il suo rivelatore.
Idealmente, deve riprodurre il risultato e gli effetti reali del movimento di Tori, un po’ come lo sketch dei due pagliacci con lo specchio rotto. È così che Tori perverrà a vedere e capire quello che fa e che Uke svilupperà la flessibilità del corpo e dello spirito indispensabile alla comprensione dei principi dell’Aikido.
Questi pochi suggerimenti non hanno la pretesa di esaurire l’argomento, né di portare soluzioni miracolose. Il ruolo di Uke si sperimenta e si affina sul tatami prima di tutto. Il nostro desiderio è dare un contributo, un nuovo punto di vista a quest’altro aspetto della pratica, troppo spesso discreditato. Questo articolo è un tentativo di impegnare i praticanti a comunicare ed elaborare insieme questo dialogo a due incognite: FARE DI DUE : UNO. Per arrivarci, è indispensabile conoscere e possedere entrambe i ruoli.
Per concludere, ricorderemo che Uke deriva dal verbo Ukeru che significa: Ricevere.
Però, per ricevere, bisogna dare. Uke, attraverso la sua presa, il suo attacco, deve fare il dono della sua energia, del suo corpo, della sua comprensione, della sua disponibilità, della sua esperienza (anche se minima), della sua sensibilità e mette simbolicamente la sua vita nelle mani di Tori per permettergli di realizzare Aiki, l’Unità. Ma il praticante non potrà sperare di raggiungere il Tao se non accetta di esplorare questi due elementi della pratica, Tori e Uke, che costituiscono la tecnica dell’Aikido.
Copyright Daniel Leclerc©2010
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