
Sono passati un po’ di anni da quando il mio primo insegnante, per motivi di lavoro, dovette cambiare città e affidare a me il corso di Takemusu Aikido che fino ad allora aveva diretto così bene da portare diversi di noi allievi, in pochi anni, all’ambito traguardo della tanto agognata “cintura nera”. Passai così “dall’altra parte della barricata” e cominciai a sperimentare quanto fosse comodo il ruolo dell’allievo e quanto, viceversa, impegnativo quello dell’insegnante
di CARLO CAPRINO
“Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e allora troverai”
(Mutus Liber, Tavola XIV)
Mi rivedo oggi nelle titubanze e nelle preoccupazioni dei senpai a cui ogni tanto vengono affidati gli shoshinsha meno esperti e rifletto su quanto anche il più apparentemente semplice aspetto della pratica nasconda un valore cangiante in funzione del grado di esperienza di chi lo osserva o lo sperimenta.
Mi ritrovo anche io, come altri insegnanti, di fronte a domande a volte esplicite ed a volte sottintese, che chiedono conto della didattica offerta e del programma di studio proposto: “Se il nome della nostra Arte può essere tradotto come “Fonte Inesauribile di Tecniche” perché facciamo sempre le stesse cose?”, “Perché affrontare ore di viaggio per partecipare ad un incontro di studi in cui l’insegnante fa eseguire le stesse tecniche che pratichiamo nel nostro Dojo?”; “Come mai se questo insegnante sa tante cose e noi siamo praticanti esperti, cominciamo sempre le sue lezioni con gli esercizi che si fanno eseguire ai principianti?”. Questa la sintesi delle osservazioni che alcuni allievi esprimono al loro insegnante e che meritano attenzione e risposta.
Le riflessioni che seguono fanno riferimento esplicito ad alcuni aspetti della pratica dell’Arte marziale prima citata, ideata da O’Sensei Ueshiba Morihei attingendo alle antiche tecniche di combattimento ed alla intima spiritualità del Giappone, ma ritengo senza tema di scostarmi troppo dal vero che possano essere condivise – fatti gli opportuni aggiustamenti – anche in altri ambiti in cui viga il rapporto istruttore – allievo, formalizzato o meno che sia.

Desiderio e necessità
Tanti anni fa lessi un articolo scritto da un rinomato insegnante americano che affermava: “Esistono due tipi di insegnanti: quelli che insegnano quello che gli allievi vogliono imparare e quelli che insegnano quello che gli allievi hanno bisogno di imparare”. Verità tanto eclatante quanto spesso trascurata. Fino a non molto tempo fa il problema era relativamente poco sentito per la minuscola percentuale degli insegnanti del primo tipo, carenza dovuta al fatto che solo un allievo particolarmente sfrontato avrebbe mai pensato di “dettare il programma” al suo insegnante e – semmai lo avesse fatto – avrebbe quasi certamente terminato in quel momento la sua carriera di studente.
Un tempo era l’allievo che cercava chi potesse insegnargli le tecniche ed i segreti dell’Arte, e ciò valeva nel Dojo come in bottega, nella sala d’armi come nell’officina ed era l’insegnante, il “maestro”, a decidere a suo insindacabile giudizio cosa, come, quando e a chi insegnare.
Oggi le cose sono molto cambiate; necessità “profane” affliggono anche Scuole blasonate e Maestri rinomati: c’è da pagare l’affitto della sala e le bollette, c’è da fare fronte a allievi (giovani e no) sempre più svogliati, sempre meno attenti, sempre meno disposti ad accettare l’”ipse dixit”, sempre più blanditi da corsi “tutto e subito” che offrono risultati mirabolanti in pochi giorni di pratica, credibili al pari delle pagine pubblicitarie che – anni fa – proponevano occhiali a raggi X per vedere oltre le pareti (e sotto i vestiti…), le scimmie di mare, le palestre per body builder fai da te e profumi in grado di sedurre chiunque.
Lungi da me voler intonare il peana dei bei tempi andati, sono consapevole che dietro la gerarchia tante volte si celava l’arroganza e che pensare con la propria testa è un traguardo a cui ogni allievo dovrebbe essere stimolato dal proprio onesto insegnante. Il problema nasce quando i limiti vengono travalicati e i ruoli quasi invertiti. Tanti allievi oggi girano come trottole alla ricerca frenetica della Scuola più blasonata, dell’insegnante più graduato, della tecnica più efficace senza che ciò avvenga – come un tempo – in una sorta di pellegrinaggio itinerante che era già una formazione in sé e per sé, ma piuttosto attraverso sterili polemiche di forum e social network, con visioni compulsive di video in Rete, tramite infinite discussioni su tutto e sul nulla.
Alla pratica praticata, duole dirlo, si dedica poco tempo affermando che gli impegni sono tanti: lo studio, il lavoro, la famiglia, la fidanzata, il calcetto, la serata con gli amici, il minimo malanno sono gli argomenti più gettonati nelle giustificazioni delle assenze riportate all’insegnante che pur avendo spesso gli stessi impegni – se non di più – è però sempre miracolosamente presente.
In conclusione, riprendo le parole ed il pensiero di un Istruttore assai più abile di me, che scrive:
Tutte queste persone sembrano dimenticarsi come è la regola, la struttura, il rapporto anche rigido con la gerarchia che forma la persona attraverso le inevitabili tensioni interiori che produce il contrasto fra ciò che riteniamo di essere e ciò che invece è la realtà delle cose. Non esistono vie brevi, esiste solamente il lento e paziente lavoro interiore. Il quale può essere suggerito da altri, nei vari modi che essi riterranno opportuno, ma che deve essere compiuto individualmente. Esistono invece miriadi di scuse per non lavorare interiormente, per non rispettare la gerarchia e la struttura, ma esse sono sempre e comunque riconducibili a due: mancanza di volontà e superbia. 1
Certamente oggi sono difficilmente percorribili le Vie di formazione un tempo seguite, ma è altrettanto vero che determinati risultati per essere effettivi e reali necessitano di tempo e pratica, e questo è vero oggi come ieri e chiunque creda che un ora passata a vedere video su YouTube sostituisce efficacemente un ora di pratica praticata, è destinato a cocenti delusioni.

La tecnica, mezzo o fine?
Una delle incomprensioni più frequenti è quella che ritiene la tecnica studiata solo un “fine” mentre questa è – soprattutto – un “mezzo” per apprendere il principio che ne è alla base. Sollevare un bilanciere carico di dischi di ghisa è un mezzo, non il fine della pratica; risolvere il problema che la maestra ci dava come compito alle scuole elementari è un mezzo, non il fine dell’esercizio; provare e riprovare scale e solfeggi musicali sono un mezzo, non il fine ultimo di un cantante o di un musicista.
Molti si ostinano sulla strada intrapresa, pochi sulla meta.2
Ripetere e ripetere e ripetere un gesto che crediamo di sapere a memoria può essere noioso se riteniamo che quel gesto sia il fine della pratica, sarà invece fonte di costanti insegnamenti se lo utilizzeremo come mezzo, poiché quel gesto, che agli occhi di uno spettatore ignaro sembrerà sempre uguale a sé stesso – cambierà con noi mentre noi cambieremo grazie a lui.
Nessun pittore potrà mai dipingere un quadro esattamente uguale all’altro, nessun musicista potrà mai eseguire un concerto identico al precedente, nessun cuoco cucinerà mai una pietanza con il medesimo sapore di quella del giorno prima, pur usando gli stessi ingredienti. Alla stessa maniera, nessun praticante di batto-do, per quanto esperto, eseguirà mai due tagli identici, nessun karateka eseguirà un kata uguale all’altro, nessun aikidoka riuscirà a riprodurre esattamente il tai-no-henko appena eseguito, a meno di non ridursi ad una esecuzione fredda, vuota, meccanica e senz’anima.
Semplice, ma non banale
Un esperto di matematica sa che aumentare il numero delle incognite di una equazione la rende esponenzialmente più difficile da risolvere; alla stessa maniera un tecnico di laboratorio sa che per ottenere risultati affidabili in tempi accettabili il campo di osservazione deve essere opportunamente limitato e circoscritto. Alla stessa maniera possiamo vedere le tecniche che pratichiamo: il fatto che siano semplici (apparentemente!) non deve trarci in inganno facendocele giudicare banali, perché la verità è esattamente al contrario. Di fatto, una tecnica “semplice” (il virgolettato è d’obbligo…) ci permette di concentrare l’attenzione su uno o pochi aspetti della nostra pratica, sgrossandoli e rifinendoli al meglio.
Di fatto poi, ci si rende conto assai presto che le tecniche “semplici” poi tanto semplici non sono, che un fendente di spada, un affondo di bastone, il semplice sollevare un braccio coordinandolo con la respirazione è tutt’altro che un gioco da ragazzi e che – anzi – più pratichiamo e più nodi ci accorgiamo vengono al pettine. E’ a questo punto che possiamo scegliere di fare finta di nulla e continuare in un esercizio esteriore che muove solo l’aria, oppure rimboccarci le maniche del keikogi, ruzzolare dal tatami alla tana del Bianconiglio e vedere cosa la pratica ha in serbo per noi.
Il guaio è che con una tecnica “semplice” è difficile bluffare, agitare le acque o alzare polveroni; se mi si chiede di tracciare un cerchio3 ed io disegno un ovale, l’errore è lampante. Se viceversa devo tracciare un complesso reticolo di linee e punti e me ne scordo una, l’errore potrebbe non essere così immediatamente evidente.
Mio nonno esercitava il mestiere di fabbro ferraio e ripeteva spesso una frase in dialetto che tradotta affermava: “L’attrezzo fa il maestro e il maestro fa l’attrezzo”, con questo significando che lo strumento giusto permette al maestro di esprimere al meglio la sua abilità, così come è l’abilità del maestro che permette di sfruttare appieno le potenzialità dell’attrezzo. Volendo utilizzare un esempio matematico, fatto 10 il risultato della somma tra bravura dell’utilizzatore e l’efficienza specifica dell’attrezzo, se l’utente vale 1 lo strumento deve valere 9 e viceversa, il che significa che un utilizzatore esperto potrà raggiungere il suo risultato con attrezzi semplici, mentre il meno bravo dovrà necessariamente servirsi di strumenti più complessi4. Ne consegue che se vogliamo crescere in bravura dobbiamo servirci di strumenti “semplici”, senza cullarci nella pigra indolenza di lasciar fare il lavoro tutto all’ipertecnologico attrezzo di cui potremmo dotarci.

Lunga la foglia, stretta la Via
Una tecnica marziale, la più semplice che sia – fatti i dovuti distinguo – può (deve?) essere “letta” nei quattro sensi di interpretazione della Scritture bibliche che Dante illustra nel “Convivio”: il senso letterale, che spiega ciò che è; quello allegorico, che suggerisce ciò che è sottinteso; quello morale, che insegna ciò che è giusto fare; quello anagogico, che illumina l’aspetto mistico e nascosto.
Sotto questo aspetto, appare evidente che fatto salvo il sincero impegno del praticante, l’ausilio di un insegnante è opportuno quando non indispensabile, perché da soli potremo cogliere i primi due sensi, se siamo particolarmente dotati anche il terzo, ma il quarto no, perché se lo cogliessimo la nostra cerca sarebbe terminata.
Diciamo che, secondo le concezioni tradizionali, la funzione di maestro non si limita all’insegnamento delle dottrine, ma significa una vera incarnazione della conoscenza, grazie alla quale il maestro può provocare un risveglio e, per la sua stessa presenza, aiutare l’allievo nella sua ricerca. Egli esiste per creare le condizioni di un’esperienza attraverso la quale la conoscenza potrà essere “vissuta” nel modo più totale possibile.5
Sia chiaro però, nessun Maestro, sia pure eccelso, dotato e volonteroso, può trasmettere la conoscenza, ma al massimo gli strumenti per conseguirla; facendo un paragone con l’insegnamento della matematica, un Maestro non fornisce ai suoi allievi il risultato delle operazioni che gli assegna, bensì gli insegna i principi necessari per risolverle:
Nello Zen si utilizzano parole semplici, brevi e precise, disadorne, e non serve che il maestro ne spieghi il senso. Il maestro insegna la vera radice, quella che sta dietro la parola, aldilà della parola.6
Questo modo di insegnare è comune a tutte le Arti tradizionali di origine orientale di ispirazione confuciana o buddista che si basano sul controllo tecnico e sulla illuminazione spirituale, come viene detto in un interessante scritto sull’Arte della spada:7
“Il maestro insegna la tecnica senza spendere una parola sul suo significato; egli aspetta semplicemente che lo studente lo scopra da solo. Tutto ciò viene detto: tendere l’arco senza lasciar partire il colpo. Non dà spiegazioni, vero, ma si comporta così non per crudeltà. Lo fa semplicemente perché egli vuole che il suo studente raggiunga la maestria non solo con la pratica ma anche con la totale partecipazione del suo cuore. Quando lo studente si è esercitato con tutto il cuore ed è giunto ad una qualche meta con la sua personale energia, allora se ne va; ma prima si presenta al maestro. Il quale, visto che è il suo proprio cuore che glielo dice, conferma lo studente nella decisione presa. Non esiste impedimento alcuno da parte del maestro”.
Questo aspetto non è sempre valutato nella sua effettiva portata, così si possono verificare effetti diversi e tutti deleteri: vogliamo tutto e subito, vogliamo essere stupiti con effetti speciali, vogliamo qualcuno che ci dica che siamo buonibravibelli, vogliamo convincerci che è la tecnica che non funziona enon è che siamo noi incapaci di applicarla, e così via… Nulla di nuovo sotto il sole, da che mondo è mondo alcuni comportamenti umani si ripropongono immutabili, e non è un caso se Scuole, Istituzioni, Fratellanze e Ordini hanno sempre ed in ogni luogo previsto per gli adepti una scala gerarchica, una serie di esami da superare per “avanzare di grado” ed un “programma didattico” per esserne all’altezza.
Non sarà inutile precisare che le pratiche e gli esercizi previsti dal citato programma didattico (qualunque tipo di percorso formativo si intenda con tale dizione) devono essere svolti con cuore sincero e massima dedizione e attenzione col fine del proprio auto miglioramento; non vanno – in altre parole – ripetuti a mo’ di scimmia ammaestrata per compiacere il nostro Ego. Come afferma chiaramente un noto studioso:
Nella loro infinita saggezza i nostri passati Maestri hanno creato una scala Iniziatica in cui ogni singolo grado corrisponde ad un ben preciso stato di coscienza sottintendendo perciò una ben precisa e specifica operatività.8
Il nostro progresso sulla Via procede quindi sulle nostre gambe e si giova delle indicazioni di chi quella Via l’ha percorsa prima di noi. A noi viandanti inesperti (e un po’ presuntuosi) a volte queste indicazioni potranno sembre inutili, eccessive, noiose o incomprensibili, ma dobbiamo avere l’umiltà e la pazienza di accettarle, fidandoci di chi ce le dona.
La prima e più importante caratteristica dei gruppi, è che essi non sono costituiti secondo il desiderio e le preferenze dei membri. I gruppi sono costituiti dal Maestro, il quale seleziona i tipi che, dal punto di vista dei suoi scopi, possono essere utili gli uni agli altri.
Nessun lavoro di gruppo è possibile senza un maestro, e il lavoro di gruppo con un cattivo maestro può produrre soltanto risultati negativi.
La seconda importante caratteristica del lavoro dei gruppi, è che questi possono essere in relazione con qualche scopo, del quale coloro che incominciano il lavoro non hanno la minima idea, e che non può essere loro spiegato sino a che essi non comprenderanno l’essenza del lavoro, i suoi principi e le idee ad esso connesse. Ma questo scopo verso il quale essi vanno e che servono senza conoscere, è il principio equilibrante necessario al loro proprio lavoro e senza il quale il lavoro stesso non potrebbe esistere. Il primo compito è comprendere questo scopo, cioè lo scopo del maestro. Quando questo scopo è stato compreso, sebbene dapprima non pienamente, il loro lavoro diventa più cosciente, e quindi può dare risultati migliori. Ma, come ho già detto, accade sovente che lo scopo del maestro non possa essere spiegato all’inizio.9

Repetita iuvant
Un aspetto particolare del rapporto Istruttore – Allievo, accennato in precedenza ma a cui vale la pena tornare, è quello in cui il primo propone al secondo lo studio e la ripetizione di tecniche di base. Come accennavamo, spesso questa riproposizione viene malignamente giudicata dall’allievo come un tentativo di “allungare il brodo” e tirare per le lunghe il percorso addestrativo. Seppure questa possibilità non si possa escludere a priori, nel caso in cui l’insegnante sia sinceramente impegnato a favorire il progresso dell’allievo, questa proposta didattica ha validi e fondati motivi di essere.
Come abbiamo detto, la prima parte dell’addestramento prevede da parte dell’allievo una esecuzione “esterna” della tecnica mostrata dal suo istruttore, “esterna” nel senso che viene riprodotta (con maggiore o minore precisione) la forma esteriore e visibile della tecnica mostrata, senza necessariamente coglierne gli aspetti più sottili e celati. Attraverso la costante ripetizione della tecnica e grazie alle puntuali indicazioni dell’istruttore, l’allievo interiorizzerà progressivamente la tecnica, facendola sempre più sua ed esprimendola sempre più con la propria personalità.
Un detto popolare afferma che “la coda è la più difficile da spellare”, intendendo che la parte conclusiva di un Opera è solitamente la più difficile da compiere; la cosa è nota a chiunque abbia una certa dimestichezza di officine artigiane o botteghe d’arte, in cui ai lavoranti meno esperti viene affidato il compito di preparare l’opera o sgrossare il pezzo su cui poi il Maestro apporterà le opportune rifiniture. Il famoso “tocco d’artista” a volte è una sfumatura, un ultima pennellata, una leggera passata di carta abrasiva, un tocco leggero ma non meno efficace.
Alla stessa maniera procede l’addestramento in un Dojo o in una sala d’armi; l’allievo è operaio di sé stesso, e la attenta e costante esecuzione delle tecniche proposte dal suo istruttore lo prepara a ricevere quell’ultimo “tocco” del Maestro senza cui l’Opera che esegue su sé stesso non potrebbe dirsi compiuta, tocco – occorre dirlo – di cui a volte l’allievo potrebbe non cogliere la necessità, credendosi erroneamente già completamente “rifinito”.
D’altra parte dobbiamo essere sempre consapevoli che un istruttore trasmette esplicitamente solo la forma esterna della pratica, perché solo questa può mostrare, mentre sta poi a ciascun praticante (ap)-prendere quella tecnica, comprenderne i principi e farla propria. Quello che il Maestro offre al principiante è esattamente ciò che serve: non di più, anche se sembra troppo, non di meno, anche se sembra poco. E quello che il Maestro chiede al principiante è esattamente ciò che questi può dare: non di più, anche se sembra troppo, non di meno, anche se sembra poco. E’ uno scambio leale e onesto, in cui non ciascuno ha un compito da svolgere senza pietismi e piagnistei. Al suo allievo che lo ringrazia per avergli offerto un importante mezzo di progresso, un Maestro risponde:
I Maestri danno solo ciò che devono dare, e quello che devono dare è soltanto ciò che serve. Questo non è un regalo e non è una ricompensa; è uno strumento, un indizio, una traccia.10
Conclusioni
Pochi argomenti come quello trattato in queste scarne righe si prestano a riflessioni, dibattiti e differenze di vedute con polemiche anche vivaci. Con ragione maggiore rispetto agli scritti precedenti quindi devo doverosamente evidenziare che quanto scritto è solo il frutto della mia esperienza e vale tanto quanto questa. Pertanto esclusivamente mia è la responsabilità degli errori e delle imprecisioni eventualmente presenti in queste righe, mentre
Ciascuno trarrà da quanto scritto sopra conferme o differenze rispetto alle proprie opinioni, e non potrebbe essere diversamente, ma credo si possa essere tutti d’accordo nell’affermare, geometricamente, che senza una base solida non si possono raggiungere grandi altezze o notevoli profondità, che dir si voglia, ed è questo il concetto che mi guida nella mia pratica di studente ed insegnante.
I miei ringraziamenti vanno ancora una volta ai Maestri che con pazienza ed attenzione mi offrono il loro prezioso aiuto ed a loro unisco i miei allievi, che mi affiancano e mi spronano lungo la impegnativa ed affascinante Via che abbiamo scelto di percorrere insieme.
Copyright Carlo Caprino ©2014
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Note
[1] In “Lex Aurea” n° 50 del 22 dicembre 2013
[2] Da “Volume primo, l’uomo solo con se stesso, 494, Meta e cammino” in “Umano troppo umano” di Friedrich Nietzsche
[3] Narra la leggenda che il famoso pittore Cimabue riconobbe il genio di Giotto vedendolo tracciare un cerchio perfetto su una pietra, mentre sorvegliava le pecore al pascolo
[4] Un aspetto particolare di questa situazione è stato utilizzato per spiegare la differenza tra le armi tradizionali nipponiche e quelle occidentali. L’arma giapponese per eccellenza era il katana, una affilata spada d’acciaio forgiato, rimasta praticamente immutata per secoli. Alla sostanziale semplicità del’arma si affiancava il continuo studio del suo impiego nei suo vari aspetti, che nei secoli ha visto generazioni di spadaccini provare, codificare e studiare le tecniche di estrazione, di taglio e perfino di pulizia e reinserimento nel fodero; si aveva quindi un’arma terribilmente letale nelle mani di chi la sapeva usare ma che di contro poteva addirittura spezzarsi se utilizzata male. In occidente invece le armi sono diventate viavia sempre più complesse ed autonome, passando dalle armi bianche alle armi da fuoco, sino alle cosiddette “bombe intelligenti odierne”; il progresso delle armi rendeva possibile in caso di necessità il loro utilizzo (sia pure con efficacia discutibile) anche da parte di coscritti che ricevevano un addestramento sommario. Mentre insomma un arma “semplice” come il katana esigeva un utilizzatore esperto, le armi occidentali utilizzate nelle battaglie campali degli ultimi secoli hanno reso possibile lo schieramento di soldati non di professione.
[5] Dalla nota dei curatori dell’edizione francese di “Incontri con uomini straordinari”, di Georges I. Gurdjieff
[6] Si veda “la vera fonte” in “La tazza e il bastone – Storie Zen narrate dal Maestro Taisen Deshimaru”, Op. cit.
[7] Tratto da “Tengu-geijutsu-ron” di Chozan Shissai pubblicato in “Zen and Confucius in the Art of Swordsmanship” a cura di Reinhard Kammer, Routledge and Kegan, London, 1978
[8] In “Il Perfezionamento dell’Anima Secondo il Regime degli Alti Gradi”, in “Lex Aurea” n° 50 del 22 dicembre 2013
[9] P. D. Ouspensky, “Frammenti di un Insegnamento Sconosciuto”, 1976, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma.Nel volume è riportata la testimonianza degli otto anni di lavoro dell’Autore come discepolo di G. I. Gurdjieff.
[10] Da “Una via di dieci passi – Incontro con l’Aikido e l’attenzione” di Guido L. Buffo – Edizioni Promolibri Magnanelli
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