Hanmi, Molto Più di una Postura


Come è noto a chi abbia una anche minima esperienza di come si sviluppa l’apprendistato in una bottega artigianale o l’addestramento in una Scuola tradizionale di Arti (non necessariamente marziali), ben poca parte del tempo viene spesa per fornire al garzone dettagliate istruzioni verbali, limitandosi queste ai primi rudimenti indispensabili ad evitare infortuni a sé stesso o ad altri oppure danneggiamenti degli attrezzi o del materiale da lavorare

di CARLO CAPRINO

Per quanto questo metodo possa apparirci oggi pedagogicamente discutibile ed umanamente spietato, non possiamo non ammettere che la sua efficacia nel selezionare darwinianamente colui che tra decine di apprendisti aveva mezzi, genio e volontà per divenire Maestro ha visto nei secoli una conferma indiscutibile.

Oggi la evoluzione tecnologica fornisca a noi praticanti una mole di informazioni e strumenti didattici impensabili anche solo un decennio fa, è bene però ricordare che libri, video, lezioni in streaming, filmati più o meno vintage sono un ausilio prezioso che non possono e non devono sostituire la pratica praticata, unica ed inappellabile giudice della bontà di quanto sappiamo, o crediamo di sapere.

Fondamentale, in tutti i sensi

Nelle righe che seguono spenderemo qualche riflessione intorno all’Aikido, Arte marziale giapponese elaborata dal genio di Ueshiba Morihei; per quanto l’argomento trattato sia strettamente legato ai principi di questa disciplina, pure riteniamo che anche praticanti di altre Arti vi potranno trovare qualche punto di contatto con quanto a loro più familiare. Doverosa excusatio non petita è l’evidenziare che nella trattazione saranno utilizzati termini e concetti relati appunto all’Aikido che verranno dati per noti e conosciuti dal lettore, confidando nel fatto che coloro ai quali detti termini dovessero risultare stranieri, potranno compensare tali lacune ricorrendo alle risorse della Rete.

Itsuo Tsuda attacca Morihei Ueshiba. O’Sensei si trova in posizione hanmi

La maggior parte di coloro che si assumono l’onore e l’onere di insegnare Aikido, nel fornire i primi rudimenti dell’Arte ad un principiante, rimarcano che questa è caratterizzata dalla postura di Hanmi, tale per cui il corpo appare leggermente defilato rispetto ad uno spettatore frontale.

Hanmi si traduce infatti letteralmente come “metà corpo” (ma su questo torneremo più avanti) e fu una intuizione di Ueshiba Morihei che attirò su di lui gli strali e dei marzialisti del tempo che vedevano in questa postura una sorta di vigliacco tentativo di sfuggire al confronto/scontro con l’avversario, che andava invece affrontato a viso aperto e petto in fuori. La biografia del Fondatore dell’Aikido racconta diversi episodi in cui si trovò ad essere pubblicamente sfidato a dimostrare la bontà delle sue tecniche contro chi riteneva che una “bella morte” fosse il destino ideale a cui un combattente dovesse tendere.

Come e perché Ueshiba Morihei elaborò il concetto di hanmi non è argomento che può ridursi in poche righe, ma possiamo dire che questo fu un vero e proprio “punto di svolta” che segnò l’inizio dello sviluppo dell’Aikido a partire da quelle che erano (e sono) le sue radici marziali.

A significare quanto sopra l’ammonimento che Saito Morihiro Shihan [1] – che del Fondatore dell’Aikido fu allievo fedele e quotidiano per più di vent’anni – che spesso ricordava: “Aikido wa itsumo hanmi desu“, frase che possiamo tradurre come “L’Aikido è sempre hanmi”, con la presenza di un avverbio che non lascia spazio a dubbi, indicante continuità e ripetizione indefinita nel tempo.

Morihiro Saito

Sempre. Non spesso, non frequentemente, non quando è possibile, non auspicabilmente. Sempre. Se c’è hanmi c’è Aikido, se non c’è hanmi non c’è Aikido. Tertium non datur, commenterebbero i nostri padri latini.

A questo punto, l’allievo volonteroso ci guarda negli occhi e ci fa la domanda fatale: “E quindi, cosa è lo hanmi?”

Cosa sia ciascun lo dice

In risposta l’insegnante prova a mostrare la postura, ma vuoi per i limiti visivi derivanti dall’indossare hakama [2] e keikogi [3], vuoi perché – come ammoniva l’autore de “Il Piccolo Principe” – l’essenziale è invisibile agli occhi, quasi sempre lo sguardo dell’allievo si ferma sui piedi dell’insegnante disposti in maniera ortogonale, nel classico misunderstanding che vede coinvolti luna e dita, fini da raggiungere e mezzi per farlo.

Takeda Sokaku

Almeno all’inizio della pratica, la posizione del piedi ortogonali consente di assumere la postura di “sankaku tai” (“corpo triangolare”) che – in una sorta di koan [4] ci potrebbe portare ad affermare: “hanmi è sankaku tai, ma sankaku tai non è hanmi”, o almeno non lo è aikidoisticamente parlando.

Con una breve ricerca sulla Rete infatti l’allievo volonteroso di cui sopra scoprirebbe che – ad esempio – numerose immagini di altri famosi marzialisti che li mostrano con i piedi ortogonali, e se questo è facilmente spiegabile per Sokaku Takeda, che fu Capo Scuola di Daito Ryu Aikijujutsu [5] e il Maestro fondamentale per la formazione di Ueshiba Morihei, meno immediatamente comprensibile può esserlo per praticanti di altri Stili ed Arti.

La confusione aumenta quando, scorrendo immagini e filmati, notiamo che Ueshiba Morihei, ma anche Saito Morihiro, non sempre hanno i piedi a formare un angolo retto… Siamo in una classica situazione “Fate quel che dico e non quel che faccio” oppure – probabilmente – c’è di più?

Propendiamo per la seconda ipotesi, e proviamo a spiegare perché, ribadendo che quanto segue è frutto dei preziosi insegnamenti ricevuti dai Maestri, ma che solo a chi scrive vanno addebitati imprecisioni, errori e incomprensioni.

C’è corpo e corpo

Il volenteroso allievo, al limite della pedanteria, ci fa notare che abbiamo usato due termini che abbiamo entrambi tradotto con “corpo: abbiamo il “tai” di sankaku tai oppure di tai jutsu [6] ma abbiamo anche il “mi” di hanmi e di hito e mi [7]. La cosa – lungi dal chiarirsi – si fa più complicata.

Un modo abbastanza efficace per cominciare ad affrontare la questione è quello di partire dalla etimologia delle parole, e parlando di termini orientali il primo esame non può che essere dedicato agli ideogrammi dei termini in esame.

Ueshiba Morihei facing Tamura Nobuyoshi in hitoemi

Il termine tai è esresso dall’ideogramma 体 composto da due caratteri che indicano rispettivamente il significato di “persona”亻 e “base” 本. Particolare interessante, il secondo ideogramma rappresenta un albero, con le linee inferiori che rappresentano le radici e quelle superiori i rami, con una resa pittografica che evoca l’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci.

Il termine mi è invece reso dall’ideogramma 身 che ha una origine altrettanto interessante, derivando da un antico pittogramma che rappresentava una donna incinta con il feto custodito nel ventre.

Se da una parte i termini sono considerati sinonimi, dall’altra appare evidente che si prestano ad interpretazioni affatto differenti, con delle sfumature che connotano con una certa chiarezza due simbologie che offrono stimoli per ulteriori proficue riflessioni.

Senza voler offrire nulla di più che una personale opinione, possiamo dire che tai indica un corpo nella sua espressione più “materiale”, mentre mi esprime un corpo nella sua complessa valenza psicofisica ed emotiva.

Ueshiba Morihei explains the Square, Triangle and Circle shapes to his students

La forma della forme

Partendo da quanto sopra, ricordiamo che O’Sensei Ueshiba Morihei, fondatore dell’Aikido, dava grande importanza alla forme geometriche del Quadrato, del Triangolo e del Cerchio, che spesso ritroviamo con i relativi principi nella applicazione dell’Arte [8].

Al quadrato possiamo certamente associare una postura statica frontale a piedi paralleli; la proiezione al suolo della sagoma occupata da un corpo umano eretto è un quadrilatero che racchiude e riprende le linee delle spalle, del busto e del dorso.

Da un punto di vista più “sottile”, il Quadrato rappresenta il macrocosmo del mondo quaternario materiale ed il microcosmo dell’uomo profano che fronteggia l’altro da sé considerandolo un opposizione ed una minaccia. Il Quadrato è il recinto del tempio che esclude i profani e il muro di cinta del castello che tiene fuori i nemici, la forma tetragona di chi – fermo nelle sue posizioni fisiche e convinzioni mentali – nulla accoglie e nulla offre.

Se immaginiamo una linea bisettrice che unisce due angoli interni opposti e che quindi divide a metà il Quadrato [9], otteniamo un Triangolo che evoca nella causa e nell’effetto il sankaku tai, la postura propria del praticante di Aikido.

Sankaku Tai – Morihei Ueshia and André Nocquet

In una ottica simbolica il Triangolo, che nella tradizione pitagorica si manifesta come Tetraktys, simboleggia l’ascesa dal molteplice all’Uno e secondo il Wirth, collocandosi tra il cerchio ed il quadrato, rappresenta il mondo spirituale, il tramite tra la Materia e il Divino, la modalità in cui l’uomo (dalla Trinità cristiana alla Trimurti induista) tenta di raffigurare l’inconoscibile.

Se quindi il Quadrato rappresenta il profano all’arte, il Triangolo rappresenta l’iniziato, colui che è stato messo sulla Via. Non a caso il triangolo evoca la figura di una freccia, di un verso, di una direzione, di un moto lineare e quindi le tecniche in esecuzione omote, che erano tradizionalmente quelle insegnate agli allievi e dimostrate pubblicamente nel Daito Ryu Aikijujutsu, Scuola marziale in cui – come detto – si era formato Ueshiba Morihei.

Hanmi quindi esprime simbolicamente quanto il sankaku tai evidenzia fisicamente; il praticante sacrifica (etimologicamente) una parte di sé, “svuota la sua tazza” direbbe un praticante dello Zen e si prepara a ricevere e ad accogliere l’altro. In una sorta di processo alchemico, una parte della materia che lo compone viene sublimata (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma) trasformandosi in energia spirituale [10].

Jodan no kamae

Solo assumendo questo atteggiamento mentale, ancor prima che fisico, il praticante potrà eseguire Aikido, solo rinunciando ad una parte di sé potrà accogliere l’altro realizzando quella unione che – paradossale matematicamente ma giusta e perfetta in altri campi – il M° Maestro Paolo Nicola Corallini riassume spesso con l’affermazione: “In Aikido uno più uno è uguale a uno”.

Ecco quindi una possibile risposta al nostro curioso allievo: i Maestri sono in hamni anche se i piedi non sono ortogonali [11] perché hanno trasceso l’aspetto meramente materiale ed esprimono awase [12] e musubi [13] con il proprio partner mantenendo una postura solo apparentemente poco ortodossa.

Francesco Brunelli, Maestro passato del Martinismo italiano affermava che “Il mago comincia il suo lavoro senza alcuno strumento e finisce l’opera senza strumenti alcuni”; lo stesso potrebbe dirsi dell’Aikidoka, che prima di essere tale non ha hamni e raggiunta una sufficiente padronanza dei principi dell’Arte può non assumere esteriormente posture eccessivamente rigide e inutilmente forzate, poiché il suo hamni effettivo lo ha oramai interiorizzato [14].

Una simile condizione la si ritrova anche nella pratica dello Aiki-ken, in cui si utilizza un simulacro in legno che riproduce in peso, forma e dimensiono il katana, la nota spada giapponese. A mancare – rispetto all’originale – oltre che ovviamente il filo tagliente, è la tsuba, la guardia paramani posta tra l’impugnatura e la lama. La mancanza di una parte così importante di un’arma bianca, presente il tutte le tipologie di sciabole, spade e pugnali, ha anche in questo caso una motivazione didattica: la tsuba manca perché saranno le anche dello aikidoka, opportunamente poste in sankaku tai, a svolgere quel lavoro di protezione solitamente affidato alla guardia paramani, sia nelle posizioni di guardia statica che nelle parate dinamiche di fendenti e stoccate, in cui è proprio il corretto movimento di torsione delle anche a generare la forza e l’energia necessarie per deviare l’arma avversaria.

La chiusura del Cerchio

Potremmo (o dovremmo…) finire qui, ma avendo richiamato all’inizio del precedente capitolo le tre forme sacre dell’Aikido ed avendone trattate solo due, corre l’obbligo di completare la triade.

Ouroboros, the snake that feeds on itself

Se il Quadrato rappresenta il mondo materiale ed esprime la ferma staticità del profano ed il Triangolo raffigura il praticante di Aikido in itinere ed il mondo spirituale, il Cerchio è l’immagine dell’ineffabile mondo divino e – di riflesso – del praticante giunto al termine del suo percorso. Una condizione ovviamente ideale poiché nessuno mai potrà dire di non aver più nulla da imparare e – anzi – tutti i Maestri sono concordi nell’affermare che condizione necessaria per continuare il nostro percorso formativo, per quanto ampia possa essere la nostra esperienza, è di mantenere la “mente del principiante”. Il Maestro torna studente, l’ouroboro si nutre di sé stesso e ciascun punto della circonferenza è partenza ed arrivo allo stesso tempo, in un percorso che – a differenza degli altri due poligoni – non ha angoli e deviazioni nette ma un continuo e costante armonizzarsi al viaggio scelto.

In Aikido il Cerchio è assimilato alle tecniche eseguite in modalità ura in cui non si contrasta l’attacco del partner, ma lo si accoglie “lasciandolo passare” per poterlo controllare. Una simile azione, oltre a richiedere un tempismo ed una sensibilità particolare [15] può avere anche un significato simbolico particolarmente interessante: prendendo ad esempio le fasi iniziali di una tecnica fondamentale come shomen uchi ikkyo che nel programma del Takemusu Aikido che si rifà alla didattica di Saito Morihiro Shihan è di fatto la prima tecnica studiata, mentre nella versione omote è Tori [16] che che con la sua entrata “costringe” Uke ad eseguire una rotazione sul suo asse verticale di quasi 180° e quindi ad assumere il suo “punto di vista”, nella versione ura è invece Tori a ruotare, finendo per guardare nella stessa direzione di Uke. Come spiegava il M° Paolo Nicola Corallini nell’illustrare l’esercizio dei tai no henko, così facendo Tori si “mette al fianco” di Uke, non lo forza – più o meno violentemente – a cambiare idea e modus operandi ma piuttosto gli dimostra praticamente la inutilità della sua azione aggressiva e lo affianca per guidarlo lungo un percorso comune.

Morhiro Saito, Tai no Henko

Aldilà della valutazioni pratiche di opportunità di una simile azione, questa scelta richiede a Tori una sufficiente consapevolezza dei suoi mezzi e delle sue capacità. Non basta credere di essere dalla parte del Bene per poter affrontare senza rischi una incursione nella parte del Male per trarre a noi il partner che ancora vaga nella sua “selva oscura”; come acutamente notava Nietzsche: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te” ed il rischio di ritrovarsi come novelli Dart Vader, dal lato oscuro della Forza è sempre in agguato. Ecco allora che – se avremo operato con costanza e sincerità – quella metà di noi che sacrificheremo per assumere hamni saranno le scorie e la materia brute dalla cui putrefactio potrà alimentarsi il processo di raffinazione intimo, sempre consapevoli che – come ci mostra il simbolo del T’ai Chi T’u, nel Bianco c’è sempre un po’ di nero e nel Nero c’è sempre un po’ di bianco.

Conclusioni

Come negli scritti precedenti, ai miei Maestri e prima e più di tutti a Paolo N. Corallini, va il ringraziamento per avermi fornito insegnamenti e stimoli che hanno originato le riflessioni proposte. Sono ovviamente da attribuire esclusivamente al sottoscritto tutti gli errori e le imprecisioni che inevitabilmente affliggono queste righe che – come ricordo sempre (soprattutto a me stesso) – non vogliono offrire risposte ma proporre domande.

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Note

[1] Shihan è un termine onorifico solitamente riservato agli insegnanti, che possiamo tradurre come “persona da imitare”

[2] Sorta di gonna-pantalone indossata dai praticanti di alcune Arti (non solo marziali) giapponesi

[3] Abbigliamento di pratica, costituito da giacca e pantalone di robusto cotone bianco

[4] Affermazione paradossale o racconto usato nello Zen per aiutare la meditazione e quindi “risvegliare” una profonda consapevolezza

[5] Una delle più antiche Scuole di Arti marziali giapponesi, che faceva riferimento al Clan Aizu – Takeda

[6] Letteralmente “tecnica del corpo”, termine con cui nelle arti marziali giapponesi si indica la pratica a mani nude

[7] Posizione defilata del corpo, in cui la linea che taglia in mezzo il piede anteriore passa per l’alluce del piede posteriore

[8] All’argomento sono stati dedicati diversi scritti ed approfondimenti, a cui si rimandano gli interessati.

[9] Non casuale l’evocazione de “Il Visconte dimezzato”, racconto di Italo Calvino

[10] Si veda, per maggiori approfondimenti, l’analogia con i concetti dei “Tre Tesori” della Medicina Tradizionale Cinese che derivano l’una dalla progressiva raffinazione dell’altra e rappresentano le energie essenziali che sostengono la vita umana: Jing 精 “essenza nutritiva, essenza; rifinito, perfezionato; estratto; spirito, sperma, seme”. Qi 氣 “vitalità, energia, forza; aria, vapore; spirito, vigore; attitudine”. Shen 神 “spirito; anima, mente; dio, divinità; essere soprannaturale”.

[11] A quanto sopra bisogna aggiungere, per confortare i lettori meno sensibili agli aspetti più lontani dalla tecnica materiale, che la posizione dei piedi ortogonali è anche (se non soprattutto) un espediente utilizzato proprio per abituare il praticante ad assumere una complessiva postura di sankaku tai. Raggiunto un sufficiente grado di esperienza ed un adeguato controllo del proprio corpo, il praticante scoprirà che in realtà il motore (neppure troppo immobile, anzi!) di tutte le tecniche sono le anche, e che essendo queste la “cerniera” tra la parte superiore ed inferiore del corpo è l’opportuno posizionamento di queste che genera la potenza elastica necessaria alla esecuzione delle tecniche di Aikido.

[12] Armonia, coordinazione, capacità di muoversi insiema al partner, non solo fisicamente

[13] Letteralmente “annodare”, indica la capacità di mantenere la connessione psicofisica con il partner

[14] Concetto simile è espresso dalla triade Shu Ha Ri che esprime il progresso tecnico del praticante di Arti nipponiche rispetto ai suoi modelli didattici di riferimento

[15] Particolare interessante, mentre in Aikido le tecniche in versione omote ed ura vengono studiate insieme, nel Daito Ryu Aikijujutsu che – come detto – è la Scuola da cuo il Fondatore dell’Aikido ha tratto gran parte dell’ispirazione per il suo bagaglio tecnico, solo le tecniche in omote venivano studiate sin da subito e dimostrate pubblicamente, mentre le tecniche i ura erano riservate solo ai praticanti più esperti e studiate a porte chiuse.

[16] Le figure di Tori e Uke individuano i due ruoli che grossolanamente potremmo individuare come “difensore” e “attaccante”. Ovviamente c’è molto più di questo ma non è qui possibile approfondire oltre l’argomento.


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